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la licata francesco c giorgio barbagallodi Lorenzo Baldo
Chieste le audizioni del pentito calabrese Consolato Villani e del testimone di giustizia Angelo Niceta

“Chelazzi mi parlò della frequenza abnorme del colonnello Mario Mori in Sicilia, e dei suoi contatti con i vertici del Giornale di Sicilia. Lui aveva dei sospetti in merito alla frequentazione di Mori con il direttore del Giornale di Sicilia (Giovanni Pepi, ndr). Io capivo che lui si aspettava da questo legame qualcosa di utile per le sue indagini. Chelazzi voleva ordinare una perquisizione al Giornale di Sicilia… Poi ci fu l'episodio di Riina che disse: 'se mai io darò un'intervista la darei al direttore del Giornale di Sicilia'”. E’ indubbiamente uno dei passaggi chiave dell’audizione odierna del giornalista Francesco La Licata (in foto) al processo sulla trattativa. Anni fa, a Firenze, a margine di una conferenza antimafia organizzata da un collettivo universitario, chiedemmo all’allora Procuratore nazionale Pier Luigi Vigna se questa perquisizione  al Giornale di Sicilia effettivamente c’era stata. “Certo che c’è stata”, fu la sua lapidaria risposta prima di andarsene. Vero è che lo stesso Riina, dalla gabbia davanti alla Corte di assise di Roma, il 29 aprile 1993, si era decisamente lanciato in un encomio solenne nei confronti del direttore del Gds: “Pepi è una persona seria che sa quello che scrive e quello che dice”. Riascoltando oggi in aula le ricostruzioni dell’inviato de La Stampa, fatti e circostanze che in parte erano stati affrontati nell’audizione dell’ex pm di Palermo, Alfonso Sabella, si possono ulteriormente collegare. L’8 gennaio scorso Sabella aveva ricordato che poco prima di morire (il 17 ottobre 2003), Chelazzi gli aveva confidato che “voleva iscrivere sul registro degli indagati il generale Mario Mori per favoreggiamento aggravato, dopo averlo esaminato come persona informata dei fatti” in relazione alle vicende del ’92/’93. Alcuni anni prima lo stesso Sabella aveva approfondito ai nostri microfoni questo delicato passaggio. “L'aspetto tecnico (e non solo tecnico) di iscrivere Mario Mori per favoreggiamento – ci aveva spiegato il magistrato siciliano – verteva su una domanda specifica: l'avrebbe fatto per favorire la mafia o l'avrebbe fatto sostanzialmente per favorire la pacificazione nello Stato? Gabriele (Chelazzi, ndr) giustamente sosteneva di volerlo appurare da Mori e a tal proposito ribadiva: ‘Mi venga a dire perché l'avrebbe fatto oppure invochi il segreto di Stato, e in questo caso che venga un Presidente del Consiglio a porre il segreto di Stato’”. In quell’intervista, riferendosi alla solitudine di Chelazzi, Sabella aveva sottolineato che l’allora procuratore di Firenze Ubaldo Nannucci “probabilmente non era molto d'accordo sul taglio globale che Gabriele dava all'inchiesta. Ma non credo che la solitudine di Gabriele fosse frutto di un disegno preordinato. Penso che l'isolamento di Gabriele fosse nato dal fatto che lui era diverso in quel contesto, nel senso che egli riteneva di aver capito”. In aula La Licata ha evidenziato la mancanza di serenità da parte di Chelazzi per quella sua consapevolezza del livello che stava toccando con le sue indagini, così come per quella solitudine professionale che doveva subire, anche dal suo ambiente professionale, financo per quella mancata volontà di volerlo risentire definitivamente alla Commissione antimafia. Proprio su questo punto il giornalista de La Stampa ha rimarcato il fatto che il magistrato fiorentino aveva trovato effettivi “ostacoli” nel lavoro che stava svolgendo da parte delle istituzioni, del Parlamento e della stessa Commissione antimafia.

Il pentito calabrese e Niceta
Prima della conclusione dell’udienza, Di Matteo ha avanzato due nuove richieste di audizioni: il pentito calabrese Consolato Villani e il testimone di giustizia Angelo Niceta. In merito a quest’ultimo i pm intendono approfondire, tra l’altro, i rapporti tra Mario Niceta (zio di Angelo), Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano. Per quanto riguarda Consolato Villani la Procura vuole chiarire la causale di 3 attentati nei confronti dei Carabinieri ai quali lo stesso Villani ha partecipato tra il mese di dicembre del ’93 e il febbraio del ’94. I magistrati lo hanno chiamato soprattutto “per riferire quanto a sua conoscenza sulla connessione di tali delitti contro i Carabinieri in Calabria con la strategia stragista di Cosa Nostra e con la causale degli omicidi e delle stragi compiuti nel ’92 in Sicilia e nel ’93 a Roma, Firenze e Milano”. Di Matteo ha specificatamente sottolineato che la “pertinenza” di questa testimonianza è strettamente collegata alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza. Secondo Spatuzza c’erano anche i calabresi a spingere per una trattativa Stato-mafia. Di fatto nel primo periodo della sua detenzione il pentito aveva riferito al boss di Brancaccio Giuseppe Graviano di alcune “lamentele che giravano in carcere” per opera “soprattutto di napoletani e di qualche calabrese” che “attribuivano a noi siciliani la responsabilità del 41bis… all’ala stragista”. Dal canto suo Graviano aveva replicato: “E’ bene che parlassero con i loro padri che gli sanno dare tutte le indicazioni dovute”. Per ‘padri’ il capomafia intendeva “i responsabili, i capifamiglia” che, sia in Calabria che in Campania, sarebbero stati parte attiva, “tutti partecipi a questo colpo di Stato”. Altrimenti, aveva aggiunto Spatuzza, “non avrebbe senso per Giuseppe (Graviano, ndr) dirmi che ‘i calabresi si sono mossi’…”..
Udienza rinviata a domani per l’audizione del tributarista Gianni Lapis e l’inizio del controesame di Massimo Ciancimino.

Foto © Giorgio Barbagallo

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