di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo - 25 giugno 2015
“Dopo che andai a Milano nessuno mi disse se quegli accertamenti sui 15 nominativi per stabilire la loro localizzazione al tempo delle stragi furono fatti”. A confermarlo in aula è Francesco Paolo Fulci, teste oggi al processo trattativa Stato-mafia e fino al 1993 segretario del Cesis prima di andare negli Stati Uniti come Ambasciatore italiano alle Nazioni Unite. Durante il controesame dell’avvocato Milio è stata prodotta una lettera, dell’aprile 1994, spedita al segretario generale di Palazzo Chigi, in cui si parlava proprio dei 15 nominativi, gli stessi di cui parlò con Federici a Milano.
Rispondendo ad una domanda di specificazione del pm Nino Di Matteo Fulci ha ribadito che l’idea di andare a parlare con Federici fu sua. “Poi con Manzella dissi: ‘forse vi posso dare una mano che dici ne parlo con Federici?’ E lui mi disse: ‘tutto quello che vuoi’. Inoltre l’Ambasciatore ha detto che conservava quella lista di nomi perché aveva paura che gli potesse accadere qualcosa. In quel caso, quella lista, sarebbe stata utile per vedere dove si fossero trovati. In merito all’incontro con Federici ha aggiunto: “Io gli suggerì di fare in quel modo, di tenere la notizia ristretta e fare le verifiche. Poi quando ricevetti la telefonata di Scalfaro che disse di parlarne con Parisi rimasi sorpreso ma comunque ottemperai”. Allo stesso modo il teste ha detto di non sapere come i quindici soggetti che lui aveva indicato a Federici fossero venuti a conoscenza delle sue dichiarazioni presentando una querela. “Fui persino convocato dal magistrato che era convinto che quella fosse un’operazione di depistaggio - ha raccontato in aula - Non ho mai saputo come quei quindici soggetti avevano saputo che avevo fatto i loro nomi. Davanti a quel magistrato assieme al mio avvocato feci l’amara considerazione su Tortora che era stato considerato colpevole”.
A fine udienza il Presidente della Corte d’assise, Alfredo Montalto, ha anche sciolto la riserva sul confronto Canali-Scibilia, richiesto dai pm: “Rilevato che tra i due sussiste profondo disaccordo su rilevanti circostanze, ritenuto che ha avuto riguardo da un lato al rilievo attribuito dall’accusa della mancata cattura di Santapaola e dall’altro al ruolo svolto in riferimento alla vicenda dei due testimoni appare utile procedere al chiesto confronto anche al fine di acquisire ulteriori elementi di valutazione sull’attendibilità delle due testimonianze. Dispone procedersi al confronto tra Canali e Scibilia”.
L’udienza è stata quindi aggiornata a domani quando saranno esaminati i pentiti Salvatore Annacondia, Gianfranco Modeo.
Processo trattativa, Fulci: “A Federici dissi di verificare l’eventuale presenza dei 15 nomi a Roma, Firenze e Milano”
di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo - 25 giugno 2015
“A Federici dissi, questi sono quelli addestrati nell’uso degli esplosivi, questi sono gli unici all’interno dei servizi che a quanto mi risulta fanno questo lavoro, andate a vedere dove erano la notte degli eventi, se questi non erano a Roma, a Firenze, mi pare che potete stare tranquilli. Se non ci fossero stati era la dimostrazione che non erano i servizi deviati. In Italia ogni cosa che avviene viene attribuita ai servizi deviati e non è così. Quei 15 erano gli unici addestrati per manovrare esplosivi”. E’ così che l’Ambasciatore Francesco Paolo Fulci spiega il motivo per cui, da New York, si recò a Milano. Il teste ha escluso che nell’incontro con Federici si fosse parlato della Falange armata e anche di aver saputo che gli attentati del ’93 erano stati rivendicati dalla stessa”.
