La testimonianza del generale Pellegrini nel processo d'appello
“Pietro Riggio? Il suo nome mi fu fatto da un personaggio che non ricordo, ma probabilmente forse ho anche trovato il nome riguardando le mie vecchie carte. Una persona, probabilmente dei servizi, che mi fu segnalata da un collega. Io ho il dubbio se mi è stata segnalata da una collega della Dia o della Territoriale. Potrei anche identificarla penso, ma non lo so dire di preciso. Mi è venuto un dubbio e lo farò presente al Procuratore Paci (reggente presso la Procura di Caltanissetta)”. A parlare è Angiolo Pellegrini, generale dei carabinieri in pensione ed ex capocentro della Dia a Reggio Calabria, Roma e Palermo, sentito oggi nel processo trattativa Stato-mafia, in corso davanti alla Corte d'assise d'Appello, presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania).
Rispondendo alle domande dei sostituti procuratori generali, Giuseppe Fici e Sergio Barbiera ha cercato di spiegare le modalità con cui venne in contatto con il collaboratore di giustizia nisseno, che al tempo avviò un rapporto confidenziale con la Dia.
Una testimonianza a tratti confusa, specie quando si è trattato di individuare la genesi di quel rapporto e chiarire il ruolo di alcuni soggetti. “A Roma lo conobbi in modo particolare - ha ribadito - Mi venne segnalato che c'era una persona che lo aveva conosciuto in carcere e che Riggio era disponibile a dare indicazioni su Bernardo Provenzano. Incontrai questa persona, che si chiamava Antonio Mazzei, classe'48, a Caserta. E mi disse che Pietro Riggio conosceva cose di Provenzano. Ne parlai con il vice direttore operativo della Dia, Cesare Palazzo. Sapevo che il dottor Chelazzi svolgeva indagini in ambito del procedimento 'Abisso' per capire se dalle carceri fosse arrivato qualche input per le stragi. Tenuto conto che Riggio era un ex agente di custodia ne parlai con Pierluigi Vigna e con lo stesso Chelazzi. Il motivo? Io avevo un interesse particolare per Provenzano. Mi occupai di lui arrivando a scoprire le sue attività imprenditoriali, nonostante il personale limitato. Venire a sapere che qualcuno poteva dare informazioni su Provenzano stimolò molto il mio interesse”.
Mazzei non era un uomo comune. Pellegrini gli diede anche un soprannome: “il Principe”. “Vestiva in modo appariscente, come fosse un nobile. Mi pare di ricordare che avesse un anello con le sue iniziali”. Un tratto distintivo, quest'ultimo, che era stato anticipato anche al pentito nisseno che lo aveva indicato come soggetto appartenente ai Servizi.
Consultando alcune agende dell'epoca, acquisite al processo, Pellegrini ha confermato le date degli incontri avvenuti nell'estate 1999: “Il 2 luglio incontrai Mazzei e gli dissi che non avrei fatto colloquio investigativo con Riggio ma che sarebbe stato interrogato il 7 luglio da Chelazzi e che se avesse avuto qualcosa da dire l'avrebbe potuta dire a Chelazzi”. In quella data del 7 luglio Pellegrini ebbe modo di avere un incontro informale, precedente all'interrogatorio di Chelazzi, a cui presenziò anche Mazzei. Quell'incontro, secondo quanto detto dal teste, “fu casuale. Un'occasione per capire se effettivamente c'era qualcosa su Provenzano”. Nonostante i ripetuti tentativi di chiarimento da parte dei due magistrati e dello stesso Presidente della Corte, non si è ben compreso a che titolo potesse partecipare a quella chiacchierata.
“Mazzei era un ex detenuto, non so cosa facesse di preciso - ha spiegato - Se era dei Servizi? Probabilmente, visto che chi me lo ha presentato era qualcuno dei Servizi, ma non mi disse che era collaboratore”. E poi ha aggiunto rispondendo ad una domanda del Presidente Pellino: “Lui era un trait d'union. Uno che disse che Riggio era disponibile a collaborare per dare notizie su Bernardo Provenzano”. Di quel colloquio informale il generale avrebbe parlato anche con Chelazzi il 28 luglio: “Io manifestai a Chelazzi il mio interesse per Provenzano. Venni a sapere che Riggio con Chelazzi non voleva collaborare e gli dissi che la mia impressione era che il suo intento fosse uscire dal carcere per poi tentare di infiltrarsi nell'ambiente per poter arrivare a Provenzano”.
