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aula tribunale0di Aaron Pettinari
La posizione di Subranni, il ruolo di Mannino, la morte del maresciallo Guazzelli, la vicenda Bellini, le parole di Riina e la Falange Armata. Ecco i temi oggi affrontati durante il secondo giorno di discussione dell’avvocato Basilio Milio, legale dell’ex Comandante del Ros e del generale Mario Mori, al processo trattativa Stato-mafia.
Un’arringa, quella odierna, dove strutture come “Gladio”, la rete clandestina dei servizi la cui esistenza è stata “rivelata" il 18 ottobre del '90 dallo stesso Andreotti, e poi definita dalla commissione stragi "struttura illegale e pericolosa”, vengono candidamente definite come un “presidio di libertà" e soggetti come l’ex numero 3 del Sisde Bruno Contrada (la cui sentenza di condanna per concorso esterno non è mai stata revocata ma è stata dichiarata ineseguibile) vengono riabilitati. Considerazioni che si affiancano a quelle sui servizi segreti deviati “inesistenti”, in barba ai fatti che hanno dimostrato come, per fare un esempio, i vertici dei Servizi che nel 1980 avrebbero dovuto indagare sulla strage di Bologna del 2 agosto, una delle tante stragi d'Italia ancora senza verità, invece s'impegnarono in prima persona a depistare le indagini.
Dopo aver incentrato ieri gran parte dell’intervento sulla ricorrenza del “ne bis in idem” oggi Milio è passato all’analisi delle prove leggendo in più di un’occasione la sentenza di assoluzione di primo grado nei confronti di Mori ed Obinu.
Molte testi potranno anche essere stati sentiti in entrambi i processi ma numerosi sono anche gli elementi che, rispetto al processo Mori-Obinu, appartengono esclusivamente a questo processo.
Su alcuni di questi testi, come Vito Galatolo o Carmelo D’Amico, il legale non ha voluto “spendere neanche una parola” addirittura, per il secondo, “stendendo un lenzuolo pietoso”.
Diversamente ha voluto parlare delle intercettazioni in carcere di Riina con Lorusso in quelle parti in cui parla del suo arresto per mano dei carabinieri e che a fregarlo sarebbero stati i Ciancimino ed il suo autista, Balduccio Di Maggio. “Riina - dice Milio - non se la prende neanche con Provenzano, dicendo che è ‘un amico’ e dice di avercela con quelli che accusano Provenzano di aver condiviso la strategia stragista”. Dichiarazioni che vengono fatte in concomitanza con l’esame del procuratore di Caltanissetta Sergio Lari. Ma nel suo flusso di coscienza in compagnia del boss pugliese Lorusso dice anche altro. Il 19 agosto 2013, infatti, esprime anche due concetti tutt’altro che benevoli nei confronti del suo compaesano. “Mi dispiace – esordisce Riina –, mi dispiace prendere certi argomenti, cioè… questo Binnu Provenzano chi è che gli dice di non fare niente? Qualcuno ci deve essere che glielo dice. Perché non devo fare niente? La cosa… quindi tu collabori con questa gente… a fare il carabiniere pure… e non dici… a rispondergli giusto, regolarmente, e dirgli: perché devo fare questo? Qual è il motivo… cioè?”. Chi sarebbe colui che avrebbe detto a Provenzano di “non fare niente” durante una fase della trattativa? E soprattutto a chi si riferisce Riina quando parla di “certa gente” con la quale Provenzano, a suo dire una sorta di “carabiniere”, avrebbe collaborato? “Erano i tempi di Binnu – prosegue il boss di Corleone – … inc… i tempi del piccolo Binnu sono finiti. Ai tempi miei, di Totò Riina… inc …u zu Totò Riina… solo trattava cose e persone importanti. Però… è inutile questo trio… di uomini… non ce n’è che a trovare le idee di un cristianu… che si mettono a disposizione per fare i carabinieri…”.
Chi sono queste persone e cosa intende dire il capo di Cosa Nostra quando si riferisce a coloro “che si mettono a disposizione per fare i carabinieri”?
Ed è forse alla luce di queste affermazioni che Riina, tra una parola e l’altra perde ogni certezza, dicendo che “per quello che gli risulta” Provenzano non lo ha mai tradito.

La cinghia di trasmissione
Milio e poi tornato sulle figure istituzionali coinvolte nel processo e di “tessere che non stanno in piedi”.
