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forlani-arnaldo-webbdi Aaron Pettinari - 5 febbraio 2015
Al processo trattativa la testimonianza dell'ex segretario della Dc
“La scelta del Capo dello Stato? Condivisa dai partiti senza condizionamenti. La proposta nomina di Nicola Mancino come ministro degli Interni? Una scelta effettuata dall'ufficio politico con estrema serenità all'interno del partito. Lo ritenevamo assolutamente idoneo a ricoprire quel ruolo”. Sono queste le parole dell'ex segretario della Dc, Arnaldo Forlani, sentito oggi come teste, nell'ultimo giorno della trasferta romana del processo trattativa Stato-mafia. Un'audizione in cui non sono mancati i “non ricordo” da parte del novantenne politico che ha comunque fornito una spiegazione su quanto avvenuto nel giugno 1992 quando nel giro di un mese il Parlamento si trovò ad affrontare la scelta del nuovo Capo dello Stato (venne eletto Oscar Luigi Scalfaro) e la costituzione di un nuovo Governo (l'incarico di Presidente del Consiglio fu dato a Giuliano Amato). In base a quanto dichiarato in aula da Forlani fu tutto abbastanza “normale”. In quello che a suo dire era “un dibattito politico in cui i dissensi parlamentari per il Capo dello Stato non erano diversi da quelli manifestati in occasione dell'ultima nomina dei giorni passati (che ha visto l'elezione di Sergio Mattarella). “Venne fatta una scelta istituzionale dai partiti – ha ricordato - Io fui uno dei promotori di questa cosa dopo che mi chiesero di candidarmi. Proposi uno tra Spadolini e Scalfaro, rispettivamente presidente del Senato e della Camera. La scelta del Capo dello Stato non venne fatta legandola alle questioni tragiche della strage di Capaci e dell’omicidio Lima. La scelta venne fatta dai partiti in maniera indipendente Venne nominato Scalfaro e questi diede l'incarico a Giuliano Amato per procedere con la formazione della squadra di Governo”. Per quanto riguarda le proposte sui nomi dei ministri Forlani ha poi spiegato che nel 1992 l’ufficio politico della Dc indicò il nome di Mancino per il nuovo governo. “Era una fase convulsa quella della formazione del governo – ha ricordato - L’indicazione, salva l’autonoma responsabilità del Capo dello Stato, l’indicazione orientativa dell’ufficio politico andò su Mancino e si indicava anche la casella che questi dovesse occupare. Nell’ufficio politico della Dc c’eravamo io, il Presidente del Consiglio Nazionale, i presidenti dei gruppi Parlamentari alla Camera ed al Senato (Bianco e Mancino), e talvolta anche l’onorevole Lega e Sergio Mattarella. Le indicazioni erano inserite comunque in un dibattito politico di serenità”. Le dichiarazioni dell'ex segretario della Dc stridono enormemente con il clima che si respirava all'epoca.

L'omicidio Lima, Capaci e l'allarme di Scotti
Lo scenario era particolarmente convulso. Il 12 marzo 1992 l'onorevole Salvo Lima, parlamentare siciliano della Dc, venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche. Un primo fatto eclatante che fu seguito dalle dichiarazioni dell'allora ministro degli Interni, Vincenzo Scotti, all'audizione del 20 marzo 1992 alla Commissione Affari Costituzionali e Interni della Camera dei Deputati. “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte a un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo – diceva Scotti - Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata. Io me ne assumo tutta la responsabilità. Se qualcuno ritiene che questo non sia vero sono pronto alle dimissioni ma per questa ragione, ma non cedo il passo su questo terreno, ho detto che l’allarme sociale è altissimo e la gente deve sapere queste cose. Siamo un Paese di misteri e io non intendo gestire il ministero degli Interni con una condizione di silenzio o di misteri e senza mettere su carta le cose che si fanno”. Parole che dimostrano come a livello istituzionale il clima fosse tutt'altro che sereno. Il 23 maggio a Capaci, lungo l'autostrada di Capaci vengono fatti saltare in aria il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. Un attacco diretto al cuore dello Stato. A seguito della strage di Capaci, fu introdotto dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), l'articolo 41-bis. Ed è in quel periodo che si avviò il dibattito per la conversione in legge (che avvenne solo il 7 agosto 1992) con pareri che, fino alla strage di via d'Amelio, erano piuttosto discordanti in Parlamento. Non solo. Il 20 giugno 1992, in una nota riservata del comandante generale dell’Arma dei carabinieri, indirizzata al direttore del servizio segreto militare il 20 giugno 1992, venivano messi nero su bianco i seri pericoli nei confronti del giudice Paolo Borsellino (ucciso il 19 luglio 1992). Vi è scritto in quella nota: “Borsellino correrebbe seri pericoli per la sua incolumità a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese che, fortemente colpita dai recenti successi investigativi, ha di molto ridotto la propria credibilità in seno ai vertici dell’organizzazione”. Inoltre, in quello stesso appunto, si ribadisce che erano a rischio anche i politici siciliani Calogero Mannino e Salvo Andò, già segnalati nelle informative successive all’omicidio di Salvo Lima, diversamente bollate dall’allora capo del governo, Giulio Andreotti, come una “patacca”. Nell'appunto dei carabinieri si spiega anche quello che poteva essere l'obiettivo delle stragi, ovvero “Indurre un clima di grave intimidazione nei confronti di politici, per flemmatizzare l’impegno contro la criminalità, ed eliminare fisicamente alcuni inquirenti evidenziatisi nella recente, proficua attività di repressione”. Alla luce di questi elementi, di cui Forlani ha detto di non avere particolare ricordo, ecco che appare quantomeno improbabile che il clima al tempo potesse essere sereno e che le scelte venissero fatte senza tener conto di questo quadro.

