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toghe-sfoglianodi Lorenzo Baldo, Aaron Pettinari e Francesca Mondin - 21 maggio 2015
Su decisione della Corte, presieduta da Alfredo Montalto, oltre all’esame dei pm si è proceduto a quello degli avvocati della difesa che hanno chiesto di poter sentire il teste Vittorio Aliquò su altri temi rispetto il capitolato di prova. Così, rispondendo alle domande dell’avvocato Nicoletta Piergentili (difesa Mancino), l’ex magistrato ha parlato dell’incontro avvenuto il primo luglio, a Roma, tra Borsellino ed il Ministro dell’interno Nicola Mancino, imputato al processo per falsa testimonianza: “Il primo luglio del 1992 io e Paolo Borsellino andammo a trovare il ministro dell'Interno Nicola Mancino, che si era insediato proprio quel giorno. Fu l'allora prefetto Parisi a invitare Paolo e me". Quindi ha aggiunto: “Avevamo preso appuntamento per salutare il Prefetto Parisi e, con l'occasione, anche per salutare il ministro che si era insediato quel giorno a Roma fu Parisi a chiamare Paolo quella mattina e poi anche di pomeriggio. Noi eravamo a Roma per interrogare due collaboratori, di mattina Leonardo Messina e di pomeriggio Gaspare Mutolo". Mancino, in passato aveva prima sostenuto di non ricordare l'incontro con Borsellino, poi invece ha anche detto di averlo salutato insieme ai tanti personaggi accorsi al ministero nel giorno del suo insediamento. Aliquò ha riferito anche altri particolari di quell’incontro: “Avevamo appuntamento per le 18 al Viminale la mattina avevamo preso appuntamento per il pomeriggio. Per la verità, non avevamo tanta voglia di andare e incontrare nessuno, il Prefetto ci teneva che andassimo. Siamo andati, così dopo qualche minuto di attesa nella stanza di Parisi e dopo avere scambiato qualche convenevole, fummo chiamati. Il ministro era seduto al tavolo, si alzò, ci venne incontro, ci fece accomodare. Ci proponevamo di accertare quali fossero le intenzioni del governo per seguire le indagini su Cosa nostra, per vedere se c'erano indicazioni particolari. Ma non fu possibile, abbiamo parlato per non più di un minuto due di convenevoli, poi il ministro si alzò e ci salutò”. Aliquò ha anche detto che in quella mattina Borsellino si sarebbe allontanato soltanto per un momento per andare in bagno, escludendo che potesse essere rimasto solo con il ministro. In merito all’eventuale presenza di Contrada ha detto: “Io personalmente non l’ho visto. Mi dissero qualcosa quelli della scorta o di averlo visto o di aver sentito la sua voce. Paolo non mi disse nulla”.  
Sollecitato dalle domande dell’avvocato Milio ha ricordato l’episodio dell’assegnazione da parte del Procuratore capo Giammanco per poter sentire il teste Mutolo. “Borsellino per competenza territoriale non avrebbe potuto. Venne anche da me. Per me non c’erano problemi e ne parlai anche con il Procuratore capo che poi assegnò Mutolo ad entrambi”. L’ex procuratore aggiunto, oggi in pensione, ha anche ricordato che dopo la strage Falcone “Borsellino, ma anche io stesso ed altri magistrati, cercavamo elementi per poter aiutare le indagini di Caltanissetta”.


Processo trattativa, Aliquò: “La mancata perquisizione del covo di Riina? Contraria alla prassi”
di Lorenzo Baldo, Aaron Pettinari e Francesca Mondin - 21 maggio 2015