Dopo aver detto in aula di non aver mai sentito il nome del Maresciallo Vincenzo Li Causi, il pm Tartaglia ha ricordato che nel verbale dell’aprile 2014 aveva riferito che uno dei quindici morì in Somalia (Li Causi, che fu capo di una cellula Gladio, morì nel novembre del ’93 a Balad nel corso di una misteriosa imboscata), facendo capire che questi fosse proprio tra i quindici nomi. Ma il teste non è riuscito a chiarire: “Non lo ricordo affatto… mi pare di aver letto sui giornali che questo era morto in Somalia. Non ricordo assolutamente se accanto a Li Causi ci fossero altri nominativi di quei quindici in riferimento alla Somalia”.
Processo trattativa, ambasciatore Fulci: “Diedi un elenco di 15 persone per scagionare i Servizi come organizzatori delle stragi del ’93”
di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo - 25 giugno 2015
“Quando cessò il mio incarico al Cesis andai a New York come Ambasciatore dell’Italia presso le Nazioni Unite. Lessi sul News York Times che c’erano stati attentati a Roma Firenze e Milano e siccome c’era scritto che erano ad opera di servizi deviati chiesi l’autorizzazione e mi misi in contatto a Milano con il comandante generale dei Carabinieri Federici dicendo che si poteva verificare se c’entravano i Servizi. Diedi un elenco di 15 persone dei servizi che erano abilitate a utilizzare esplosivo così da verificare se erano in servizio. Perché Federici? Perché lo conoscevo bene e sapevo che avrebbe fatto questi accertamenti così da scagionare i servizi da ogni responsabilità”. Prosegue in aula l’interrogatorio del teste Francesco Paolo Fulci al processo trattativa Stato-mafia. L’Ambasciatore ha riferito di aver ritenuto quei nomi ”un’anomalia” in quanto “ritenevo che i servizi non dovessero fare azioni di guerra, e non capivo perché ci fosse quel nucleo, mi ero annotato quei nomi, ma anche loro sono bravissimi ufficiali che hanno fatto il loro dovere. Fu per lavare l’onta, sui giornali americani si faceva scempio su questi sospetti. Avevo detto a mia moglie se mi succede qualcosa andate a vedere se qualcuno di quei nomi era nei paraggi… a quei 15 nominativi avevo aggiunto il nome Masina…”.
“Quei 15 nominativi erano dell’Ossi (acronimo di Operatori speciali servizi italiani, ndr), del Sismi. Il giudice Casson insistette con Andreotti per conoscere questi nominativi che mi furono dati proprio per darli a Casson. Mi fu detto che esisteva questa cellula che aveva scortato anche Craxi, e i nomi mi vennero dati dal generale …”.
Rispondendo alle domande dei pm il teste ha detto di non aver mai saputo de tra la settima divisione del Sismi (quella dei 15 nomi) e Gladio vi fosse un collegamento.
“Di questa lista - ha aggiunto - ne parlai anche con Parisi e credo che fu lui a passarla ai magistrati. Ne parlai con Parisi perché era una persona perbene”. Della questione parlò anche con il Presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro, e fu proprio quest’ultimo a dirgli di dare questi nomi a Parisi, così come riferito nell’aprile 2014 ai pm. “Se ho detto così nel verbale è andata così - ha ribadito oggi - con Scalfaro parlavamo di tanti problemi… è probabile che mi abbia detto così… non avrei preso io iniziative”.
Processo trattativa, Fulci: “I luoghi da dove partivano le telefonate della Falange Armata sovrapponibili a sedi Sismi”
di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo - 25 giugno 2015
“Il Cesis aveva degli analisti, un bravo analista si chiamava Davide De Luca, è morto di cancro, e si preoccupava di studiare tutto quello che era attinente ai fenomeni eversivi, si preoccupavano di capire chi ci fosse dietro questa sigla. In realtà di misfatti veri e propri non risulta che ne avessero commessi… chiesi a De Luca di verificare quando partivano questi messaggi della Falange armata e lui venne da me con l’aria preoccupata portando due mappe: da dove partivano le telefonate, e dove erano le sedi periferiche del Sismi ed erano sovrapponibili. Io dissi: ‘faccia attenzione, vada ad approfondire su tutti i messaggi e studi dove sono queste sedi, stia attento che la materia è molto seria’”.
