di Aaron Pettinari e Francesca Mondin
Il misterioso agente segreto avrebbe raccontato al figlio di don Vito che Provenzano voleva consegnarsi
“Il signor Franco mi disse che di lì a poco sarebbe stato arrestato Bernardo Provenzano perché era stanco e si voleva consegnare”. Massimo Ciancimino, deponendo al processo trattativa Stato-mafia, ha raccontato che il misterioso agente segreto, non ancora individuato dalle autorità giudiziarie, sapeva in anticipo della cattura del latitante perché sarebbe stato lo stesso Provenzano a volersi consegnare. In seguito a tale avviso, Ciancimino jr avrebbe deciso di andare in Egitto in modo da trovarsi all’estero al momento dell’arresto: “Ero stato invitato dal signor Franco, indirettamente o direttamente non ricordo, ad allontanarmi in quel periodo perché dall’arresto sarebbero potuti scaturire elementi che avrebbero potuto aggravare mia situazione processuale - ha spiegato il teste imputato - “Io avevo contezza del mio ruolo e non capivo perchè non si poteva pilotare anche questo editare di coinvolgermi.”
“Non ne parlai in maniera esplicita con i miei legali gli dissi solo che avevo sentito parlare di un peggioramento della mia situazione e partimmo io con la famiglia e l’avvocato Mangano” ha specificato Ciancimino jr; solo dopo l’11 aprile 2006, a cattura avvenuta, “ho informato l’avvocato Mangano, non ricordo bene la tempistica, ma so che gli dissi che era quello il motivo per cui mi ero allontanato e che lo avevo coinvolto.” “Non volevo fuggire. Lo stesso avvocato Mangano mi disse che l'idea di andare via era positiva, perché nel momento in cui sarei tornato, consegnandomi alle autorità, avrei potuto ottenere più facilmente i domiciliari".
I contatti con gli emissari del signor Franco sarebbero continuati al suo ritorno: “Appena tornato da Sharm el Sheikh ero stato contattato proprio davanti casa mia da un ufficiale emissario del signor Franco che mi diede la notizia che di lì a poco ci sarebbe stato un mandato di cattura nei miei confronti e mi raccontò che, al momento dell’arresto di Provenzano, nel carcere il figlio di Riina aveva esultato ‘finalmente lo sbirro è stato preso’ mentre apriva una bottiglia Champagne”.
Il fatto del brindisi, riportato sul quotidiano La Repubblica, in un articolo di Salvo Palazzolo e Francesco Viviano, “suscitò in me la paura che uscisse il mio ruolo nell’arresto di Riina - ha spiegato il teste-imputato - e ne parlai con il giornalista Viviano, con cui ero solito uscire a bere qualcosa, nel bar davanti casa mia, prima di vedere, fuori dal bar, l’emissario del signor Franco”.
Di questi incontri con l’emissario del signor Franco, Massimo Ciancimino ha detto di averne avuti anche di cortesia: “Mi veniva a trovare ma non voleva incontrare i miei avvocati, io quindi avvisai il mio legale e gli dissi di avvisarmi quando volevano venire a casa per evitare che si incontrassero”.
Nel cercare di descriverlo Massimo Ciancimino ha detto: “Io lo chiamavo con nome di Capitano, l’ho conosciuto che guidava la macchina al signor Franco e poi l’ho visto presso la mia abitazione, non lo so se era dei carabinieri so solo che i colleghi lo chiamavano capitano”.