“Subito dopo l’arresto di Riina io stesso avevo chiesto di fare subito la perquisizione, mi dissero che non avevano più personale e non si sapeva quale fosse la casa. Poi i militari del Ros tramite Mori mi dissero che non era opportuno e che era meglio mantenere un’osservazione, così da ottenere qualcosa di più in quanto non sapevano dove stesse andando Riina”. Il tema dell’arresto del Capo dei capi, il 15 gennaio 1993, viene affrontato in aula da Vittorio Aliquò, all’epoca procuratore aggiunto. Il teste ha poi ricordato che “la questione fu ripresa dall’arrivo di Caselli. I militari del Ros, in particolare il capitano Ultimo insistettero a non fare la perquisizione, la cosa ci lasciò perplessi perché era contraria alla prassi, ma date le insistenze del Ros Caselli disse: ‘lasciamo questa possibilità, basta che si faccia la sorveglianza’. Ci venne assicurato che la sorveglianza sarebbe stata fatta e invece dopo diversi giorni di sollecitazioni per avere notizie ci venne riferito che la sorveglianza era stata ritirata molti giorni prima. Perché contrario alla prassi? Perché generalmente si faceva immediatamente la perquisizione”.
Secondo Aliquò, inoltre, “anche considerando che non fosse conosciuta la sede del covo di Riina. Si sapeva che era in un complesso residenziale e con una perquisizione, prima o poi, si sarebbe comunque arrivati. Erano state compiute una serie di attività investigative che ci hanno portato a definire che Riina era in una precisa zona di Palermo e le cose più serie si fecero dopo la cattura di Balduccio Di Maggio che indicò la famiglia dei Ganci della Noce per arrivare a Riina. Si interessavano della cosa la Territoriale di Torino e di Palermo, poi si inserì il Ros”. Aliquò ha anche riferito di aver appreso in qualche modo di una riunione, nel settembre 1992, avvenuta presso la caserma dei Carabinieri di Terrasini, a cui parteciparono i vertici del Ros con il maresciallo Lombardo, proprio per la cattura di Riina”.
Tra i temi affrontati dall’esame dei pm anche il “depistaggio” di Fondo Gelsomino. “Diverso tempo dopo l’arresto - ha detto Aliquò - venne fatta una finta operazione per allontanare i giornalisti che si stavano avvicinando troppo alla zona del covo per evitare che scoprissero qualcosa. Ci dissero che poteva servire per convincere i mafiosi che non avevamo individuato il vero covo di Riina. Ma allora il servizio di sorveglianza era già disattivato. Quando poi effettuammo veramente la perquisizione trovammo la casa svuotata, con la carta da parati tolta ed a terra tanta sporcizia. La cassaforte? Trovammo il vano ma questa era stata tolta”.
Rispondendo ad una domanda del pm Francesco Del Bene il teste è tornato a parlare dell’interlocuzione avuta con il vice capo del Dap, Di Maggio, prima del 30 ottobre ’93. “Avevo telefonato a Di Maggio, ci sentivamo spesso, lui mi disse: ‘siamo occupati con la questione del 41 bis, credo che il ministro sia favorevole ad una non proroga, tenetevi pronti’.


Processo trattativa, ex pm Aliquò: “La non proroga dei 41 bis era un provvedimento grave”
Per problemi di salute salta l’esame di Gifuni

di Lorenzo Baldo, Aaron Pettinari e Francesca Mondin - 21 maggio 2015
“Per noi la non proroga di quasi quattrocento 41 bis rappresentava un documento grave che non potevamo in alcun modo condividere. Questo rispondemmo alla lettera pervenuta il 30 ottobre dal Dap dove ci venivano richieste informazioni sui detenuti”. A dirlo in aula il teste Vittorio Aliquò, ex procuratore aggiunti di Palermo al processo trattativa Stato-mafia, oggi in corso al Palazzo di Giustizia. Rispondendo alle domande del pm Vittorio Teresi (rappresentante dell’accusa assieme a Francesco Del Bene), Aliquò ha ricordato la lettera giunta dal Ministero e dal Dap, inviata appena pochi giorni prima la scadenza dei 41 bis, prevista per il primo novembre 1993. “Non c’era il tempo per dare una risposta precisa su tutti quei nomi - ha aggiunto - Era sabato, era il giorno che precedeva le celebrazioni dei morti e la scadenza del carcere duro per alcuni era prevista nei giorni successivi. Io e Croce ritenevamo rilevante, anche per le nostre indagini, che a certi detenuti non fosse tolto il 41 bis. Sarebbe stato negativo sotto tutti i profili perché sarebbe stata trasmessa una sensazione di cedimento e si sarebbe aperta la possibilità di riprendere i contatti (tra carcere e l’esterno) interrotti grazie al 41 bis. Provammo a raggiungere Caselli telefonicamente ma non lo trovammo e così inviammo noi la risposta per quelle che erano le nostre conoscenze. Poi c’era anche una questione politica nella quale noi però non volevamo entrare”. Aliquò ha anche riferito che di quelle mancate proroghe se ne parlava da un po’ di tempo anche in Procura. “C’erano voci. Io credo di aver appreso di questa idea del ministro (all’epoca Conso) da Di Maggio che aveva un ruolo di vertice all’interno del Dap. Ricordo che ne parlai anche con Caselli ed eravamo assolutamente contrari a questa cosa”. All’inizio dell’udienza odierna Teresi e Del Bene hanno rappresentato l’assenza del teste Francesco Gifuni che ha fatto pervenire un certificato medico che ha reso impossibile la trasferta a Palermo.


