Mori, De Donno e Obinu inviano un (ennesimo) esposto contro il pool
di Lorenzo Baldo - 10 luglio 2015
Palermo. “E’ pervenuto a questo presidente, per conoscenza, in data 8 luglio, un esposto datato 18 giugno 2015, sottoscritto anche da due imputati di questo processo Il contenuto del detto esposto sarà valutato ovviamente nell’ambito delle relative competenze dalle autorità cui lo stesso è indirizzato, mi preme, però, rassicurare gli estensori dell’esposto che non è e non sarà mai in alcun modo condizionabile l’effettiva indipendenza di giudizio di questa Corte. Penso che lo dimostrino questi due anni di pubblico dibattimento, oltre che, credo, anche la storia personale e professionale di chi vi parla”. Attimo di silenzio nell’aula bunker. L’udienza odierna al processo sulla trattativa Stato-mafia si apre con la scarna comunicazione del presidente della Corte di Assise, Alfredo Montalto. Che non intende comunicare alle parti la provenienza in quanto il documento gli è giunto “per conoscenza”. Più tardi le agenzie rilanceranno che a firmare l’esposto, rivolto al Csm, alla Dna e alla Procura di Caltanissetta, sono stati gli ufficiali dei Carabinieri Mori e De Donno (imputati in questo processo) insieme a Obinu (co-imputato assieme a Mori al processo di Appello per la mancata cattura di Provenzano). Niente di nuovo sotto il sole visto che le difese di determinati imputati hanno già presentato esposti e denunce contro il pool di Palermo, dopo aver tentato (invano) di far spostare il processo sulla trattativa. Certo è che questo nuovo affondo rivela un ulteriore malessere da parte di quegli imputati che, ancora di più del processo stesso, temono le indagini “bis” e “ter” sullo Stato-mafia istruite parallelamente a questo procedimento penale.
Inizia di seguito la deposizione di Salvatore Tito Di Maggio (in foto), fratello dell’ex vicedirettore del Dap Francesco Di Maggio (morto nel ‘96). L’evidente tentativo di onorare la figura del fratello assume a volte contorni paradossali. Il senatore del Gruppo Conservatori, Riformisti italiani risponde alle domande del pm Nino Di Matteo mantenendo fede ad una linea già collaudata al processo Mori-Obinu di primo grado. Le mancate proroghe degli oltre 300 41bis del novembre del ’93? “Contrasti con l’ufficio, con i suoi pari grado (di Francesco Di Maggio, ndr) e con il direttore generale (Adalberto Capriotti, ndr)”. Si parla quindi di una “disparità di vedute” in merito a quelle mancate conferme del regime di carcere duro “di cui mio fratello non aveva avuto cognizione”. Pare di assistere ad una riscrittura della storia. Come è noto nel mese di giugno del ’93, su disposizione dell’allora ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni Conso, erano stati cambiati i vertici del Dap: il posto di Nicolò Amato e del suo vice Edoardo Fazzioli era stato preso da Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio (con una nomina “ad personam” del tutto irrituale). Successivamente Capriotti aveva inviato una nota a Conso in cui si chiedeva di non prorogare oltre 300 41bis per dare “un segnale positivo di distensione” nelle carceri. La versione del senatore Di Maggio cozza inevitabilmente con quella di Sebastiano Ardita (per 10 anni direttore generale dei detenuti e del trattamento al Dap) che in un’udienza passata aveva già spiegato l’anomalia di quelle revoche del 41bis. Lo stesso Ardita aveva già illustrato al processo Mori il mistero di quelle mancate proroghe, per poi commentare successivamente che “il modo di procedere pragmatico e spedito della nuova gestione del Dap lasciava intendere che dietro quella scelta vi fosse una copertura istituzionale forte … probabilmente ispirata da un suggeritore tecnico per una scelta pragmatica di gestione della crisi”. In aula Di Maggio parla della “impalpabilità della funzione di Capriotti”. “Credo fosse stato mandato lì giusto per arrivare alla pensione, ma che non prendeva decisioni per il dipartimento”, aggiunge. Sotto i riflettori torna un’intervista del senatore Tito Di Maggio, rilasciata al Corriere della Sera il 1 luglio 2012. “Di Maggio estraneo alla trattativa. Questa è la lettera che lo dimostra” titolava il Corsera. In quell’articolo ormai datato Di Maggio forniva la sua versione dei fatti asserendo che a dimostrazione dell’estraneità del fratello, con riferimento alle mancate proroghe dei 41bis del novembre ’93, esisteva una nota inviata dal suo congiunto a Capriotti, e alcuni capitoli del libro (incompiuto) che lo stesso Francesco Di Maggio stava scrivendo nell'autunno del ’94, dopo aver lasciato il Dap, in aperta polemica col nuovo ministro della Giustizia Alfredo Biondi. Nelle tre pagine scritte su carta intestata del Ministero di Grazia e Giustizia, sotto la dicitura “Riservata-personale” (possibilmente scritta agli inizi del ’94), traspare un vero e proprio sfogo che Di Maggio aveva indirizzato a Capriotti. “Debbo constatare – scriveva l’ex vice del Dap – che da parte tua resistono nei miei confronti talune riserve che, francamente, mi è difficile comprendere. La vicenda Calabria è, in questo senso, significativa. Te ne ho scritto e parlato. Attendevo che tu mi facessi conoscere il tuo punto di vista, apparendo del tutto naturale che la questione* in sé delicata, venisse trattata dal Direttore generale insieme al suo più stretto collaboratore (lo stesso Di Maggio, ndr). Non solo così non è stato, ma Calabria è stato ricevuto, per