di Aaron Pettinari e Francesca Mondin
Dalla stesura del “contropapello” da parte del padre, don Vito, al contributo offerto per giungere all'arresto di Totò Riina, il 15 gennaio 1993. E' questo il periodo affrontato oggi in aula con la testimonianza di Massimo Ciancimino, teste chiave ed imputato (accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia, ndr) al processo trattativa Stato-mafia in corso di fronte alla Corte d'assise. Nonostante i ripetuti attacchi subiti nei giorni successivi alle sue prime deposizioni Ciancimino jr ancora una volta sceglie di non avvalersi della facoltà di non rispondere e fornire alla Corte la propria versione su quanto avvenuto in quegli anni di stragi.
Alla scorsa udienza il racconto si era interrotto con la consegna del “papello” di Riina per il tramite del medico Antonino Cinà ed è da questo punto che inizia l'esame.
Dopo avere letto cosa il Capo dei capi chiedeva per interrompere la strategia del sangue inaugurata con l'omicidio dell'eurodeputato Salvo Lima e proseguita con la strage di Capaci, Vito Ciancimino, anche consigliato da Bernardo Provenzano, che incontra a Palermo tra il 16 ed il 17 luglio del 1992 si sarebbe deciso di mediare e far avere alle istituzioni, tramite i carabinieri del Ros delle richieste più soft, una sorta di “contropapello”. Un documento, in cui si fa riferimento anche a Mancino e Rognoni, i quali secondo Ciancimino jr sarebbero stati messi al corrente della trattativa, che l’ex sindaco di Palermo avrebbe consegnato all’allora colonnello del Ros, Mario Mori.
Nello stesso “contropapello” si legge della richiesta di abolizione del 416 bis (il reato di associazione mafiosa); poi ancora "Strasburgo maxi processo" (l'idea di Ciancimino era quella di far intervenire la Corte dei diritti europei per dare diverso esito al più grande procedimento contro i vertici di Cosa nostra); "Sud partito"; e infine "riforma della giustizia all'americana, sistema elettivo...".
“Mio padre - spiega Ciancimino - era solito fare degli appunti sulle cose di cui avrebbe dovuto discutere. E di queste cose avrebbe dovuto parlare con Provenzano tra il 22 ed il 23 luglio a Palermo. Era stato fissato, poi per motivi noti (la strage Borsellino, ndr) è saltato. Il documento è successivo comunque all’incontro tra mio padre e Provenzano il 16 luglio”.
Cambio di rotta
Dopo il 19 luglio del 1992, quando si verifica la strage di via d'Amelio, la trattativa subisce un nuovo impulso. “Stavo andando a Fregene – dice Ciancimino - mio padre mi disse di rientrare subito a Roma. I telegiornali davano tutti le immagini della strage di via D'Amelio. Mio padre mi disse 'la colpa è tua, mia, nostra che abbiamo alimentato tutto questo'. Aggiunse che 'quel pazzo' di Riina stava tentando di rilanciare visto che lo Stato gli aveva offerto di trattare dopo la strage di Falcone”. Vito Ciancimino – a detta del figlio - si era sempre detto contrario al dialogo con Riina, che riteneva un pupazzo (“Diceva che se avessimo eliminato subito Riina dalla discussione e avessimo fatto prendere potere a Provenzano si sarebbe evitato tutto quel sangue”). Ed è a quel punto che il padre avrebbe iniziato a consolidare l'idea che solo l'estromissione di Riina dalla scena avrebbe fatto finire gli attentati mafiosi e che in seguito a diversi incontri con Provenzano decise di dare un contributo alla sua cattura.
Così, a fine agosto del 1992, Vito Ciancimino chiama il figlio e gli dice di contattare il capitano Giuseppe De Donno, ufficiale del Ros, braccio destro di Mario Mori. “L'incontro si è svolto nell'appartamento di mio padre a Roma. Mio padre aveva già incontrato Provenzano. Per fermare le stragi bisognava prendere Riina, mio padre ne era convinto. I carabinieri a quel punto capiscono che l'interlocutore mafioso diventa Provenzano e che in cambio gli si sarebbe dovuta garantire la libertà perché lui era l'unico che avrebbe potuto portarci a Riina”.
Massimo Ciancimino avrebbe fatto avere a Provenzano delle piantine catastali, fornitegli dai carabinieri del Ros, perché questi indicasse dove si nascondeva il boss. “Venni avvisato da uno dei parenti di Pino Lipari dove dovevo ritirare la busta con le mappe – aggiunge - E andai a prenderle, il 19 dicembre del '92 mi pare, direttamente dalle mani di Provenzano che mi disse di farle avere subito e chiuse a mio padre”. In cambio dell'aiuto, Provenzano avrebbe avuto l'impunità e Ciancimino documenti per l'espatrio e la tutela del patrimonio dalle misure di prevenzione.
Nel frattempo, però, Vito Ciancimino, che su suggerimento dei carabinieri aveva fatto richiesta di un passaporto, viene arrestato a Roma dalla polizia. Solo dopo la cattura del padre Massimo Ciancimino apre la busta e nota “una zona cerchiata ed erano evidenziate le utenze dell'acqua e del telefono per risalire all'intestatario della villetta in cui si nascondeva Riina”.
Ciancimino racconta anche dei suoi timori, anche di essere arrestato tanto che in un primo momento si rifiuta di consegnare le mappe ai carabinieri. “Poi – riferisce alla Corte - il capitano De Donno (ex ufficiale del Ros imputato al processo ndr) mi chiamò dal carcere e mi passò mio padre che mi disse di dargli le buste. Cosa che feci a breve giro di tempo”.
Per avvalorare ulteriormente la deposizione la pubblica accusa mostra alla Corte e al teste-imputato un documento manoscritto sequestrato dalla cella del padre Don Vito. In questo documento, nel quale Ciancimino jr riconosce con certezza la calligrafia del padre, viene sintetizzata per punti la procedura che avrebbe portato alla cattura di Riina. Dalla consegna delle mappe al volo di Don Vito a Palermo e il suo successivo arresto.
La trappola
Durante l'esame Ciancimino parla anche della richiesta del passaporto che il padre si trovò a fare, su indicazione dei carabinieri, per cui poi venne arrestato: “Come già era stata data la possibilità di una Carta d'identità valida per l'espatrio furono loro a dire che poteva chiedere un passaporto. Mio padre voleva massima libertà di operare, serviva anche per fini suoi bancari. Nonostante gli avvocati sconsigliassero questa richiesta lui si fidò dei carabinieri e depositò la richiesta credo tramite l'avvocato Ghiron. Questi era una presenza costante che andava e veniva. Con mio padre si incontrava giornalmente. Se fosse a conoscenza dei contatti con i carabinieri? Credo di sì. Comunque so che si conosceva con Mori”. Parlando della cattura del padre e la lettura che venne fatta dai familiari su quella richiesta di passaporto Ciancimino jr riferisce poi che questa fu vista come una "trappola" tesa dai carabinieri che prima l'avrebbero usato, poi lasciato al suo destino.
La cattura di Riina
Quando il 15 gennaio 1993 venne posta fine alla latitanza di Riina Ciancimino jr parlò nuovamente con il padre. “Mi disse – ricorda lo stesso figlio di don Vito - che lui aveva fatto il suo dovere, ma non vedeva ancora i risultati”. Ed è con quest'ultimo riferimento che si interrompe l'esame di Ciancimino jr per continuare domani ancora una volta nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo.
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