Nel corso dell'esame, però, l'ex capocentro della Dia ha riferito di non aver mai stabilito con Riggio un'infiltrazione in Cosa nostra, ma ha confermato il rapporto di collaborazione, tanto che furono anche informati i vertici della Direzione centrale ed anche l'autorità giudiziaria nelle persone dei magistrati Leopardi e Messineo a Caltanissetta e Prestipino a Palermo.
L'operazione “Crepuscolo”
Nel 2001 venne inviata anche una lettera della Dia dando un nome all'operazione, chiamandola “Crepuscolo”. Pellegrini ha anche confermato la circostanza per cui Riggio “riferì che un suo conoscente, tale Peluso, per conto della criminalità doveva venire a Palermo a fare qualcosa. Io andai a parlare con Grasso a Palermo. E chiesi la possibilità di fare intercettazioni sulle utenze di Peluso. Grasso disse che non c'erano elementi sufficienti per fare intercettazioni. Vista la risposta io chiesi al primo reparto della Dia la possibilità di fare intercettazioni preventive. Durarono 4 mesi, ma non emerse nulla. Anzi ricordo anche considerazioni pesanti, come se Peluso fosse un millantatore o un truffaldino”.
Se in un primo momento Pellegrini ha detto di “non sapere quale fosse l'episodio criminale particolare a cui fece riferimento Riggio”, dopo la lettura in aula dell'informativa del gennaio 2001 in cui si fa anche riferimento ad un'ipotesi di attentato, ha ribadito: “Io non ho fatto considerazioni, ma ho riferito quello che diceva Riggio. Anche in merito alla spaccatura in Cosa nostra già emergeva che Provenzano avesse preso le distanze da Riina e che tenesse più agli interessi finanziari ed economici".
Pellegrini ha anche spiegato i motivi per cui solo a partire da maggio vennero protocollate le relazioni di servizio: “Venne il dubbio che Riggio approfittasse delle sue attività per chiedere soldi in giro. Venimmo a conoscenza che era sottoposto ad indagine dal Ros e così decidemmo di cristallizzare tutto”. Al contempo ha negato che al Riggio fu detto di infiltrarsi delinquendo: “Lui doveva solo riferire quello che sapeva. Era una fonte ed aveva parenti mafiosi. Doveva essere un ectoplasma ed allargarsi nel territorio. Cosa chiedeva in cambio? Di essere reinserito nella polizia penitenziaria. Le sue informazioni non erano false, ma riguardavano personaggi di primo piano. Veniva fuori anche riferimenti a persone con precedenti penali e quelle informazioni andavano sviluppate. Anche se poi non ci portarono a Provenzano”.
Successivamente a salire sul pretorio è stato il colonnello Tersigni che se in un primo momento aveva solo accompagnato Pellegrini agli incontri con l'allora confidente nisseno, poi ha gestito in prima persona il rapporto.
Questi ha raccontato che Pellegrini lo coinvolse solo in un secondo momento e che nulla gli fu detto rispetto alle dichiarazioni pregresse dei mesi che vanno dal gennaio all'aprile 2001. Ciò significa che nulla seppe rispetto al “fatto eclatante da compiersi a Palermo” a cui Riggio fece riferimento. Il pentito, quando è stato sentito nel processo, aveva dichiarato di averne parlato con entrambi gli ufficiali, ma Tersigni ha negato in maniera categorica la circostanza, come di aver offerto denaro per l'eventuale arresto di Emmanuello. Invece ha confermato il tentativo di coinvolgere Carmelo Barbieri proprio per giungere alla cattura del latitante.
Il processo è stato poi rinviato al prossimo 8 febbraio con la Procura generale che ha già annunciato di voler rinunciare all'esame testimoniale della dottoressa Ferraro.
In apertura di udienza, infine, è stata data notizia che il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca si trova in isolamento in quanto ha contratto il Covid-19. Brusca in primo grado è stato assolto per intervenuta prescrizione, visto il riconoscimento delle attenuanti specifiche per i pentiti.
(18 Genaio 2021)
Foto originali © ACFB/Imagoeconomica
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