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bambina foto dimatteo shobha vert“Meno una persona conosce dei lavori delle istituzioni sociali nella sua società, più deve aver fiducia in coloro che detengono il potere in essa; e più egli ha fiducia in coloro che detengono tale potere, più si rende vulnerabile di diventare la loro vittima”. Chissà, forse le parole del noto psichiatra ungherese Thomas Stephen Szasz ci possono aiutare ad analizzare la schizofrenica motivazione della sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Palermo presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania) sulla trattativa Stato-mafia. Da una parte leggiamo parole come pietre sull’operato dei Carabinieri del Ros e sui loro capi, o sullo stesso Dell’Utri, che si possono sintetizzare così: la trattativa tra Stato e mafia c’è stata, i Carabinieri hanno favorito la latitanza di Provenzano in modo soft, e la mancata perquisizione del covo di Riina è stato un vero e proprio segnale per incoraggiare un dialogo a distanza così da rafforzare la trattativa in corso; sono conclamati i rapporti di Dell’Utri con esponenti mafiosi fino al ‘94 (e non fino al ‘92, come stabilito dalla sentenza che ha condannato lo stesso Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa). Di contraltare, proseguendo nella lettura, ci imbattiamo nella negazione della logica ricostruzione dei fatti riportata nella sentenza di primo grado. Negazione di quel filo sottile che unisce a tutti gli effetti quegli avvenimenti all’interno di un unico disegno criminale firmato da mafia e Stato. In questo caso invece i giudici di appello si adoperano in una sorta di reinterpretazione dei fatti in chiave giustificazionista, un colpo al cerchio e uno alla botte, della serie: se è stato fatto in questo modo andava bene così. Ergo: negazione della verità. Probabilmente basterebbe notare che la sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Palermo è a dir poco in sintonia con lo status di un Paese allo sfascio come il nostro. Un Paese nel quale da sempre viene negata la verità sulle stragi di Stato. Che non vuole processare se stesso. Che ostacola - fino alle estreme conseguenze - chi osa cercare quella verità, chi si azzarda ad aprire gli armadi della vergogna. Ed è proprio quello stesso Stato che nega oggi l’evidenza dei rischi di una possibile guerra nucleare mentre imperterrito continua ad inviare armi all’Ucraina. Uno Stato che nega il vilipendio della Costituzione perpetrato dai governi succedutisi in questi ultimi due anni che hanno fatto scempio dei diritti più basilari. Uno Stato che attraverso la peggiore “riforma della giustizia” nega esattamente il diritto alla giustizia che appartiene ad ogni cittadino, così come il diritto alla verità che spetta a tutti i familiari delle vittime delle mafie e del terrorismo. Ed è proprio questo Stato che non merita i suoi migliori servitori - ieri come oggi - sacrificati sull’altare di una trattativa. La cui esistenza viene quindi confermata dagli stessi giudici - al punto di definirla “un’improvvida iniziativa” del Ros - per poi poeticamente chiarire che è stata fatta con “fini solidaristici”, a “tutela di un interesse generale - e fondamentale - dello Stato”. Specificando di seguito che c’erano “indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra”. E quali sarebbero queste “indicibili ragioni” di Stato? E soprattutto: di quale Stato stiamo parlando? Lo Stato-mafia? Certo è che le 3000 pagine della sentenza vengono in parte smentite da un’altra sentenza - questa sì definitiva e irrevocabile - e cioè quella di Firenze sulle stragi del ‘93 secondo la quale la strategia del Ros di contattare Vito Ciancimino ha effettivamente rafforzato in Totò Riina la convinzione che l’attacco allo Stato avesse ottenuto i risultati sperati inducendo Cosa Nostra a fare altre stragi. In sostanza: le stragi di via d’Amelio (lungi dall’essere collegata unicamente al fantomatico dossier su mafia e appalti), così come quelle di Roma, Firenze e Milano, potevano essere evitate se dallo Stato non fosse stata portata avanti con spregiudicatezza quella maledetta trattativa con la mafia. Per intenderci, in una di queste stragi, nello specifico quella dei Georgofili a Firenze, sotto le bombe di Matteo Messina Denaro e dei suoi sodali di Stato, è finita l’intera famiglia Nencioni, tra cui due bambine di 8 anni e 50 giorni, assieme al giovane studente di 22 anni Dario Capolicchio: tutti uccisi dal tritolo di quel dialogo Stato-mafia dai “fini solidaristici”.
La sentenza di Palermo piomba quindi nel bel mezzo di un’estate rovente con la gente anestetizzata, annichilita, disillusa e sgomenta da ciò che sta vivendo e da ciò che l’aspetta. Un’intera società che è già disgustata dei deliri dell’improvvisa campagna elettorale in vista delle prossime elezioni politiche. Dietro l’angolo si prospetta un autunno gravido di tensioni sociali, carenza di lavoro, fame vera e propria; col rischio concreto di vedere tornare il più becero fascismo - sapientemente mascherato - pronto a riportare in auge leggi a dir poco razziali, con conseguente mortificazione dei diritti.


