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Il fatto c'è, ma "non costituisce reato". Restano condannati per la minaccia allo Stato solo i boss. Assoluzione per Dell'Utri, Subranni, Mori e De Donno

Assoluzione. Non per pochi, ma per tutti gli imputati istituzionali. Gli ufficiali dell'Arma Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni “perché il fatto non costituisce reato”, nonché l'ex senatore Marcello Dell'Utri “per non aver commesso il fatto”. Diversamente, in parziale riforma della sentenza dei giudici di primo grado, è stato dichiarato il “non doversi procedere” nei riguardi di Leoluca Bagarella, “limitatamente alle condotte commesse in pregiudizio del Governo presieduto da Silvio Berlusconi, previa riqualificazione del fatto, ai sensi dell'art.56 c.p., come tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello Stato”. Con questa nuova imputazione, si legge nel dispositivo della Corte, “il reato è estinto per intervenuta prescrizione; e per l'effetto ridetermina la pena nei riguardi di Bagarella a 27 anni”.
Al contempo è stata confermata la sentenza nei riguardi di Giovanni Brusca, il cui reato era stato dichiarato prescritto già in primo grado, e per il boss Antonino Cinà.
E' la decisione della Corte d'Assise d'Appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania). Dopo tre giorni di camera di consiglio all'aula bunker Pagliarelli di Palermo, in un clima surreale, alla presenza di ogni organo di informazione possibile (mai così presenti durante l'intero processo di secondo grado iniziato il 29 aprile 2019), è stato letto il dispositivo della sentenza che di fatto ribalta quella di primo grado.
Il 20 aprile 2018 erano stati condannati a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri e per Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto anni di detenzione erano stati inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella.
Alla luce del nuovo verdetto è facile pensare che domani la solita pletora di giornaloni, con tanto di commenti di professoroni, giustificazionisti e negazionisti della trattativa, darà addosso a quel pool di Palermo (da Antonio Ingroia a Nino Di Matteo, passando per Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) che hanno avuto il coraggio di indagare, ottenere il rinvio a giudizio e le condanne in primo grado nei confronti di boss, ufficiali dell'Arma e politici.


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Saranno pronti ad urlare che la trattativa non è mai esistita e che l'accanimento dei magistrati contro i propri assistiti è stato uno scandalo.
La verità è che l'esistenza della trattativa in sé non si può mettere in dubbio. Tanto che, leggendo il dispositivo, spiegano che la trattativa tra uomini dello Stato ed esponenti di Cosa nostra c’è stata, ma non costituisce reato.
Del resto gli stessi carabinieri avevano “ammesso” quei contatti, parlandone nel processo di Firenze sulle stragi del '93, giustificando l'operazione di contatto con Vito Ciancimino come un tentativo di fermare le stragi dopo l’assassinio di Salvo Lima e la mattanza di Capaci e superare il “muro contro muro” sorto fra Stato e Cosa Nostra. Ed anche De Donno parlò di “trattativa”: “A Ciancimino proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti di Cosa Nostra, al fine di trovare un punto di incontro… di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di questa attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, e Ciancimino accettò con delle condizioni”.
Del resto va ricordato che il reato contestato non era quello di trattativa in sé ma di minaccia a corpo politico o amministrativo dello Stato, prevista dall’articolo 338 del codice penale. Il tema non era quindi se prima i carabinieri e poi Dell’Utri abbiano trattato con la mafia, ma se abbiano turbato l’azione dello Stato, dal 1992 al 1994, veicolando la minaccia di Cosa Nostra attuata con le stragi e gli attentati nel periodo 1992-1994.
Sicuramente un peso può averlo avuto l'assoluzione definitiva nei confronti dell'ex ministro Dc, Calogero Mannino.
Quando nel 2018 arrivò la sentenza del giudice Montalto (a latere Stefania Brambille), c’era già l’assoluzione del 2015 del primo grado di Mannino.
Nelle motivazioni della Corte d'assise la questione, che andava a toccare da vicino in particolare la posizione dei carabinieri, fu in qualche maniera scavalcata: “Al Subranni, invero, deve ricondursi l’ideazione della trattativa con i vertici mafiosi da cui ebbe a scaturire la minaccia rivolta da questi al governo della Repubblica. Subranni, infatti, ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva - deve dirsi, peraltro, fondatamente - di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta (…) In tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto, che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa Nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”.


