di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari
Al processo trattativa l'esame del teste Alonzi che inviò il documento giunto a Palermo dopo la strage di via D’Amelio
Estate 1992. Dopo l'autostrada sventrata a Capaci e la morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta c'è un nuovo allarme attentati. Nel mirino i due magistrati più in vista in quel momento: Paolo Borsellino e Antonio Di Pietro. Lo scrive il Ros in un'informativa riservata redatta il 16 luglio 1992 e trasmessa all'ufficio centrale di Roma, alla Procura di Milano, ed anche a quella di Palermo, per posta ordinaria. Arrivò al palazzo di giustizia soltanto il 22 luglio 1992, tre giorni dopo la strage di via d'Amelio. Il 23 la stessa venne trasmessa agli organi competenti per la sicurezza del magistrato. Una vera beffa di fronte a tutto quello che ormai era avvenuto il 19 luglio. A seguito di quell'informativa a Di Pietro e alla sua famiglia venne rafforzata la scorta, tanto che all’ex pm di Milano in quel periodo non venne consentito nemmeno di dormire nella propria abitazione e nel mese di agosto di quello stesso anno venne persino fatto partire per una trasferta in Costa Rica, con tanto di nome di copertura: Marco Canale.
L'informativa
Come aveva fatto il Ros ad avere notizia su una imminente strage? E' quello che la Procura di Palermo ha cercato di capire chiamando sul pretorio il teste Vinceno Alonzi, dal ‘92 al ‘96 comandante della sezione Anticrimine del Ros di Milano (oggi generale dei carabinieri in pensione), che all’epoca firmò proprio quella nota trasmessa a Palermo. La figura di una “fonte confidenziale” dei Carabinieri che aveva anticipato – seppur rimanendo inascoltata – l’eccidio di via D’Amelio, resta sullo sfondo. Quello che predomina è l’assoluta mancanza di memoria da parte di un ex ufficiale dell’Arma. Una (ennesima) oscenità in spregio ai fatti di cui si discute a processo. Una testimonianza costellata di “non so”, “non ricordo” e “può essere” che diventa un macabro inno alla burocrazia di fronte al dato di fatto che Paolo Borsellino e i 5 agenti della sua scorta furono assassinati e che, nonostante le informazioni ricevute, nessuno allertò immediatamente i responsabili della sicurezza del giudice, né informò successivamente la Procura di Caltanissetta che su quell'attentato aveva iniziato ad indagare.
Nel documento di quattro pagine si parla chiaramente di elementi appresi dalla “fonte”, che in aula il teste ha detto di ricordare essere una prostituta, il giorno 15 luglio. Dall'allarme attentato nei confronti di Di Pietro e Borsellino, all'arrivo dal Sudamerica di Gaetano Fidanzati, ai contatti dei Fidanzati con ambienti della politica. Si fa anche riferimento ad altri due soggetti, un certo Pino Reina ed un certo Roberto, che verrebbero indicati con tanto di numeri di telefono. “Non ricordavo tutti questi dettagli – spiega in aula il teste – ricordo che il primo rapporto era di un brigadiere di Cernusco sul Naviglio di Milano era con meno informazioni. Evidentemente integrammo. Però da quello che ricordo fummo convocati in Procura e Di Pietro disse questa cosa del rischio di attentato e sicuramente facemmo gli accertamenti soprattutto sulla situazione di Di Pietro”. Alonzi non ricorda ugualmente di avere parlato telefonicamente con gli allora ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu: “sicuramente con uno dei due, ma non mi ricordo… Non credo di aver parlato dell’informazione, non era un problema… non ricordo il contenuto della telefonata…”. “Lei ha inoltrato l’informativa alla procura di Milano e di Palermo – insiste il pm Di Matteo –, ma qualcuno si è posto il problema di allertare i dispositivi di sicurezza del dott. Borsellino, la sua scorta, la Prefettura?”. “Di questo non so nulla”, risponde laconicamente il teste.
Fatto sta che l'informativa viene comunque inviata a Palermo il 16 luglio, ma non arriva in tempo e Borsellino salta in aria. Anche dopo la strage le indagini proseguono ma l'esito finale di tutti gli accertamenti (“Quel Reina non aveva legami con nessun mafioso mentre su Roberto non ricordo”) non viene comunicato a nessuno.
