L'udienza è terminata ed è stata rinviata a domani, ore 9:30, con l'esame del teste Francesco La Marca.
di Miriam Cuccu
Saranno le stragi del ’93 al centro dell’udienza di oggi, al processo trattativa Stato-mafia, la prima dopo la pausa estiva. In aula, questa mattina, i due pentiti GiovanniCiaramitaro e Giuseppe Ferro per raccontare a pm, corte e avvocati alcuni risvolti delle bombe scoppiate a Firenze, Roma e Milano, per “alzare il tiro” all’indomani della morte dei giudici Falcone e Borsellino.
Ciaramitaro, in precedenza, aveva già descritto la fase esecutiva in cui fu personalmente coivolto, a Firenze nel processo sulle stragi del ’93. Dal ruolo dei politici che indicarono “questi obiettivi, questi suggerimenti” per arrivare all’“abolizione del 41bis, l'abolizione delle leggi sulla mafia. C'erano dei politici che indicavano quali obiettivi colpire con le bombe: andate a metterle alle opere d'arte". In aula, il collaboratore parlò anche di Silvio Berlusconi: “Mi disse (Francesco Giuliano, ndr) che ci stava questo politico, che ancora non era un politico, ma che quando sarebbe diventato presidente del Consiglio avrebbe abolito queste leggi. Poi mi disse che era Berlusconi". Per questo, proseguì quel giorno, “nel '94, quando ci sono state le elezioni in Sicilia, abbiamo votato tutti per Berlusconi”.
Giuseppe Ferro, ex capomandamento di Alcamo, prima di iniziare a collaborare con la giustizia ha seguito per mesi il dibattimento in una delle gabbie degli imputati, disteso in barella, per poi raccontare il suo passato in Cosa nostra dietro un paravento. Con tanto di traduttore a causa del suo strettissimo dialetto siciliano. In quell’occasione Ferro parlò della strage di Firenze come di “discorsi sigillati” di cui non si doveva parlare “neanche con i più intimi”. Parole riferite allo stesso pentito dai boss Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, i quali, di fronte alle richieste di spiegazione, risposero che c'era chi voleva che fosse fatto “rumore” senza dirgli il perchè. Quando Ferro tornò ad Alcamo per diventare capo mandamento, mandò il figlio dal cognato Antonino Messana, a Prato, per ordinargli di mettere a disposizione la sua casa ed il suo garage come base operativa per l'attentato agli Uffizi. Il 31 gennaio 1995 venne arrestato e dopo quindici mesi si pentì il figlio Vincenzo: “C'era bisogno che qualcuno rompesse questa catena nella mia famiglia, altrimenti eravamo destinati ad essere mafiosi a vita” aveva detto spiegando i motivi della collaborazione.