tuo tramite, dal Ministro, realizzandosi così quell'obiettiva delegittimazione che, insieme, abbiamo rimproverato proprio al Ministro in casi analoghi”. Accanto alla parola *“questione” il pm Di Matteo evidenzia che si vede un’aggiunta, scritta a mano, dove si intuisce tra parentesi la scritta “41bis”. Per il senatore Di Maggio è la prova che suo fratello non c’entra nulla con quelle mancate proroghe. Ma c’è anche la possibilità che quell’aggiunta scritta a mano possa essere stata inserita in seguito al ritrovamento di quelle carte riposte nella scrivania di Francesco Di Maggio a mo’ di alibi per difendere la sua memoria. Lo stesso presidente della Corte, Montalto, osserva che la scrittura della parola “41bis” non è così identica alla calligrafia dell’ex vice del Dap. “Questi atti non risultano datati e nemmeno protocollati”, fa notare Di Matteo. La questione, quindi, resta appesa. Dal canto suo il senatore Di Maggio tenta successivamente di gettare alcune ombre sull’ex funzionario del Dap Andrea Calabria (di cui si parla nella nota di Francesco Di Maggio,) che in una precedente udienza aveva già raccontato della diffidenza che egli nutriva nei confronti dell’ex vicedirettore del Dap. Torna quindi alla ribalta la richiesta dell’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, rivolta espressamente a Francesco Di Maggio, di adoperarsi come anello di collegamento tra la procura di Milano e il ministero della Giustizia per trovare una “soluzione legislativa” al problema di Tangentopoli. Il senatore Di Maggio minimizza affermando che non c’era alcun “incarico ufficiale” e che alla fine non se ne era fatto nulla. Di Matteo riprende quindi i primi verbali nei quali il senatore era stato molto più circostanziato nel riferire anche in merito ai rapporti tra il suo congiunto, il ministro Conso e Capriotti. Tito Di Maggio aveva raccontato agli inquirenti che suo fratello “non aveva un buon rapporto con il direttore (Capriotti, ndr), aveva invece un buon rapporto con Conso” il quale “a volte scavalcava il direttore” per conferirgli determinati incarichi. Messo alle strette, il sen. Di Maggio conferma la precedente versione. In merito alla questione su chi avesse proposto il nominativo di suo fratello per quell’incarico al Dap il sen. Di Maggio afferma che il suo congiunto gli avrebbe fatto i nomi di Liliana Ferraro e Livia Pomodoro all’epoca al Ministero di via Arenula. La versione, però, si differenzia da quella del 2012 nella quale lo stesso senatore riferiva del fratello che, nelle bozze del suo libro, aveva scritto di essersi “sorpreso” per quella nomina frutto di uno “stratagemma tipicamente capitolino” che lo aveva fatto ritrovare “all’interno delle carceri”. “Quindi nel 2012 lei si è confuso?”, chiede Di Matteo. “Può essere così”, è la risposta laconica. “Suo fratello le parlò mai di dissidi che avessero riguardato Giovanni Falcone e i componenti dell’Alto Commissariato Antimafia, quando suo fratello vi faceva parte, in merito al fallito attentato all’Addaura?”. “No”, replica Di Maggio evitando di approfondire le voci circolate su quella struttura tante volte finita al centro di polemiche e sospettata di aver avuto un vero e proprio ruolo nella delegittimazione del giudice Falcone nel periodo in cui veniva preparata la bomba dell’Addaura. Di Matteo cita quindi un articolo di Panorama del 22 agosto ’93. All’epoca la giornalista Liana Milella chiedeva a Francesco Di Maggio se la riapertura delle supercarceri dell’Asinara e di Pianosa fossero state un errore. “E’ stata la presa d’atto di uno sfascio – rispondeva il vice capo del Dap –, i mafiosi potevano stare all’Ucciardone in un regime di massima vigilanza. Ci stiamo attrezzando per farlo”. Di seguito il sen. Di Maggio afferma di non avere un ricordo preciso di quell’intervista. Ma in merito agli eccidi del ’93 relazionati alla questione del carcere duro non ha dubbi. “Ricordo la risposta di mio fratello, credeva che ci fossero delle connessioni tra le aspettative (della mafia, ndr) e le stragi commesse”. “Ma in merito a quella che ha definito ‘l’impalpabilità della funzione di Capriotti – chiede Di Matteo – suo fratello le disse mai: ‘io adesso vado dal Ministro, vado dal Presidente della Repubblica, oppure rilascio un’intervista in cui denuncio che si stavano facendo delle cavolate sul 41bis, quando io ritengo che il 41bis sia la causa delle stragi?’. Noi abbiamo un quadro di suo fratello come una persona in ottimi rapporti e ritenuta influente con il Capo dello Stato e con il Ministro. Suo fratello aveva già ipotizzato pubblicamente il collegamento tra stragi e 41bis, le ha mai detto di voler fare qualcosa o del perché non avesse fatto nulla in tal senso?”. Per tentare di rispondere il sen. Di Maggio si aggrappa addirittura all’educazione ricevuta in famiglia da un padre Carabiniere e a quel “senso della gerarchia” con il quale lui e suo fratello sono cresciuti. Di Matteo lo incalza riprendendo la seconda pagina della bozza del libro redatta da Francesco Di Maggio nella quale parlava di “omertà istituzionale all’ombra della quale sono stati consumati sfracelli”. “Da tempo – scriveva Di Maggio – la mafia ha inteso che certi segmenti delle istituzioni non le sono estranei, con essi è possibile trattare alla pari, ad essi può essere fatto prezioso riferimento entrambi professando la medesima fede identici essendo i valori di riferimento”. Della serie: carta canta.