nadia caterina nencioni

Nadia e Caterina Nencioni, vittime della strage dei Georgofili a Firenze tra la notte del 26 e 27 maggio del 1993


E allora trattativa sia, trattativa libera tutti! Così che Dell’Utri (nonostante per i giudici siano conclamati i suoi rapporti con esponenti mafiosi fino al ‘94) possa strizzare l’occhiolino a Mori, De Donno e Subranni, al di là dei giudizi impietosi scritti nero su bianco su questi soggetti. Ma tanto in Italia chi le legge 3000 pagine di sentenza? Sono stati assolti, no?! E i mafiosi? In fondo i giudici ribadiscono che lo Stato trattava con la mafia a fin di bene, giusto? Quindi i morti delle stragi del ‘92 e del ‘93 possono essere tranquillamente catalogati sotto la dicitura “effetti collaterali” di una trattativa che mirava comunque alla “salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale”.
“Ingeneroso coinvolgere Scalfaro e Conso”, addirittura “fuorviante”, e “frutto di un errore di sintassi giuridica”, scrivono i giudici. Bontà loro. Chissà se si può definire ugualmente “ingeneroso”, o “fuorviante”, un presidente della Repubblica come Giorgio Napolitano che è entrato a gamba tesa nel processo sulla trattativa di primo grado facendo il possibile per ostacolarlo e bloccarlo, dando quindi l’impressione di voler impedire a tutti i costi che si facesse luce sulle zone d’ombra. Quello stesso presidente della Repubblica che, chiamato a testimoniare, ammetteva - con il turbamento palpabile di chi sa di camminare sui carboni ardenti - che le bombe del ‘92 e del ‘93 erano state un “ricatto a scopo destabilizzante di tutto il sistema”.
Uno dopo l’altro, però, gli anziani protagonisti di quella terribile stagione di ferro e fuoco stanno morendo portandosi nella tomba segreti inconfessabili. Decisamente “ingenerosi”, questi poveri vecchi.
Vero è che un’ulteriore peculiarità di questa sentenza sta nel fatto che dopo quasi un anno di attesa le motivazioni arrivino sotto i riflettori il 6 di agosto, il giorno dell’anniversario delle bombe atomiche sganciate sul Giappone nel ‘45. Come è noto gli effetti devastanti di quelle bombe si sono protratti nei decenni a venire. Fatti i dovuti distinguo con una simile tragedia, è lecito domandarsi se gli effetti di una sentenza del genere, nella sua schizofrenica forma e sostanza, possano subire un simile destino, o possano dare invece qualche spunto da cui ripartire, come velatamente lasciano trasparire gli stessi giudici nelle loro conclusioni.
Ipotesi a parte, il messaggio che - volente o nolente - arriva agli investigatori è sempre più palese: fate indagini come questa e vi ritrovate soli, delegittimati, con la carriera segnata, a rischiare la vita sotto il “fuoco amico”. Oppure potete scegliere diversamente: tenete un basso profilo, non cercate verità scomode, così che prestigio e carriera saranno assicurati senza alcun rischio per la vostra incolumità. Tanto poi chi se ne fotte in questo Paese della verità sulle stragi di trent’anni fa!
E’ tutto finito, quindi? No. A dispetto di un dilagante “pessimismo cosmico” in stile Leopardi, vi è ancora un barlume in fondo al tunnel. C’è ancora chi si ostina a cercare quella piccola luce accesa da chi ha applicato semplicemente il principio sacrosanto della legge uguale per tutti. Uomini integerrimi, Nino Di Matteo in primis, che non hanno avuto remore a sacrificare la propria esistenza per la ricerca della verità, per consegnare alle nuove generazioni un futuro senza mafia e senza trattative. La sentenza della Corte d'Assise di Appello di Palermo non sposta perciò di una virgola il loro immane sacrificio, resta quindi intatto il loro mastodontico lavoro: un punto fermo di una pretesa di verità. Che non è finita.

Foto di copertina © Shobha

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