Secondo il difensore dei due ex ufficiali dell’Arma non vi è alcuna prova della “mediazione” e dell’esistenza di quella funzione di “anello di collegamento tra Cosa nostra e le istituzioni” di cui hanno parlato i pm nella requisitoria. Per il difensore non è imputabile ai carabinieri il mutamento della strategia stragista anche se vi sono sentenze, come quella di Firenze, che spiegano come quel dialogo avviato dai carabinieri hanno dato la convinzione a Cosa nostra che le stragi pagassero.
Milio ha quindi parlato delle accuse rivolte a Subranni in particolare rispetto al ruolo avuto da Mannino dopo l’omicidio Lima.
Secondo l'accusa, il politico cercò di aprire un canale con i boss temendo per la propria incolumità.
Il difensore, nella sua ricostruzione, non cita l’episodio del febbraio 1992 quando l’ex ministro democristiano ha ricevuto a casa una corona di crisantemi. Pur avendo capito perfettamente quale messaggio di morte rappresentasse, si guardò bene dal denunciarlo.
Qualche giorno dopo, però, confidò al maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli: “Ora uccidono me o Lima”. Cosa che poi avvenne quando il 12 marzo Salvo Lima venne assassinato a Mondello. Tre settimane dopo, il 4 aprile, anche Guazzelli venne barbaramente ucciso in modalità mai del tutto chiarite. Secondo gli inquirenti quell’assassinio sarebbe stato deciso per lanciare un ulteriore messaggio di minaccia proprio a Mannino ma anche al Ros, con cui il politico Dc si era messo in contatto temendo per la propria vita.
Nella ricostruzione Milio ha citato parti delle motivazioni della sentenza con cui il Gup Marina Petruzzella ha assolto Mannino per “non aver commesso il fatto” (“l’evento ipotizzato dall’accusa di un accordo tra Mannino e Cosa Nostra, per salvarsi e attuare un programma politico favorevole a una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontà ricattatoria stragista della mafia, le scelte del governo” all’iniziativa di Mori e De Donno di interloquire con Vito Ciancimino) ma non nel passaggio in cui è scritto che “i timori di Mannino, le sue iniziative per ricevere tutela da organi di polizia giudiziaria, senza sporgere denunce, le confidenze da lui fatte a Padellaro e a Mancino, confermano che Mannino scorgesse negli eventi i segni della minaccia, proveniente dai vertici corleonesi e che avesse consapevolezza che la minaccia fosse diretta anche al governo ed ai politici, soprattutto a quelli che, secondo Cosa nostra, avevano rotto il patto o che pubblicamente si vantavano di essere degli antimafiosi (il 12 marzo 1992 Mannino era ministro in carica del governo Andreotti, con Scotti e Martelli)”. Non solo. In un altro passaggio sui contatti con il Ros, il gup scrive: “è ragionevole ritenere che i descritti comportamenti di Mannino con Guazzelli e con i Ros siano stati determinati dalla volontà di trovare una protezione speciale, approfittando certamente della sua pregressa conoscenza con Subranni e dei privilegi che gli derivavano dal suo ruolo di potente politico”. E successivamente aggiunge: “non vi sono elementi sufficienti per escludere che Mannino si fosse limitato a chiedere ai Ros protezione dagli attentati e dalle indagini sul Corvo 2, anche con condotte non specchiate, perché ne volesse essere tutelato”.
Che il progetto di attentato nei confronti dell’ex ministro “era passato alla fase esecutiva”, è stato poi confermato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giovanni Brusca (“Nel 1992 Totò Riina, tramite Salvatore Biondino, mi diede l’incarico di uccidere Calogero Mannino, ma poi l’incarico mi venne revocato”) e successivamente Angelo Siino.
Ovviamente Milio ha anche sminuito l’appunto contenuto nelle agende del colonnello dei carabinieri Michele Riccio dove, alla data del 13 febbraio 1996, è scritto “Sinico (Umberto Sinico, ufficiale dei Carabinieri, ex fedelissimo di Mario Mori, ndr), confermato Subranni aveva paura della morte di Guazzelli (maresciallo) vicino a Mannino, De Donno fu fatto rientrare di corsa dalla Sicilia - Guazzelli fu avvertimento per Mannino e soci?”. Per soci, aveva specificato Riccio deponendo in aula, si intendeva il Ros.
Ugualmente il difensore ha voluto sminuire anche le circolari di Scotti nel 1992. “Si parla più che altro di cautele politiche da adottare per evitare infiltrazioni della criminalità organizzata nelle elezioni, nei seggi, tra i politici e i candidati. Il contenuto è sempre quello delle elezioni politiche. E quello del 16 marzo, dove si parla degli attentati a Mannino Andreotti, Vizzini ed altri, è basato sulle informazioni di Elio Ciolini. Un soggetto che non era attendibile” ha sostenuto. Eppure è un dato di fatto che le rivelazioni dell’ex neofascista, già coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna, si realizzarono.