Stato-mafia, Ciancimino jr: ''Fino al 2006 i documenti di mio padre erano a casa mia''
di Aaron Pettinari e Francesca Mondin
“I documenti di mio padre furono portati a Parigi soltanto nel 2006. Prima di allora erano a casa mia nella villetta dell’Addaura”. Così Massimo Ciancimino ha riferito in aula, al processo trattativa Stato-mafia, approfondendo il tema della produzione all’autorità giudiziaria dei documenti del padre. “Quando era ancora in vita erano tenuti questi documenti in via San Sebastianello a Roma. Rimasero lì anche immediatamente dopo la morte di mio padre, quando la stanza fu sottoposta a sequestro, ma mai nessuno mostrò interesse in merito. Furono solo sequestrate le medicine”. Proprio sulla morte di don Vito, Ciancimino jr ha aggiunto: “Mio padre è morto il 19 novembre del 2002. So solo che fino al giorno prima ci eravamo sentiti e lui stava bene. C’è una circostanza che ritengo singolare. In quei giorni era stato condannato dal Tribunale di Perugia Giulio Andreotti. Mio padre aveva un accordo con Caselli che quando sarebbe stato condannato Andreotti avrebbe parlato con lui di quello che era successo con Lima e tutte le vicende successive. Io nella telefonata con mio padre gli ricordai quella promessa, e lui mi disse che ne avremmo parlato l’indomani quando sarei tornato a Roma. Indomani che non arrivò perché morì”.
Tornando a parlare della documentazione del padre ha aggiunto: “Quella più interessante la portai nella mia casa in località Addaura e la misi in cassaforte. La trasferii in un secondo momento su invito dell’emissario del signor Franco. C’era stata nel febbraio 2005 la perquisizione della mia abitazione sull’inchiesta per riciclaggio”. Una perquisizione che fu svolta dai Carabinieri e dalla Guardia di finanza. “La documentazione in quel momento era nella cassaforte. Io non mi trovavo in Sicilia ma a Parigi con la mia famiglia. Venni informato della perquisizione in corso da mio fratello Roberto. Io contattati subito Vittorio Angotti, una persona che lavorava con me e che badava al mio cane quanto io non c’ero. Lui mi lesse il mandato di perquisizione e mi passò anche un ufficiale. Era il capitano Angeli. Lui mi disse che sapeva che ero a Parigi, che non c’era necessità di un mio immediato rientro in Italia, di non aver premura perché non c’era una misura cautelare nei miei confronti”.
Sempre in quel giorno Ciancimino jr si mise in contatto con il professore Lapis. “Lui mi disse che doveva urgentemente rientrare perché chi stava facendo la perquisizione nella sua abitazione voleva far saltare in aria la cassaforte. Io mi allarmai perché anche io avevo una cassaforte in vista. Così richiamai Angotti e mi feci passare nuovamente il Capitano ma quando gli parlai della cassaforte del fatto che c’erano le chiavi a disposizione lui mi disse: ‘Cassaforte? Quale cassaforte?’. Io feci finta di non capire ma il messaggio era stato recepito. Poi Angotti mi disse che aprirono la cassaforte ma che non toccarono nulla, poi diedi disposizione di accompagnare sempre gli ufficiali anche in altri locali che avevo a disposizione”.
Stato-mafia, Ciancimino jr: “Papello e contropapello li tenevo a Parigi”
di Aaron Pettinari e Francesca Mondin
“I documenti di mio padre, il papello, il contropapello, consegnati solo tra la fine del 2009 e inizio 2010? Li tenevo all’estero in una cassetta di sicurezza prestata da un mio amico. Nel 2008 avevo ancora il divieto di espatrio”. E’ così che Massimo Ciancimino ha spiegato il motivo per cui la consegna dei documenti volti ad avvalorare le sue dichiarazioni è avvenuta soltanto in un secondo momento. Rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo ha aggiunto: “C’era quella sentenza di condanna in primo grado per riciclaggio che aveva portato a questo divieto di espatrio. La documentazione si trovava a Parigi ed il recupero è avvenuto una volta che arrivò l’istanza di revoca alla fine dei due anni previsti ‘per scadenza dei termini’. C’era poi anche da dover prendere la delega di mia madre. Non si potevano ritirare quei documenti senza quella carta”.