L'avvicendamento Scotti-Mancino
La testimonianza di Forlani non chiarisce del tutto i reali motivi che hanno portato all'avvicendamento tra Scotti e Mancino al ministero degli Interni. “Scotti non voleva rinunciare al mandato parlamentare e non accettava la normativa interna del partito che prevedeva la rinuncia in caso di incarico di governo. E noi indicammo Mancino come ministro degli Interni” ha raccontato ai giudici. Secondo quanto riferito dall’onorevole “Scotti in un primo momento non era d’accordo, poi tornò sui suoi passi tanto che lo proponemmo ministro degli Esteri. Avvenne nel giro di pochissimo tempo, lo spazio di una nottata. Quando Scotti disse che rinunciava però ormai avevamo fatto già il nome di Mancino come ministro degli Interni”. Alla domanda se vi fossero state pressioni del Capo dello Stato sull’indicazione di Mancino (presente in aula, ndr) Forlani ha detto di non ricordare particolari interlocuzioni anche se in un precedente verbale aveva riferito che “per la concreta collocazione del ministro degli Interni credo abbiano pesato soprattutto le parole del Presidente incaricato e del presidente della Repubblica che per altro era stato per molti anni ministro dell’Interno”. Ed è proprio questo un punto che non viene chiarito nella vicenda. Se l'obiettivo del governo era quello di dare una certa continuità nell'azione di repressione contro le mafie, con la legge 41 bis che doveva essere discussa in Parlamento, non avrebbe avuto più senso confermare Scotti come ministro degli Interni nel momento in cui, a detta dello stesso Forlani, ad un certo punto si era detto disponibile a rinunciare al mandato parlamentare? Del resto lo stesso Giuliano Amato aveva optato per una soluzione di continuità confermando Claudio Martelli come ministro della Giustizia invece all'interno della Dc si scelse, di fatto, una forma di azzeramento di quella che era stata la precedente squadra di Governo. “Del resto – ha aggiunto Forlani - Mancino non poteva più essere capogruppo dei senatori Dc, carica che spettava ad Antonio Gava. La logica delle nomine era effettuata con nomi a nostro giudizio più idonei per assumere quei ruoli. Scotti appariva idoneo a ricoprire il ministero degli esteri per la sua esperienza nel settore rapporti extranazionali”. Un fatto singolare quest'ultimo se si considera che Mancino in passato era stato incaricato come “ministro senza portafoglio”, quando Forlani era Presidente del Consiglio, proprio nelle relazioni con la Comunità europea, il che, forse, lo rendeva più indicato proprio per il dicastero degli Esteri. Ma Forlani ha replicato: “E' vero che Mancino aveva avuto esperienza nei rapporti con l'Europa ma appariva comunque una figura ferma ed integra ed avrebbe dato continuità agli Interni”.

Insoddisfazione Scotti
Sulle proteste di Scotti ha aggiunto: “Noi sapevamo che lui era contrario alla rinuncia del mandato parlamentare ma lui non ne parlò mai direttamente con me”. E’ stato a questo punto che il pm Teresi ha ricordato una lettera inviata da Scotti nel luglio ’92, inviata proprio a Forlani, sul tema dell’incompatibilità. Durante l’esame Forlani ha anche dichiarato di aver appreso solo successivamente, in anni recenti, della lettera che Scotti scrisse ad Amato nell’immediatezza della formazione del governo con cui dava le dimissioni da Ministro degli Esteri. “Scotti era contento di andare agli Esteri - ha aggiunto - Ho saputo poi di questa lettera solo nell’ambito di questo processo e rimasi sorpreso”. In merito alle dimissioni da parlamentare, da parte di Scotti, nel luglio ’92, in un secondo momento ritirate, Forlani ha detto in un primo momento di ricordare che ciò era avvenuto poi, rispondendo ad una domanda del pm Teresi, ha detto di “non ricordare l’atto” (anche se il documento è presente negli atti del procedimento). Una sorta di “let motive”, per una tre giorni che oltre ai flebili ricordi ha messo in mostra assenze giustificate (vedi Giovanni Conso e Carlo Azeglio Ciampi) e silenzi (vedi l'ex Dap Adalberto Capriotti, che si è avvalso della facoltà di non rispondere), che lascia tanta amarezza di Stato. 

DOSSIER Processo trattativa Stato-Mafia

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