“Il Sisde - ha aggiunto - si era preoccupato di capire, sembrava un disegno di matrice carceraria… dovevamo riferire su questo e cercavamo di raccogliere elementi… si analizzavano questi messaggi per capire da quale località venivano fatti... Verso la fine del mio mandato De Luca mi venne a dire che bisognava fare una relazione. Si seppe che queste comunicazioni della Falange Armata avvenivano sempre in orari di ufficio… Quando scoprì le malversazioni al Sisde bloccai i finanziamenti al Sisde”. Alla domanda del pm Tartaglia su come fossero queste mappe l’ambasciatore, oggi Presidente della Ferrero, ha ricordato che si trattava “di due cartine con segnati i posti da dove erano partite le telefonate della Falange Armata e l’altra dove erano le sedi del Sismi. La base era la mappa delle chiamate. Su quelle cartine seppi solo da De Luca che era tutto in mano alla magistratura”.
A quel punto Tartaglia ha chiesto all’Ambasciatore il motivo per cui, per la prima volta, solo nel 2014 riferisce una circostanza così delicata. E Fulci ha risposto: “Fu un’esperienza così dura quella del Cesis che mi venne il fuoco di sant’Antonio, quando il dott. Di Matteo mi interrogò a Milano credo che avesse letto un libro nel quale c’era la riproduzione di questa mappa da dove partivano le telefonate della falange armata e io dissi: guarda hanno pubblicato solo una delle due mappe, so solo che continuai ad essere attaccato da un giornaletto pubblicato in Calabria, sperimentai la macchina del fango… tutto questo mi ha lasciato un segno. Un prezzo altissimo… proprio per aver servito fedelmente lo Stato, infangato io e tutta la mia famiglia… sono anche stupito di aver saputo che tutto quello che ho detto oggi era stato pubblicato questa mattina da un quotidiano… in questo mondo viene strumentalizzato tutto e tutti…”.
Di queste cose non ricorda di aver parlato con il Ministro Nicola Mancino. “Io incontrai una sola volta Mancino, non ricordo se parlammo di questo, probabilmente no, parlammo delle malversazioni del Sisde”.
Processo trattativa, ambasciatore Fulci: “Ricevetti minacce dalla Falange armata”
di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo - 25 giugno 2015
“Due giorni prima di assumere l’incarico al Cesis telefonarono dicendo: ‘qui Falange armata uccideremo l’ambasciatore Fulci. Io dissi: ‘cominciamo bene, ma come fanno a sapere del mio incarico quando tutto è coperto da assoluto riserbo?’ Un messaggio che si ripeté due o tre giorni dopo l’inizio del mio incarico. Della Falange armata avevo sentito parlare sui giornali”. La nomina di Fulci da parte di Andreotti non era stato oggetto di pubblicità sui media però, ha ricordato l’Ambasciatore, “ci fu una campagna violentissima di un giornaletto che circolava negli ambienti dei servizi si parlava sul mio conto e su mia moglie le nefandezze più terribili. Al momento del primo messaggio della Falange armata comunque erano a conoscenza del mio insediamento al Cesis parecchie persone nell’ambito degli addetti ai lavori, soggetti dei servizi e del ministero degli Esteri”.
Rispondendo alle domande del pm Tartaglia il teste ha anche ricordato il momento della sua nomina: “Ricevetti la telefonata da Cossiga di andarlo a trovare dicendo che io avrei dovuto assumere l’incarico di responsabile del Cesis. Io dissi che non pensavo di essere la persona giusta in quanto avevo sempre fatto il diplomatico e lo pregai di non mettermi in quel posto, ma Cossiga mi disse che avevano bisogno di qualcuno che venisse fuori da quel mondo. La proposta arrivò un anno dopo la rivelazione di Gladio. Mai prima di me un diplomatico aveva diretto il Cesis. Io mi ero fatto la fama di uno che cercava di sistemare le cose. Io gli dissi: dovrei dirle di no, ma disponga pure della mia persona, io sono molto preoccupato di quanto mi potrà accadere. Lui mi disse che Andreotti era d’accordo e infatti mi chiamò lui per farmi la proposta ufficiale”.