In particolare il 4 marzo 1992 aveva scritto una lettera dal carcere al giudice Leonardo Grassi per anticipargli che “nel periodo marzo-luglio” si sarebbero verificati fatti per destabilizzare l’ordine pubblico con esplosioni dinamitarde e omicidi politici. Cosa che poi avvenne il 12 marzo, con l’uccisione di Lima, e nel maggio e luglio ci furono le stragi di Capaci e via D’Amelio. Il 18 marzo Ciolini aggiunse che il piano eversivo era di “matrice masso-politico-mafiosa”, un dato che venne poi confermato da alcuni collaboratori di giustizia. Ciolini preannunciò anche un’operazione terroristica contro un leader del Psi. Ed anni dopo i magistrati accertarono che vi era un progetto di morte contro Claudio Martelli, fallito per alcuni imprevisti.
Ma in aggiunta alle circolari di Scotti vi è anche il discorso dell’ex ministro degli Interni davanti alla commissione Affari Costituzionali del Senato quando parlò chiaramente
di un piano di destabilizzazione delle Istituzioni da parte della criminalità organizzata, da mettere in atto attraverso le stragi (“Nascondere ai cittadini che siamo di fronte ad un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata, la verità: io me ne assumo tutta la responsabilità”).

La strage di Firenze
Parlando della strage di Firenze, per allontanare l’accusa dell’avvocato Ammannato (difensore dell’Associazione Familiari Vittime dei Georgofili) che aveva parlato di responsabilità morale di Mori nell’attentato, il difensore di Mori e Subranni ha ricordato le parole di Spatuzza che riferì le modalità con cui furono scelti i luoghi in cui colpire a Firenze (“osservando un depliant”) spiegando che dietro quegli attentati c’erano soggetti come Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, ma non ha ricordato quando ugualmente Spatuzza disse “Capaci ci appartiene, via D'Amelio ci appartiene. Firenze non ci appartiene, tutto il resto non ci appartiene”. Un’indicazione chiara che dietro quegli attentati vi fosse qualcos’altro. Quelle stragi del 1993, secondo Milio, sarebbero il frutto di una strategia che parte da lontano, sin dal 1991, ma che è sempre interna alla mafia.
Ed è qui che le parole dei collaboratori di giustizia vengono prese ad uso e consumo. Sono stati citati Messina e Malvagna, che parlano delle riunioni di Enna in cui si riferì che la strategia stragista era volta a punire i politici ma anche per fare pressioni sulle istituzioni affinché lo Stato scendesse a compromessi, ma poi lo stesso Malvagna non viene preso in considerazione quando parla della “Falange Armata”, la sigla con cui negli anni Novanta vennero rivendicate una lunga serie di stragi, intimidazioni e minacce.

Altro che “esilarante”
Per il legale quello sulla “Falange Armata” è un argomento “esilarante” magari utile per “smorzare la tensione”. Un’ironia del tutto gratuita rispetto ad un periodo storico di fortissime pressioni e in cui l’Italia veniva colpita nel suo profondo a colpi di bombe.
Milio ha sostenuto che non è provato che dietro a quella sigla vi fosse Cosa nostra e a sostegno di ciò ha evidenziato la diversità degli accenti che venivano via via registrati nelle varie rivendicazioni. Al di là del dato ci sono le dichiarazioni di Maurizio Avola . “Per quanto riguarda gli obiettivi da colpire si trattava di azioni di tipo terroristico anche tradizionalmente estranee al modo di operare e alle finalità di Cosa Nostra - aveva dichiarato il boss - Queste azioni secondo una prassi che erano già in atto da tempo dovevano essere rivendicate con la sigla Falange Armata”. Ugualmente Gaspare Spatuzza, che Milio ha usato per sviluppare la propria tesi, pur avendo dichiarato di non saper nulla di quella sigla, si è reso protagonista delle rivendicazioni. E’ infatti il pentito di Brancaccio ad aver imbucato le lettere con cui la Falange ha rivendicato le stragi del luglio 1993. A fornirgli quelle missive, ha raccontato Spatuzza, era stato Fifetto Cannella, il boss condannato per la strage di via d’Amelio, che nel 2004 sarà anche lui inserito nella lista di otto detenuti che il Sisde di Mori voleva mettere a libro-paga.

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