Il figlio di don Vito ha anche spiegato che in quel periodo temeva per la propria vita tanto da aver dato disposizione, se gli fosse accaduto qualcosa, di consegnare qui documenti al giornalista Franco Viviano. “Dell’esistenza di questi documenti era a conoscenza anche il professore Lapis. A lui li avevo mostrati nei primi anni del 2000, c’erano il papello, credo, ed anche qualcosa in più. Ricordo che c’erano dei documenti sulla mappatura delle celle dei cellulari in via d’Amelio, Lapis mi disse di disfarmi di queste carte, di buttarle. Una cosa che feci”.
Ciancimino jr ha poi raccontato come è avvenuto il recupero dei documenti in Francia: “Ci furono più viaggi. I documenti li ritirai nel novembre 2009 al terzo viaggio. La prima volta, nel giugno, al mio rientro in Italia venni persino fermato sotto al tunnel del Monte Bianco. Operatori della giustizia mi fermarono, fui condotto all’interno degli uffici della polizia di frontiera e gli uomini della Dia di Caltanissetta mi notificarono l’esibizione di documenti relativi alle stragi di Falcone e Borsellino. Mi ricordo anche alcune frasi che dissero, come che a loro non interessava se avessi soldi o altro. Bastava che consegnavo loro i documenti. Io risposi che potevano fare il loro lavoro perché non li avevo con me in quel momento. Avevo già detto che li avrei portati”.
Ciancimino jr: ''Mio padre lanciò segnale alle Istituzioni''
“Don Vito fu messo da parte e venne sostituito da Dell’Utri”
di Aaron Pettinari e Francesca Mondin
“Mio padre voleva lanciare un segnale agli uomini delle Istituzioni proprio in una fase delicata, voleva un riconoscimento ufficiale per quello che stava facendo, quindi mandò il segnale di poter dare una chiave di lettura di ciò che stava avvenendo”. Il figlio di Don Vito, imputato -teste al processo trattativa Stato-mafia, ha spiegato così la scelta del padre di rilasciare un intervista al giornalista Panza dell’Espresso a giugno del ’92, proprio nei giorni precedenti all’incontro che, secondo quanto raccontato da Massimo Ciancimino, lui stesso ebbe al bar Caflish di Palermo per ricevere il così detto “papello” di Riina. “Mi fece chiamare Panza per fissare l’appuntamento - ha raccontato Ciancimino jr - scelse un giornalista da sempre nemico, comunista, proprio per mandare un chiaro segnale ma rimase molto male perché l’intervista fu pubblicata a novembre”.
In riferimento alle considerazioni del padre riportare nell’articolo riguardo l’omicidio Lima Ciancimino jr ha detto:”Mio padre sosteneva che una simile innalzata di livello non poteva essere frutto di Cosa nostra, le fu confermato anche da Provenzano che si erano inseriti altri soggetti affinché Riina seguisse quella strada.”
Il teste- imputato ha consegnato alla Corte delle fotocopie dell’intervista in cui c’erano delle annotazioni e degli altri documenti riconosciuti da Massimo Ciancimino come manoscritti dal padre. In una delle annotazioni del documento portato dal teste, Vito Ciancimino avrebbe scritto di essere stato venduto. “Lui percepì di essere stato messo fuori gioco con l’arresto, per qualcuno che era in grado di sostituirlo - ha spiegato Ciancimino Juniior. - Fu sostituito da Marcello Dell’Utri”. A fare il nome di uno dei fondatori di Forza Italia ora in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, secondo il teste-imputato sarebbe stato lo stesso Provenzano: “si si il nome fu fatto da Provenzano, lui era d’accordo che mio padre era ingombrante. Non avrebbe consentito lo sviluppo degli altri progetti riguardo un nuovo disegno politico. Mio padre ne prese coscienza nel corso degli anni”.