L’ambasciatore ha poi spiegato il compito del Cesis di coordinamento tra i due principali servizi italiani, il Sismi (che faceva capo del ministro della Difesa) ed il Sisde (che faceva capo al Ministro dell’Interno). “Il Cesis - ha detto - doveva coordinare questi due servizi e rispondeva al Presidente del consiglio dei ministri. Ogni martedì ci vedevamo con lui. Mi trovai in difficoltà perché da un lato per quanto riguardava il Sisde poco dopo la mia assunzione fui portato a conoscenza di malversazioni all’interno di quel servizio, scoprì che in tanti lo sapevano ma non lo avevano rivelato ai politici. Immediatamente andai dal presidente del consiglio e gli feci vedere le copie di queste malversazioni, e Andreotti mi fece il gesto con le mani per dirmi di allontanarli. Io chiamai il responsabile del Sisde dicendo che queste persone devono essere allontanate e io mi resi conto che erano state allontanate da quei posti ma erano rimaste nei Servizi, e questo mi mise in contrasto con il Sisde”.
Durante gli anni vissuti al Cesis Fulci ha detto di aver anche intrattenuto i rapporti con i servizi stranieri tanto da chiedere a Cossiga di avere a Roma una residenza. “Lui - ha raccontato alla Corte - mi disse che c’era già una casa nelle disponibilità del Cesis ma non mi disse che veniva usata per svolgere attività di intelligence, era piena di microfoni, era in via Quintino Sella. Me ne accorsi quando scesi in cantina vidi delle apparecchiature enormi, con registratori, cuffie e quant’altro. Dissi ai responsabili del Sismi di eliminare tutto e mi fu detto che sarebbero state tolte quelle apparecchiature.
Dopo qualche mese, io ricevevo le visite di alcuni colleghi che mi chiedevano: ‘sei sicuro che sono state tolte?’. Venne chiamata una ditta di Modena che scoprì che le microspie, anche in camera da letto, non erano state tagliate ed erano ancora funzionanti. Ero furioso, pretesi di far fare ai miei uomini il taglio di queste apparecchiature. Anche Andreotti rimase esterrefatto”. Alla domanda se Andreotti o altri soggetti fecero nomi su chi potesse essere l’autore di queste intercettazioni Fulci ha ribadito: “Mi dissero che faceva parte di questo mondo. E’ un gioco che è sempre esistito, lo consideravo una croce da portare. Mi parlarono del colonnello Masino, sicuramente gli veniva chiesto… Era in una palazzina prospiciente a questa villa, dove veniva attuata la prosecuzione di quella attività”.
Processo Trattativa, ambasciatore Fulci: “Andreotti e Cossiga mi dissero di risolvere la questione Gladio alla Nato”
di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo - 25 giugno 2015
“C’erano grandi preoccupazioni di uno scoppio di una terza guerra mondiale per i forti contrasti tra le due superpotenze Usa e Unione Sovietica. Così i paesi occidentali crearono un’alleanza: se uno fosse stato aggredito tutti si sentivano aggrediti”. Era questo il contesto in cui l’Ambasciatore Francesco Paolo Fulci, si trovò a vivere tra il 1985 ed il 1991 quando assunse il ruolo presso il Consiglio Atlantico, organo della Nato, a Bruxelles. In quegli anni vi fu in Italia l’interrogazione parlamentare del 24 ottobre 1990 in cui Andreotti, di fatto, ammetteva l’esistenza di Gladio. “Fui investito senza sapere nulla dell’esistenza di Gladio che faceva parte di una rete europea Stay Behind e che era stata costituita dagli organi di intelligence, segreto militare custodito gelosamente - ricorda Fulci in aula al processo trattativa Stato-mafia dove oggi è teste - Tra i colleghi al Consiglio Atlantico nessuno sapeva alcunché dell’esistenza di queste strutture. Io lo seppi da un collega della segreteria della presidenza del consiglio dei ministri, Cavalchini, che mi parlò di questo serio problema: l’esistenza di questa rete preposta in caso di invasione sovietica. Proprio per mantenere segreta questa struttura c’erano depositi di armi e denaro”.
“Da Calavhini - ha aggiunto - ricevetti due pagine di un manuale delle operazioni di Stay Behind e io così ebbi elementi per parlare con il segretario generale”.
