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di Aaron Pettinari
Le dichiarazioni dell’Ambasciatore Francesco Paolo Fulci, ex capo del Cesis; l'anonimo “Corvo 2”; il rapporto “mafia-appalti”; la posizione di Subranni; le parole di Agnese Borsellino e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. E' su questi punti che si è concentrato Basilio Milio, avvocato difensore degli ex ufficiali dell'Arma Antonio Subranni e Mario Mori, nella sua arringa odierna al processo trattativa Stato-mafia. Fulci aveva parlato di due cartine geografiche mostrategli da un suo fidato analista: una con i luoghi da dove partivano le telefonate targate “Falange Armata”, sigla utilizzata ad intermittenza per rivendicare stragi e omicidi eccellenti, e l’altra con le ubicazioni delle sedi periferiche del Sismi. Ebbene quelle due cartine, a suo dire, erano perfettamente “sovrapponibili”. L'ex Ambasciatore aveva anche parlato di un elenco di nomi di agenti dei Servizi addestrati a maneggiare esplosivi, appartenenti alla “VII divisione” e degli “Ossi”, per verificare se nei giorni delle stragi del ’93 di Roma, Firenze e Milano quegli stessi 007 si fossero trovati nei paraggi dei luoghi degli attentati.
L'avvocato Milio ha sostenuto che quelle dichiarazioni erano già state oggetto di indagine della Procura di Roma e che lo stesso procedimento fu archiviato e quegli argomenti posti da Fulci furono definiti come “meri sospetti”. E se nelle agende di Ciampi si dà conto delle dichiarazioni dell'Ambasciatore con la trasmissione degli atti alla magistratura romana negli appunti dell'ex Presidente del Senato Giovanni Spadolini si fa riferimento alla Falange Armata definendola come “uno degli strumenti della strategia di ricatto alle istituzioni della mafia supportata da rigurgito massonico”. Secondo il difensore quelle parole dimostrerebbero come nella consapevolezza della minaccia di Spadolini “vi è la prova che questa non fu fatta tramite gli ufficiali dei carabinieri, mai menzionati”.

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Il generale Mario Mori


La vicenda “Corvo 2”
A cavallo tra la morte di Falcone e la morte di Borsellino, una lettera anonima di otto pagine, indirizzata a 39 destinatari (tra cui lo stesso Paolo Borsellino ed il Capo dello Stato), venne pubblicata sulle pagine de “La Sicilia”. Una missiva in cui si parlava del reinserimento dei latitanti nella società attraverso la dissociazione, dell’abolizione del 41 bis e del blocco della confisca dei beni alla mafia (elementi che verranno inseriti nel papello). Quell'anonimo, ribattezzato “il Corvo 2”, ripercorreva anche le tappe della discesa dell'onorevole Andreotti facendo riferimento a personaggi della Dc siciliana come Calogero Mannino e Piersanti Mattarella.
In data 8 luglio ‘92 l’anonimo era stato assegnato nella trattazione del procedimento proprio al giudice Borsellino; il 3 ottobre, in un biglietto indirizzato all’allora procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Giammanco, con allegato comunicato Ansa del 2 luglio 1992 in merito alla posizione del Ros sull’anonimo “Corvo2”, il generale Antonio Subranni scriveva: “Caro Piero ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull'anonimo delle otto pagine. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti Antonio”. Il comunicato allegato recitava così – Roma 2 luglio: “Sono illazioni ed insinuazioni, affermano dal comando generale dei carabinieri riportando valutazione degli organi operativi che stanno valutando il documento, (Ros e Sco) che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti. Oggi si può responsabilmente affermare che talune situazioni – proseguiva la nota – appaiono talmente assurde e paradossali da evidenziare in modo addirittura puerile con cui si cerca di delegittimare gli esponenti politici siciliani e nazionali nel documento indicato”. Secondo l'accusa una sorta di “indicazione” all’archiviazione nel tentativo di proteggere Mannino. Ovviamente per Milio un'annotazione priva di effetti, in quanto “le indagini non vennero archiviate e proseguirono anche negli anni successivi. E le deleghe di indagine furono anche fatte al Ros”. Il legale è poi entrato nel merito del contenuto dell'anonimo che “è importante perché si parla anche di 'mafia-appalti'. Il dato è rilevante per inquadrare quella che sarà la materia di discussione tra Mori, De Donno ed il giudice Paolo Borsellino il 25 giugno 1992, alla Caserma Carini”.