Stato-mafia, Ciancimino jr: ''Mio padre riteneva di essere stato 'venduto'''
di Aaron Pettinari e Francesca Mondin
“Mio padre riteneva di essere stato ‘venduto’. Lo disse e lo scrisse anche in dei documenti”. Prosegue l’esame del teste Massimo Ciancimino all’udienza del processo trattativa Stato-mafia. Rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo Ciancimino jr ha ricordato che il padre, Vito, ipotizzava di essere stato sostituito e venduto “perché voleva fare chiarezza all’interno della Commissione parlamentare antimafia e per quelle sollecitazioni pubbliche che aveva continuamente fatto anche affidandosi ad alcuni giornalisti come Giampaolo Pansa. Un’intervista questa che organizzai personalmente nel periodo in cui ero andato a Palermo per prendere il papello. L’intervista venne realizzata a giugno ma poi fu pubblicata a novembre. In quell’intervista si lamentava che la Commissione antimafia non lo voleva ascoltare nonostante lui volesse dare spiegazioni sul delitto Lima e su quello di Falcone”.
Stato-mafia, Ciancimino jr: ''Nel covo di Riina documenti da far crollare l'Italia''
di Aaron Pettinari e Francesca Mondin
“Nel covo di Riina c’erano documenti che avrebbero potuto far crollare l’Italia. Mio padre lo disse e ne era consapevole perché lo stesso Riina, infinito megalomane, lo ripeteva sempre dicendo di essere intoccabile”. A riferirlo in aula al processo trattativa Stato-mafia è Massimo Ciancimino, di cui oggi è ripreso l’esame. “Quel modus operandi era concordato. Il problema era cercare di far capire che la consegna di Riina, da parte di mio padre e Provenzano, che avevano fornito le utenze, era stata fatta per salvare quello che poteva rimanere in piedi dell’organizzazione criminale. Brusca e Bagarella dovevano chiedersi come era possibile che vi fosse la possibilità di agire liberamente per andare nel covo, ed anche permettere ai familiari di tornare a Corleone. Doveva essere un segnale per far capire che vi era un accordo di alto livello”. Di questo il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo avrebbe parlato con il padre già nel 1993 prima che sulla stampa emergessero notizie sulla mancata perquisizione del covo di Riina. “Nei giornali - ha ricordato Ciancimino jr - si parlava del fatto che si era alla ricerca del covo. Mio padre era detenuto e mi disse, ‘vedi, io sono stato venduto ma si sta espletando tutto quello che avevamo concordato’. Noi vedevamo che non si stava facendo niente anche se avevamo consegnato le piantine con le utenze del gas e telefoniche con i proprietari della villetta. Di questo modus-operandi era messo a conoscenza anche il signor Franco”.
Stato-mafia, Ciancimino: ''Per arresto Riina stabilito modus-operandi con i carabinieri''
di Aaron Pettinari e Francesca Mondin
Dopo la settimana di sosta è ripreso questa mattina il processo trattativa Stato-mafia, in corso all’aula bunker dell’Ucciardone di fronte alla Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto. Sul banco dei testimoni è tornato a parlare Massimo Ciancimino, che nel dibattimento ha la “doppia veste” di teste-imputato. Rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo, presente in aula assieme ai colleghi Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, il figlio di don Vito è tornato a parlare delle modalità stabilite tra il padre, Provenzano ed i carabinieri per l’arresto del capo dei capi, Totò Riina. “C’era il pericolo della reazione dei familiari di Riina - ha detto Ciancimino jr - Per questo è stata fatta una strategia precisa messa a punto da mio padre, da Provenzano e dai carabinieri. Tutto doveva essere fatto in maniera tale da non suscitare alcuna reazione e soprattutto per dare un messaggio anche a quei soggetti di Cosa nostra che erano più vicini a Riina come Bagarella e Brusca. Quali gli accordi? Lasciare fuori i familiari e non intervenire sul covo. Sarebbe toccato ai carabinieri trovare delle motivazioni valide”.