In un primo momento c’era stata la smentita sull’appartenenza di Gladio alla struttura Stay Behind tanto che “sul giornale La Repubblica Scalfari pubblicò un editoriale nel quale diceva più o meno: ‘viene fuori che c’è Gladio, che il presidente Cossiga e il presidente Andreotti ci dicono di Gladio, ma c’è il segretario generale della Nato che ha smentito. O mente il segretario della Nato o non dicono la verità Andreotti e Cossiga’. Dopo questo ricordo una telefonata con toni concitatissimi di Cossiga che mi disse: ‘mi accusano di essere un traditore della Patria’. Andreotti pure mi disse: ìlei deve ottenere una smentita dal segretario generale della Nato’. Fu il momento più critico della mia carriera di diplomatico”. La soluzione venne poi trovata: “Andai all’aeroporto ad incontrare il segretario generale Manfred Wörner. Per evitare rischi maggiori si rispose alla stessa maniera di quello che rispondevamo sull’eventuale utilizzo di armi nucleari in risposta ad un’invasione sovietica. Si rispose che la Nato non conferma né smentisce, in materia di nucleare e di sicurezza la Nato non conferma né smentisce”. Alla domanda specifica del pm Roberto Tartaglia, presente in aula assieme al procuratore aggiunto Vittorio Teresi ed il sostituto procuratore Nino Di Matteo, su eventuali riferimenti nel manuale di addestramento Stay Behind a metodi di disinformazione o guerra psicologica il teste ha risposto: “A parte quei due fogli non ho mai potuto vedere quel manuale, il problema fu poi, quando i magistrati non riuscivano a credere che io non fossi a conoscenza di Glasio. Ma quando un segreto viene detto a più persone non è più un segreto. Poi fu Casson a scoprire più avanti, e questo creò la convinzione nei giudici che noi fossimo a conoscenza di questo. Io per fare l’ambasciatore alla Nato non avevo necessità di avere quelle informazioni. Io presumo, dopo essere stato segretario al Cesis, che una parte importante dell’attività di questi patrioti fosse quella della controinformazione e destabilizzazione”.
Dalle rivendicazioni della Falange Armata al 41 bis
di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo - 25 giugno 2015
In aula il teste Francesco Paolo Fulci
Una sigla oscura nel corso della storia d'Italia ha rivendicato ogni singolo atto criminale della strategia stragista, quella della Falange Armata.
La prima volta che la sigla fa la sua apparizione è il 27 ottobre del 1990, quando viene rivendicato l'omicidio di Umberto Mormile, educatore carcerario del penitenziario milanese di Opera. Poi la Falange inizia a seguire quella scia di sangue lasciata dalla banda della Uno Bianca (rivendicazione della strage di via Pilastro in cui vennero trucidati tre carabinieri), per poi comparire in Sicilia nel dicembre 1991 quando, alla vigilia della sentenza del maxi processo contro la mafia, il gotha di Cosa nostra, e non solo, si ritrova ad Enna. E' in queste riunioni che Riina dichiara apertamente guerra allo Stato. Tra i pentiti che riferiscono di queste riunioni vi è Maurizio Avola che racconta: “Per quanto riguarda gli obiettivi da colpire si trattava di azioni di tipo terroristico anche tradizionalmente estranee al modo di operare e alle finalità di Cosa Nostra. Queste azioni secondo una prassi che erano già in atto da tempo dovevano essere rivendicate con la sigla Falange Armata”. Lo stesso ha detto il collaboratore di giustizia Filippo Malvagna: “Nella riunione di Enna in cui si decise la strategia delle stragi Falcone e Borsellino si disse di rivendicare tutti gli attentati con la sigla Falange Armata”. Assassinio Lima, omicidio di Giuliano Guazzelli, strage di Capaci, non c'è delitto di Cosa nostra che non viene rivendicato dai Falangisti.