Di Pietro e quella “montagna” da scalare
“Immagini una montagna – aveva detto nel 2002 Antonio Di Pietro rispondendo ad una nostra domanda - al cui vertice si giunge tramite due distinti versanti: a Milano si investigava sulla corruzione, quindi sul fronte dei rapporti fra politica e affari, a Palermo sulla criminalità organizzata, quindi su quello dei rapporti tra mafia e politica. L’obiettivo comune di Milano e Palermo era quello di scoprire chi si trovava ai vertici della montagna. Noi dovevamo confrontarci con due entità, cioè la politica e gli affari. Per i colleghi in Sicilia, invece, fu molto più difficile poiché le entità erano tre: la politica, gli affari ed il ‘regolatore comune’, ossia il mafioso. Per noi ci fu la delegittimazione - come ha ricordato di recente il Procuratore Francesco Saverio Borrelli -, per loro ci furono gli attentati”. (…) “Quarantotto ore prima dell'attentato di via D'Amelio, le autorità investigative ricevettero la segnalazione che io e Borsellino dovevamo essere ammazzati”. Sette anni dopo, durante la trasmissione di Annozero “le verità nascoste” era stato lo stesso Di Pietro ad approfondire la questione di quell’informativa sul progetto di attentato nei confronti suoi e di Paolo Borsellino. “Io, il 16 luglio del 1992, ho avuto modo di leggere con attenzione l’informativa dei carabinieri del Ros che erano venuti a trovarmi nel mio ufficio della procura – aveva raccontato l’ex pm l’8 ottobre 2009 –. I militari, sviluppando le indagini informative nel periodo successivo alla morte del giudice Giovanni Falcone nella strage di Capaci, erano venuti a sapere che Borsellino ed il sottoscritto erano le due nuove vittime predestinate della mafia”.
Omissioni che uccidono
Le omissioni investigative del Ros in merito alle indagini su quella “fonte”, prima e dopo la strage di via D’Amelio, denotano la volontà di porre in essere una particolare metodologia. Che, per quanto riguarda lo stesso Borsellino, non ha alcun senso logico. Certo è che un mese prima dell’eccidio del 19 luglio ’92 il giudice Borsellino era stato informato dai Carabinieri di un attentato in preparazione contro di lui da parte di Cosa Nostra. Nel 2012 era stato il colonnello dei Carabinieri Umberto Sinico a riferirlo in aula durante il processo Mori-Obinu. Sinico aveva raccontato delle confidenze ricevute dal mafioso di Terrasini Girolamo D’Anna, che all’epoca era un loro informatore. “Andammo subito dal magistrato a riferire quanto appreso da D'Anna - aveva dichiarato Sinico - e lui replicò: ‘Lo so, lo so: devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia’. Il Procuratore non voleva coinvolgere in alcun modo la sua famiglia”. “Girolamo D'Anna - aveva quindi specificato Sinico - era in confidenza con il maresciallo che comandava la stazione del paese, Antonino Lombardo”, poi suicidatosi nel marzo del '95. “A sentire D'Anna, nel carcere di Fossombrone, andammo io - aveva sottolineato l'ufficiale dei Carabinieri - Lombardo e il comandante della compagnia di Carini, Giovanni Baudo, ma Lombardo fu il solo a parlare con D'Anna, che disse dell'esplosivo e dell'idea di attentato. Subito ripartimmo e andammo dal procuratore a riferirglielo e lui ci rispose in quel modo, di saperlo e di dover lasciare qualche spiraglio. 'Procuratore, risposi io, allora cambiamo mestiere'”. Le parole di Sinico si contrappongono inevitabilmente a quanto riferito oggi in aula da Alonzi. Alla domanda del pm Di Matteo se dopo il 19 luglio il Ros gli avesse chiesto di approfondire le indagini sulla “fonte” che aveva anticipato la realizzazione di quella strage lo stesso Alonzi arriva a definire l’eccidio “una questione collaterale” per poi concludere: “non ricordo… posso pensare di no perché non era usuale approfondire l’indagine…”. Quindi per il teste “non era usuale”. Nemmeno dopo una strage annunciata?
Prossima udienza giovedì 22 ottobre.