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mattarella falcone borsellino c emanuele di stefanodi Francesca Mondin e Miriam Cuccu
Sul banco dei testimoni Messina, Gratteri e il boss Rotolo

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non deporrà al processo trattativa Stato-mafia. La decisione della Corte d'Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, è arrivata dopo la richiesta di revoca del teste eccellente da parte della difesa dell'ex ministro Nicola Mancino, imputato per falsa testimonianza. Mattarella, citato prima della sua nomina a Capo dello Stato, avrebbe dovuto riferire dell'improvviso cambio di vertici al Ministero dell'Interno nel luglio '92, da Vincenzo Scotti a Mancino. Ma, avendo altri testimoni già riferito sul punto, è stata comunicata la rinuncia per “economia processuale” mentre in aula hanno sfilato gli ultimi testi citati dalle difese: Francesco Gratteri e Francesco Messina, ex appartenenti alla Dia, e il boss Antonino Rotolo in videocollegamento. Rotolo, detenuto al 41 bis, è stato condannato al processo Gotha insieme ad Antonino Cinà – imputato a questo dibattimento e considerato il “postino” del “papello” – in quanto parte di un ristretto direttorio di Cosa Nostra. Sui suoi legami con Cinà, però, il teste imputato di reato connesso non si è sbilanciato: “Diciamo che era il mio medico... mi ha visitato tante volte. Sapevo che era bravo”, accennando vagamente ad “ambienti ospedalieri” attraverso i quali i due iniziarono ad avere contatti. La sentenza del “Gotha” e diverse intercettazioni, avvenute tra il 2004 e il 2005 in un box della sua abitazione, hanno invece documentato che i rapporti andarono ben oltre quelli canonici tra medico e paziente. “Anche lì mi veniva a visitare” ha detto Rotolo, alludendo al casotto in cui i dialoghi furono registrati. “Che tipo di ambiente era?” ha chiesto Montalto. “Uno di quelli dove i muratori ci portano il materiale” ha risposto il boss. “Lei – ha domandato il presidente – si faceva visitare in un luogo contenente attrezzi, senza alcun divano o lettino?”. E Rotolo: “Ero agli arresti domiciliari, non lo facevo entrare. Restavo ai margini dell'abitazione. Se il box ne faceva parte? Sì, certo”. Poi, davanti ad alcune richieste di approfondimento sulle intercettazioni, Rotolo ha stoppato la deposizione: “Cosa vuole che le dica, sono passati 11 anni e non mi ricordo. Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. La memoria sembra difettare al boss anche quando si passa a chiedere dei suoi rapporti con Carmelo D'Amico, ex mafioso barcellonese oggi pentito, con il quale Rotolo ha condiviso la socialità in carcere. “Abbiamo fatto parte dello stesso gruppo per cinque o sei mesi” ha detto il teste, ma il pm lo ha corretto: “La nota del Dap parla di 2 anni e un mese. C'è una bella differenza”. D'Amico, al processo, ha riferito di aver appreso da Rotolo e Vincenzo Galatolo (oggi pentito) di accordi tra alcuni politici e Cosa nostra.“È un calunniatore. Ci dicevamo al massimo 'buongiorno' e 'buonasera'”, ha replicato il boss, che secondo il collaboratore gli avrebbe fatto delle confidenze anche sulla morte dell'urologo Attilio Manca e sul progetto di un attentato al pm Di Matteo.