Ma a nome della falange sono anche una serie di telefonate effettuate in piena trattativa in cui vengono fatti nomi di primo piano con tanto di critiche, minacce e prese di posizione. Il 9 settembre '92 uno dei telefonisti della Falange Armata chiama l'Ansa di Torino per criticare Mancino. Il 26 giugno, la Falange aveva chiamato l'agenzia Ansa per minacciare di morte il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti, prima che fosse sostituito proprio da Mancino. La sigla oscura della Falange poi rifà capolino nel 1993 quando è in corso d'opera un altro piano della trattativa, indicato dai pm, ovvero il dialogo per l'ammorbidimento del carcere duro. Il primo aprile, il solito anonimo chiama l'Ansa di Roma per minacciare il presidente della Repubblica Scalfaro e Mancino. E' lo stesso periodo in cui l'allora Capo dello Stato era stato minacciato anche da alcuni familiari di boss detenuti, con una lettera anonima.
Secondo l'accusa proprio dopo quelle minacce Scalfaro avrebbe deciso di allentare la pressione nelle carceri sostituendo il direttore del Dap. Così, Nicolò Amato fu rimosso e arrivò Adalberto Capriotti. E il 14 giugno la Falange Armata, in una telefonata manifestò soddisfazione per la nomina di Capriotti in luogo di Amato proclamando la sostituzione come “una vittoria della Falange”. A questa telefonata seguirono altre di minaccia a Mancino e al capo della Polizia Parisi (19 giugno), a Captiotti ed al suo vice Di Maggio (16 settembre).
Chi c'era dietro quella sigla oscura che tanto si adoperava negli anni delle stragi?
Secondo l'ambasciatore Francesco Paolo Fulci, ex segretario generale del Cesis tra il maggio 1991 e l'aprile 1993, l’ufficio di coordinamento dei servizi segreti, dietro la sigla “Falange Armata” ci sarebbero uomini di Stato. Nella denuncia presentata nel 1993, poi archiviata dal pm Ionta, Fulci faceva il nome di quindici ufficiali e sottufficiali della VII divisione del Sismi (quella di Gladio per intenderci) che facevano capo, in parte, al nucleo «K», inserito nella Sezione addestramento speciale (Sas), dislocato al di fuori della VII divisione, presso il Centro di intercettazione e trigonometria di Cerveteri.
La VII divisione del Sismi celava anche altro, come gli Ossi (Operatori Speciali Servizio Italiano), che un documento riservato del Sismi definisce come “ personale specificatamente addestrato per svolgere in territorio ostile e in qualsiasi ambiente, attività di carattere tecnico e operativo connesse con la condotta della guerra non ortodossa”.
Si tratterebbe di 007 super addestrati con competenze particolari nell'ambito delle comunicazioni e degli esplosivi. Proprio per parlare delle attività svolte per l'identificazione degli autori e delle rivendicazioni della Falange Armata, Francesco Paolo FULCI, oggi sarà sentito al processo trattativa Stato-mafia.
Verrà anche recuperata l'audizione, saltata alla scorsa udienza, di Salvatore Tito Di Maggio, fratello dell'ex vice Capo del Dap Francesco.
Nel luglio 2012 tito Di Maggio si presentò alla Procura di Palermo portando con se documenti in difesa dell’ex giudice, deceduto nell’ottobre 1996. A suo dire questi non avrebbe avuto un ruolo nell’alleggerimento del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr) ed anzi fu “esautorato in quella decisione”. Al processo Mori-Obinu, parlò degli sfoghi del fratello che si sarebbe lamentato di essere stato tenuto fuori dalle vicende del 41 bis e di non avere condiviso la decisione di revocare oltre 300 provvedimenti di carcere duro per i boss decisi a fine ’93.
Inoltre secondo Tito Di Maggio tra Franco (così lo chiamava, ndr) e Adalberto Capriotti, allora capo del Dap, “ci furono incomprensioni e diversità di vedute”. Contrasti che non ci sarebbero stati invece l’ex ministro della Giustizia Conso, come invece aveva riferito ai pm proprio Capriotti. Così oggi Tito Di Maggio dovrà riferire quanto apprese dal fratello sugli incarichi informalmente assegnatigli “per trovare una soluzione politica a tangentopoli” nonché a quello, immediatamente successivo, formalizzato con la nomina a vice direttore del dipartimento di amministrazione penitenziaria. Inoltre il teste sarà ascoltato anche in merito ai rapporti tra Francesco Di Maggio, il ministro Conso ed il Presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro.
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