Processo trattativa, in aula Aliquò e Gifuni
di Aaron Pettinari - 21 maggio 2015

Il processo trattativa, per una volta, non si terrà all’aula bunker dell’Ucciardone (lasciata libera in vista degli eventi di commemorazione della strage di Capaci) ma presso l'aula della Seconda Corte di Assise del Palazzo di Giustizia di Palermo. In programma è prevista l’audizione dei testi, Vittorio Aliquò e Gaetano Gifuni. Il primo dovrà riferire alla corte in particolare in merito alle vicende immediatamente successive alla cattura di Salvatore Riina e sulla mancata proroga di oltre trecento detenuti al quarantuno bis, a partire dal novembre 1993, per volere del ministro di grazia e giustizia Giovanni Conso.
Aliquò infatti, assieme a Luigi Croce, è uno dei pm che risposero all’allora direttore del Dap, Adalberto Capriotti, il quale aveva chiesto un parere sulla proroga o meno del carcere duro ai boss. “Ci giunse una lettera con l’elenco dei detenuti sottoposti al 41 bis – ha raccontato Aliquò al Borsellino quater nel gennaio 2014 – il cui termine per il carcere duro stava scadendo a decorrere dal 1° novembre. La lettera arrivò ai magistrati, ai quali veniva richiesto un parere in merito, il 29 di ottobre. Per logici motivi non avremmo potuto motivare adeguatamente le considerazioni sul punto. Viene ad ogni modo ribadita la nostra posizione decisamente contraria alla revoca, che era la linea adottata dal nostro ufficio”.

La mancata perquisizione del covo di Riina
Aliquò potrà anche fornire dei chiarimenti su quanto accaduto nel 1993 dopo l’arresto del Capo dei capi, Totò Riina. E’ noto che quel giorno non venne effettuata la perquisizione del covo di via Bernini, optando per un servizio di osservazione che solo in un secondo momento si scoprì non essere stato operato dal Ros. Secondo la ricostruzione di Aliquò (all’epoca procuratore aggiunto di Palermo) della perquisizione se ne parlò in una riunione tra ROS e procura del 26 gennaio ’93, dove il colonnello Cagnazzo lasciò intendere che “poteva non esserci più questa osservazione perché potrebbero esserci altre esigenze…”. Sempre secondo Aliquò il giorno dopo durante un’altra riunione la procura avrebbe sollecitato la perquisizione mentre Mori sembrava “non avere urgenza” in quanto l’osservazione del covo “stava creando tensione e stress al personale operante”. Il primo febbraio 1993 uscì poi il dispaccio Ansa in cui venne data definitivamente la notizia dell’individuazione del rifugio in Via Bernini 52/54 e della sua prossima perquisizione (che avviene il giorno seguente 2/2/’93 ndr).

La sostituzione di Amato e la lettera contro Scalfaro
Nella giornata odierna a salire sul pretorio dei testimoni sarà poi Gaetano Gifuni, già Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, chiamato a riferire in merito alla sostituzione di Amato al vertice del Dap ma anche sulla lettera di minacce indirizzata da sedicenti parenti di mafiosi detenuti al carcere di Pianosa ed a quello dell’Asinara nel febbraio del 1993 e diretta, tra gli altri, al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Nel verbale del 20 gennaio del 2011, ai pm aveva affermato “di essere a conoscenza che la sostituzione del professor Nicolò Amaro con il dr. Capriotti nell’incarico di direttore del Dap fu sostanzialmente decisa nell’accordo tra il ministro Conso, il presidente del Consiglio Ciampi e il presidente della Repubblica Scalfaro. Quest’ultimo – aggiunge Gifuni – conosceva personalmente il dottor Capriotti all’epoca procuratore generale a Trento”.

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