di Lorenzo Baldo
In silenzio. Come volevasi dimostrare. L'ex ministro Calogero Mannino sceglie di avvalersi della facoltà di non rispondere. Paura del controesame dei pm? Classica strategia di un ex potente ben consapevole dei ricatti incrociati utilizzati in determinati ambienti attraverso la formula del io-so-che-tu-sai-che-io-so? Del tutto lecita ogni ipotesi. Come sempre è utile rimettere assieme i pezzi scomposti di questo mosaico dove la figura dello stesso Mannino è tutt'altro che marginale.
Un passo indietro
“Mannino non era imputato del fatto di essere stato 'salvato' dalla trattativa, questa sentenza di assoluzione non smentisce l'esistenza della trattativa e il fatto che siano stati salvati dei ministri. La sentenza evidentemente non ritiene che sia stato sufficientemente provato il ruolo di 'input' dello stesso Mannino nei confronti del Governo”. Era il 4 novembre del 2015 quando Antonio Ingroia commentava a caldo l’assoluzione di Calogero Mannino. L’ex pm che aveva istruito il processo sulla trattativa Stato-mafia ipotizzava che il Gup Marina Petruzzella avesse potuto obiettare: 'tu mi hai provato che lui (Mannino, ndr) era intimorito (prima e dopo l'omicidio Lima, ndr), che era interessato che si avviasse una trattativa, mi hai provato che si è dato da fare per sapere, sul versante di Cosa Nostra, attraverso determinati canali, cosa volessero, dopodichè non mi hai provato che dopo questo suo attivismo iniziale abbia eseguito ed assecondato le fasi successive, dandosi da fare presso il Governo affinchè il Governo portasse avanti questa trattativa'. Il ragionamento dell’avvocato Ingroia ripercorreva lo stesso impianto accusatorio nei confronti dell’ex ministro democristiano. Il reato contestato è disciplinato dagli articoli 338 e 339 del codice penale: violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato. Secondo l'accusa Mannino avrebbe dato il primo input, dopo l’omicidio Lima, al dialogo che, tramite i carabinieri del Ros, ha visto protagonisti pezzi delle istituzioni e mafiosi. In cambio si sarebbe adoperato per garantire un'attenuazione della normativa del carcere duro. Dal canto suo l’imputato si è sempre difeso negando ogni coinvolgimento nelle vicende che gli sono state contestate.
Gli interrogativi che rimangono
Dietro le quinte restano, però, inquietanti interrogativi su alcune sue condotte. Una su tutte: Calogero Mannino non ha mai denunciato ufficialmente le minacce subite i primi mesi del 1992. Dopo la sentenza del Maxiprocesso e prima dell’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima, lo stesso Mannino, che aveva ricevuto nel febbraio a casa una corona di crisantemi, arriva a confidare al maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli “Ora uccidono me o Lima”. Dopo il delitto Lima l’ex ministro rivela a Nicola Mancino “ora tocca a me”, e ad Antonio Padellaro (allora all’Espresso) “sono sulla lista nera”, proprio mentre il boss Giovanni Brusca lo stava pedinando per poterlo uccidere. Dopo l’omicidio di Guazzelli, avvenuto nell'aprile del ‘92, Mannino si incontra più volte a Roma con il generale del Ros Antonio Subranni, alla presenza anche dell’ex numero 3 del Sisde Bruno Contrada. Un dato, quest'ultimo, che si ricava proprio dalle agenda di Contrada dove vi è l'annotazione su un incontro con l’ex ministro per “parlare segnalazione cc e minacce di pericolo di cui si trova”.
Alla ricerca di una nuova verginità
La sentenza di assoluzione, a dir poco “illogica e confusa”, così come è stata definita dal pool nel loro ricorso in appello, ha sortito l’effetto di far credere allo stesso Mannino di potersi rifare una verginità attraverso le 500 pagine della motivazione. Ma si tratta pur sempre di una mera illusione. Probabilmente è il caso di ricordare che nel 2014 la Cassazione ha respinto la sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione. I supremi giudici hanno ribadito che Mannino aveva “accettato consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice dell’associazione mafiosa (il boss Antonio Vella, ndr) e, a tale fine, gli aveva dato tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento”. Carta canta.
Al di là del fatto che diversi verdetti che contrassegnano l’epopea giudiziaria di Calogero Mannino sono contrastanti tra loro, c’è un punto fermo evidenziato da Giancarlo Caselli nel 2015. “È un dato di fatto – aveva sottolineato l’ex Procuratore di Palermo – che all’assoluzione di Mannino (per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) si arriva perché la Cassazione - a processo in corso - modifica il proprio orientamento rispetto a quello vigente all’inizio del processo sul concorso esterno in associazione mafiosa. Mentre prima per il delitto di concorso esterno era sufficiente provare l’esistenza di un patto tra mafia e accusato, col nuovo orientamento la Cassazione richiede anche la prova di un ‘ritorno’ del patto in termini di effetti favorevoli all’imputato”. Non c’è molto altro da aggiungere.
Nel frattempo il processo madre sul patto tra Stato e mafia prosegue il suo iter in un Paese dalla memoria sempre più fragile.
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