di Lorenzo Baldo - 2 luglio 2015
Aula bunker: interno giorno. C’è un giornalista in pensione che depone in aula e racconta la sua versione dei fatti. Ma non tutti seguono un filo logico. Partiamo dalla fine. L’ex vicedirettore di Famiglia Cristiana, Guglielmo Sasinini, racconta che i suoi appunti trascritti nei block-notes venivano redatti solo dopo avere effettuato i relativi riscontri. “Quindi quello che lei ha scritto nei suoi appunti era verificato?”, chiede il presidente della Corte di Assise, Alfredo Montalto. “Assolutamente si”, replica Sasinini. Peccato che proprio in merito alle sue note, sequestrate nel 2007 nell’ambito dell’inchiesta milanese sugli spionaggi Telecom, lo stesso teste utilizzi oggi la strategia del dire e non dire. Come è noto nel 2007 Sasinini era finito agli arresti domiciliari, quale giornalista del gruppo Pirelli-Telecom, con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata allo spionaggio illegale nei confronti di giornalisti, politici e imprenditori. Nei suoi computer i carabinieri avevano scoperto un documento informatico che descriveva la “strategia” di una nuova rete occulta. Il file (del marzo 2003) si intitolava proprio “strategia”, ed elencava tra le vittime di un’intensa “attività di monitoraggio” perfino l’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, e alcuni dei cardinali più vicini a Giovanni Paolo II. C’è una sorta di filo nero che lega le indagini del passato con quelle attuali sulla trattativa Stato-mafia. Alcuni nomi si ripetono, altri si sovrappongono. Ripescando nella sua prolifica attività giornalistica viene citato in aula un suo pezzo pubblicato su Libero il 3 aprile 2008 dal titolo eloquente: “Lo Stato mortifica chi lotta sul serio contro la mafia”.
L’esaltazione di Mori e dei suoi uomini assume dei contorni particolarmente letterari. “Dopo mesi di lavoro investigativo puro – scriveva Sasinini sette anni fa – gli ‘indiani’ scovarono e catturarono il capo dei macellai corleonesi: Totò Riina. Io conoscevo bene quel gruppo di guerrieri e condivisi molte giornate con loro e soprattutto con Mario Mori, in particolare l’estenuante attesa della vigilia quando ‘il pacco’ stava per essere consegnato. Poi tutta l’Italia si emozionò per la più famosa delle catture”. Messo alle strette sul perché avesse utilizzato il termine “pacco”, come se effettivamente la cattura di Riina fosse stata una sorta di consegna programmata da terzi, Sasinini ammette a denti stretti: “quello fu un editoriale inventato. Mai nessun ufficiale dei carabinieri avrebbe portato un giornalista in un’operazione… Nel ’93 forse avrò forse incrociato Mori in una riunione…”. Il pm Teresi lo incalza ricordandogli che nel 2008 aveva scritto su Libero di avere conosciuto Mori nel ’93, mentre poco prima, in aula, aveva detto di averlo incontrato quando quest’ultimo si era insediato al Sisde, diversi anni dopo la cattura di Riina. Sasinini tentenna un attimo fornendo poi una sua particolare spiegazione sul significato di “conoscere” e “incontrare”, ma evita di spiegare i reali motivi dell’utilizzo di quell’espressione riferita alla “consegna” di Riina. Il pm Tartaglia insiste sottolineando che nell’articolo in questione veniva fatto il nome in codice di Mori: colonnello “unico”, un soprannome conosciuto all’interno del Ros. Sasinini tergiversa spiegando che probabilmente lo aveva saputo per altre vie. Ma poi aggiunge che proprio in merito alla mancata perquisizione del covo di Riina l’ex Questore Arnaldo La Barbera, con il quale aveva un buon rapporto, gli aveva confidato a Napoli alcuni anni dopo: “non mi convincerà mai questa storia… perché non perquisirono il covo di Riina?”. Per il resto la sua testimonianza è un carosello di evidenti ridimensionamenti di fatti già narrati da altri testi. Le sue cene con l’ex vicecapo del Dap Di Maggio? “Due o tre, una volta da soli, un’altra volta con Ayala e altre persone…”. Sasinini tenta anche di gettare qualche ombra sulla testimonianza dell’ex autista di Di Maggio, Nicola Cristella, che a sua volta aveva parlato di quelle cene con Di Maggio, ma viene prontamente fermato dal Presidente Montalto. Durante l’udienza si assiste quindi ad una serie di imbarazzanti “non ricordo”. Ma basta solo mettere insieme i pezzi scomposti di una testimonianza quanto meno reticente per dare un senso a certi fili scoperti. Sasinini descrive Francesco Di Maggio come una persona intransigente che non voleva cedimenti su possibili alleggerimenti del 41bis. E come mai Di Maggio non ha mai sollevato alcuna obiezione sulla decisione dell’allora ministro Conso di togliere dal regime di carcere duro centinaia di mafiosi? E soprattutto: c’è un giornalista che conosce - con dieci anni di anticipo - determinati aspetti della trattativa Stato-mafia ed è consapevole che viene messa in piedi per favorire “un futuro governo”. Ma come faceva Sasinini a saperlo? I suoi rapporti con alcuni personaggi chiave del biennio stragista ’92/’93 come Mario Mori e Francesco Di Maggio sono solo una parte di una possibile spiegazione. Che attende ancora di essere completata.
DOSSIER Processo trattativa Stato-mafia