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Da oggi scattano i 90 giorni entro i quali la Corte dovrà motivare la sentenza e allora si capirà perché, e soprattutto con che valutazioni, è stata ribaltata una sentenza che con oltre cinquemila pagine di motivazioni aveva confermato il valore nefasto di quell'interlocuzione tra i carabinieri e l'ex sindaco mafioso di Palermo.
Perché la storia insegna che anche nelle assoluzioni vi possono essere delle considerazioni di rilievo.
E c'è da capire il ruolo riconosciuto al medico di fiducia di Totò RiinaAntonino Cinà, condannato a 12 anni di reclusione, appunto, per il reato di violenza o minaccia a corpo politico. Secondo l'impianto accusatorio, così come scritto nella memoria della Procura di Palermo, depositata a novembre 2012 nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa, i boss mafiosi Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e proprio il “postino” del papello Antonino Cinà, sono “gli autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia ad un Corpo Politico dello Stato, in questo caso il Governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima”.
Il papello, secondo la ricostruzione della pubblica accusa, sarebbe stato consegnato da Cinà al figlio di Vito Ciancimino, il sindaco mafioso di Palermo con cui gli uomini del Ros si interfacciavano. Ma del papello e di Cinà avevano parlato, pur offrendo indicazioni diverse, anche Pino LipariTotò CancemiGiovanni Brusca e Nino Giuffré. Ed anche lo stesso Vito Ciancimino, nei primi interrogatori ai pm nel 1993, lo definì come interlocutore a cui avrebbe raccontato del colloquio con i carabinieri.
Leggeremo attentamente le motivazioni della sentenza, quando verranno pubblicate. Perché i fatti ed il numero di prove portate in questi anni di inchieste e processi sono molteplici.
In pochi ricordano che Mannino fu assolto “per non aver commesso il fatto”, ma mai il fatto è stato ritenuto insussistente.
Ci sarà anche da capire con quale motivo la Corte ha assolto Marcello Dell'Utri (già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa), giudicato in primo grado colpevole per il suo ruolo di ‘mediatore’ nel periodo successivo alla vittoria di Forza Italia nel 1994.
I giudici della Corte d'assise avevano ricostruito la storia degli incontri che l'ex senatore avrebbe avuto con Vittorio Mangano nel 1994 per parlare delle modifiche legislative delle norme sugli arresti dei boss che Cosa Nostra chiedeva al governo Berlusconi, partendo dal racconto del collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza (nel frattempo deceduto).
Ma nel processo per concorso esterno il collaboratore non era stato ritenuto attendibile tanto che i giudici condannarono Dell'Utri solo per i fatti compiuti fino al 1992. Anche in questo caso la Corte d'assise in primo grado superò quel giudicato valutando elementi nuovi, inseriti in un contesto d'insieme più ampio.
Evidentemente questa Corte ha fatto altre valutazioni.


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Certo è che senza le indagini ed i processi non avremmo mai saputo dell'esistenza di documenti importanti come le agende dell'ex Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi.
In quelle carte viene svelato il forte dibattito istituzionale sul 41bis e sulla linea da adottare. Un passaggio in cui particolarmente coinvolto era l'allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
E nel processo è evidente che Scalfaro, sentito dai magistrati il 15 dicembre 2010, non ha detto il vero quando ha assicurato di non saper nulla sull'avvicendamento ai vertici del Dap.
Poi ci sono state le dichiarazioni dell’ex ministro della giustizia Claudio Martelli che ha apertamente parlato di una “dialettica bombe-concessioni” che aveva portato ad un "cedimento unilaterale da parte dello Stato".
E come non ricordare le parole dell’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ascoltato in un’udienza straordinaria al Quirinale, il 28 ottobre 2014, aveva detto che le bombe del ’92 e ’93 furono un “aut-aut” allo Stato, un “ricatto a scopo destabilizzante di tutto il sistema”.
Quello stesso Napolitano che aveva contribuito ad alzare i toni delle polemiche attorno al processo avviando un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo per la nota vicenda delle intercettazioni tra lui e l’allora imputato Nicola Mancino. Telefonate che i pm hanno sempre definito irrilevanti e che sono state poi distrutte dopo la decisione della Consulta.
Mancino è uscito di scena dal processo dopo il primo grado, con un'assoluzione per falsa testimonianza divenuta definitiva dopo il mancato ricorso della Procura.
E' un dato di fatto che per oltre vent'anni testimoni eccellenti hanno taciuto ciò che sapevano su quegli anni tragici. E il fiume di “non ricordo” e “non sapevo” si è visto anche in aula.
Ecco perché vi è ancor più onore nel lavoro prezioso dei magistrati del pool di Palermo. Nei loro confronti il Paese è comunque in debito. Perché sono andati avanti nonostante le aggressioni verbali subite, le campagne mediatiche ostili, nonostante il silenzio dei vertici delle istituzioni che più volte si è trasformato in vero e proprio ostruzionismo.
Senza il loro impegno non sarebbe mai stato acceso un faro sullo Stato-mafia, sui sistemi criminali che si sono mossi dietro le stragi, e sulle operazioni quantomeno opache messe in atto mentre il Paese veniva dilaniato dalle bombe. Una storia che gli italiani onesti non potranno mai dimenticare.

Foto © ACFB

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