Quando Mutolo parlò di Contrada e Signorino
Al processo è stato sentito anche Francesco Gratteri, direttore di sezione alla Dia di Roma nel '92 che si occupò della gestione di Gaspare Mutolo, ex autista di Riina, fin dai primi colloqui in cui non era ancora stata formalizzata la sua collaborazione con la giustizia.
Gratteri ha confermato oggi in aula che in uno di questi colloqui Mutolo fece i nomi di Bruno Contrada (ex 007 condannato per mafia) e del giudice Domenico Signorino (suicidatosi con un colpo di pistola) mentre parlava di collusioni tra uomini delle Istituzioni e Cosa nostra. Di queste dichiarazioni, all'epoca sconvolgenti, l'uomo della Dia ha detto di aver informato immediatamente i suoi superiori ma come ha ricordato in aula il pm Di Matteo, questi argomenti furono messi a verbale solo dopo le stragi di via D'Amelio. Inoltre Gratteri non informò subito Paolo Borsellino, magistrato scelto dallo stesso Mutolo come unico interlocutore della Procura di Palermo con cui iniziare la collaborazione formale. Solo più tardi, al primo incontro tra Borsellino e il collaboratore di giustizia “lo stesso Mutolo informò Borsellino” in un momento in cui i due “si erano appartati”, ha detto Gratteri confermando le dichiarazioni rese in passato.
“Per quale motivo lei ritenne di dover informare i suoi superiori  ma non Borsellino?” ha chiesto il pm Di Matteo - "Lei sapeva che la protezione di Mutolo era in funzione della collaborazione con i magistrati, c'è qualcuno che gli ha detto 'per ora non diffondere la notizia' o altro?”. La prima risposta dell'allora direttore di sezione della Dia è stata un po' generica: “Non fu una scelta dettata da opportunità, Mutolo mi aveva espresso la sua perplessità su alcuni ambienti palermitani giudiziari e investigativi…”. “Ma lei stesso ha precisato che in quel momento Mutolo aveva manifestato piena fiducia in Borsellino” ha fatto notare il pm. “Sì, certo, - ha confermato Gratteri provando a fornire una spiegazione - io credo che il primo interrogatorio di Borsellino sia stata la prima occasione in cui ho conosciuto il magistrato e sapevo che era in stretto rapporto con De Gennaro e io avevo riferito ai miei superiori quella circostanza in cui tra l'altro c'era anche Di Petrillo”.

Bellini incontra la Dia di Milano
Il questore Francesco Messina, invece, è stato ascoltato soprattuto in riferimento al suo incontro con Paolo Bellini (ex militante di Avanguardia Nazionale), quando era commissario alla Dia di Milano. Di un incontro con la Dia ne aveva parlato lo stesso Bellini nel 2014, spiegando che, siccome i contatti con Tempesta erano meno frequenti, “chiesi all'ispettore Procaccia di fissare un incontro con qualcuno, lui mi propose la Dia”. “Ci fu un unico incontro a settembre '92 in un bar di Piacenza - ha raccontato Messina - non sapevamo con chi ci dovevamo incontrare, ci avevano solo detto che era una persona che voleva proporre una sorta di collaborazione”.  “Fu introdotto dall'ispettore di polizia di Reggio Emila Procacci e l'impressione fu che non era casuale la conoscenza fra i due” ha aggiunto il teste. Il capitolo Bellini però si concluse quel giorno stesso, ha spiegato Messina, perchè dopo aver parlato del traffico di stupefacenti, “ci propose di fare l'infiltrato accreditandosi con un personaggio importante della famiglia d'Altofonte, ma per farlo ci chiese di far spostare dal carcere un boss tra Leggio Luciano, Brusca Bernardo, Pippo Calò e Giacomo Giuseppe Gambino oltre che “dargli una mano” per delle questioni personali. Richieste che, secondo quanto detto oggi da Messina, spinsero lui e il collega ad andarsene sconvolti e chiudere la questione sul nascere, rappresentando tutto nella relazione che avrebbero consegnato al capocentro.
Il teste ha sottolineato che Bellini non fece alcun nome in riferimento al personaggio di Altofonte né parlò di recupero di opere d'arte. Nonostante nessuno dei quattro boss citati da Bellini fosse di Altofonte, come ha fatto notare il pm Tartaglia, Messina ha dichiarato che non commentarono il fatto e “chiudemmo il caso senza chiederci null'altro”.

Foto © Emanuele Di Stefano

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