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Paolo Borsellino © Shobha



La questione mafia-appalti
Secondo il difensore dei due ex ufficiali dell'Arma quel rapporto “non è come dice il pm 'la panacea difensiva di tutte i mali'” ma l'argomento di “interesse di Paolo Borsellino negli ultimi giorni della sua morte”. Secondo il difensore di questo si sarebbe occupato il giudice ucciso dalla mafia il 19 luglio del 1992 e per questo motivo si sarebbe recato alla Caserma Carini per parlare con i carabinieri. A detta del legale, dunque, “Borsellino non sarebbe stato affatto ostacolo di una trattativa in corso” ma sarebbe stato ucciso anche per il suo impegno su quelle indagini. Sarebbe quello a portare all'accelerazione per l'esecuzione dell'attentato. “Chi tocca il filo 'mafia-appalti' muore – ha detto ancora Milio – Borsellino ne parla alla Caserma dei carabinieri il 25 giugno 1992, ne parla con la dottoressa Ferraro il 28 giugno (ma parla anche degli incontri tra Ros e Ciancimino, ndr), ed interroga il pentito Leonardo Messina a Roma il 30 giugno ed il 1° luglio. Ed anche il 2 ne parla con un giornalista del Corriere della Sera”.
Nella ricostruzione Milio ha totalmente negato la vicenda della “doppia refertazione del rapporto”. I pm per ricostruire l'intera vicenda che al tempo creò un vespaio di polemiche, ha fatto leva sulla relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli datata 5 giugno ’98 dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”. Si evidenziava come la prima versione del rapporto del Ros, depositata il 20 febbraio 1991, fosse priva del nome di Mannino o di altri politici. Giovanni Falcone l'aveva ricevuta in quel giorno ma materialmente non se ne poteva occupare perché già designato come Direttore degli affari penali al Ministero e quindi la consegnò al Procuratore Pietro Giammanco per la riassegnazione. Il 25 giugno di quello stesso anno la Procura di Palermo, sulla base di quella informativa e di ulteriori approfondimenti investigativi, chiese l’arresto di sette dei soggetti denunciati nel rapporto: Siino, Li Pera, Farinella, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi. Per gli altri indagati il 13 luglio del ’92 venne chiesta l’archiviazione. Ed i nomi dei politici non c'erano né tra le richieste di custodia cautelare, né tanto meno tra le richieste di archiviazione.
Ed è a quel punto che scoppiò la polemica mediatica con la Procura di Palermo che venne accusata di aver fatto sparire la posizione di Mannino e di altri politici importanti. Addirittura comparvero stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti lo stesso Mannino. Secondo la ricostruzione dell'accusa il 5 settembre del ’92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, il Ros di Subranni depositò una seconda informativa mafia-appalti che conteneva espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi. Oggi però Milio ha chiesto l'acquisizione di un nuovo documento, “un'informativa del Ros, consegnata alla Procura già nel 1990” in cui “riportando un'intercettazione si fa il nome di Mannino”.

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Agnese Borsellino


Le parole di Agnese Borsellino
Leggendo stralci delle motivazioni della sentenza di primo grado Mori-Obinu, Milio ha anche parlato delle dichiarazioni di Agnese Piraino Leto la quale ai magistrati aveva raccontato come il marito, prima di essere ammazzato, le disse di aver saputo che Subranni era “punciutu” (termine per definite un affiliato a Cosa Nostra). E lo ha fatto persino riprendendo quelle parole del tutto gratuite di quei giudici che in sentenza scrissero: “Si riconosce, altresì, che qualche perplessità possa suscitare anche la inadeguatezza, rispetto alla tragica portata degli eventi, della motivazione (non offuscare la immagine dell'Arma) addotta per giustificare il silenzio serbato per tanti anni”.
Parole che non tennero affatto conto delle spiegazioni della donna che invece ai pm nisseni disse: “Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti”. Ma perché danno tanto fastidio le parole della moglie di Borsellino? Ai magistrati aveva sempre raccontato che “il 15 luglio 1992, verso sera, conversando con mio marito in balcone lo vidi sconvolto. Mi disse testualmente: ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu. Tre giorni dopo, durante una passeggiata sul lungomare di Carini, mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”. Ovviamente Milio ha ricordato l'archiviazione disposta dal Tribunale di Caltanissetta su richiesta della stessa Procura. Ma Milio si è anche spinto ad indicare nel giudice Signorino come quel soggetto a cui avrebbe potuto far riferimento Paolo Borsellino nella nota frase “un'amico mi ha tradito”.
Secondo Milio, nell'accusare Subranni vi è una motivazione “politico-ideologica” che si evincerebbe anche nelle indagini per depistaggio che vedono l'ex ufficiale indagato anche per il depistaggio dell'omicidio Impastato. Sminuite dal legale anche le dichiarazioni del collaboratore Di Carlo, del generale Gebbia e del teste Li Gotti. Nel corso dell'arringa, ancora una volta, Il “papello” è stato definito come “falso”, anche se i periti hanno già dimostrato come non vi sia traccia di manomissione, il “contropapello” come documento vero ma inserito nel contesto del libro “Le Mafie” di Vito Ciancimino e, Massimo Ciancimino come un “pataccaro” a cui “la Procura avrebbe dovuto contestare il 338 perché consapevole delle sue azioni ed il concorso esterno fino al 2002”.
Un contatto, quello tra i carabinieri e l'ex sindaco mafioso di Palermo, che il legale ha inquadrato, come da copione, all'interno di quelle “attività investigative” che vedevano quel rapporto come di tipo “confidenziale”. Il solito leitmotiv dietro cui si sono sempre trincerati i militari. “Non c’è l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria per i confidenti. Il confidente va sempre difeso - ha detto Milio rivolgendosi alla Corte - Non è che si possono predisporre pedinamenti. Altrimenti si mette in pericolo”. Al tempo stesso però, l’ufficiale di polizia giudiziaria ha l’obbligo di avvisare l’autorità giudiziaria e, come è scritto anche nella tanto decantata sentenza Mori-Obinu, stavolta quella di appello, “rimane davvero razionalmente inspiegabile - né gli imputati lo hanno spiegato in qualche modo - perché tutte le attività di indagine susseguenti all'incontro di Mezzojuso furono compiute in modo tardivo, non coordinato, e soprattutto burocratico, mediante l'invio di note a vari reparti, che fino a quel momento erano rimasti estranei alle indagini, assolutamente burocratiche e, soprattutto senza che da parte degli imputati fosse dedicata l'attenzione che la particolare delicatezza del caso senza ombra di dubbio richiedeva”. Il processo è stato rinviato a domani.

In foto di copertina: l'avvocato Basilio Milio e Antonio Subranni (© Ansa)

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