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di Giorgio Bongiovanni e Miriam Cuccu - 11 dicembre 2014
Protocollo Farfalla: “Prassi illegale, sarebbe un fatto gravissimo"

Al processo trattativa è il giorno di Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Messina e dal 2002 al 2011 direttore dell’ufficio detenuti al Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Un organo che, nel 2004, avrebbe firmato un patto con i servizi segreti per avviare una serie di colloqui informativi con i boss detenuti, anche dietro compenso. “Non ne ero a conoscenza – dichiara il magistrato – come dirigente del Dap dovevo fare in modo che tutto si svolgesse nelle regole dell'ordinamento penitenziario, che sono molto rigide. Quel protocollo comporterebbe una palese violazione dei principi dell'ordinamento penitenziario e sarebbe un fatto grave”. Da poco la Procura ha depositato agli atti del dibattimento in corso una serie di documenti riservati che ne confermano l'esistenza, oltre all'elenco dei capimafia che sarebbero stati a libro paga del Sisde. In base alle carte, sarebbero in particolare otto i mafiosi che avrebbero messo a disposizione dei servizi le informazioni in loro possesso. “E’ una prassi totalmente illegale – protesta Ardita – non solo va a incidere sui colloqui investigativi ma potenzialmente può creare un inquinamento delle possibili fonti di prova successive. Mi auguro non sia accaduto, ma se così fosse sarebbe un fatto gravissimo”. Il protocollo Farfalla (per il quale è in corso a Roma un processo per omissione di atti d’ufficio) è ormai un documento scritto nero su bianco, in cui si parla di una “penetrazione informativa intramuraria” per “l’ingaggio dei detenuti appartenenti alle maggiori strutture criminali autoctone”. Proprio Ardita, chiamato a testimoniare al processo Mori-Obinu nel 2011, fu il primo a nominarlo pubblicamente, sempre davanti al pm Nino Di Matteo che oggi conduce l’esame.

Pressioni per trasferire Provenzano
Provenzano doveva essere portato nel carcere di Rebibbia o a L’Aquila. Queste furono le ripetute richieste che pervennero all’ufficio detenuti, diretto da Adita, da parte dell'ufficio ispettivo del Dap e del Gom, a seguito dell’arresto del boss corleonese nell’aprile 2006. L’ufficio decise però di destinare Provenzano al carcere di Terni: “A L’Aquila – spiega il magistrato – c’era il boss Giuseppe Madonia, i due non potevano stare nello stesso istituto. Un paio di giorni dopo il trasferimento di Provenzano a Terni il quotidiano Repubblica pubblicò un articolo in cui si sosteneva che Giovanni Riina – figlio maggiore del Capo dei capi – aveva commentato duramente l'arrivo del padrino di Corleone nel suo stesso carcere. La notizia era assolutamente falsa. Poi però ricevemmo altre richieste sia dall'ufficio ispettivo del Dap che dal Gom di mandare Provenzano a Roma o a L'Aquila, ma spostare un detenuto sulla base di una notizia falsa è un atto insensato". E’ in questo momento che, continua Ardita, "sono arrivati degli esposti anonimi in cui si diceva che avevamo portato Provenzano in un carcere poco sicuro". La fuga di notizie infondate, però, non si fermò qui: “Il Corriere della sera scrisse che al boss corleonese era stata servita, il giorno del suo compleanno, una torta. In realtà accertammo che il vitto di Provenzano era legato a quello degli agenti, e che quel giorno prevedeva anche il dolce”.

Anomalie nella mancata proroga dei 41bis
Nelle dinamiche che portarono alla mancata proroga di oltre trecento 41bis a novembre ‘93, racconta Ardita,  "Ci sono molte anomalie". Nel ‘92 il direttore del Dap era Nicolò Amato, il quale "aveva proposto tra settembre e novembre 1992 al ministero della Giustizia di applicare il 41 bis a tutti i detenuti per mafia. Sarebbero stati così circa cinquemila i detenuti al 41 bis, ma la sua proposta fu bocciata". Poi, nel ’93, su disposizione del ministro della Giustizia Giovanni Conso vennero cambiati i vertici del Dap: il posto di Amato e del vice Edoardo Fazioli venne preso da Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio. Pochi giorni dopo Capriotti invia una nota a Conso in cui si chiedeva di non prorogare i 41bis per dare “un segnale positivo di distensione” nelle carceri. “E’ una nota anomala – precisa Ardita – il dipartimento è fatto da tecnici, non fa valutazioni politiche, quelle le fa il ministro”. Poi i 41bis furono effettivamente lasciati scadere. "L'istruttoria del Dap per il mancato rinnovo dei 41 bis a novembre 1993 – spiega il magistrato - fu avviata solo il 29 ottobre precedente – giorno in cui venne ricevuta dalla Procura di Palermo, ndr – un tempo troppo stretto per procedere in tempo. Questo impedisce di dare una risposta utile, ma soprattutto l’istruttoria doveva essere aperta prima di inviare la nota al ministro per dirgli cosa fare”. Ardita si interessò di quei fatti nel 2002 quando, ricorda  “ricevetti la visita di Gabriele Chelazzi che mi chiese di consultare l'archivio dei documenti sul 41 bis. Collaborai con lui per raccogliere tutta la documentazione. Tra gli atti c'erano anche quelli sulla mancata proroga di alcuni 41 bis nel 1993. A fine 1992 ci sono circa mille detenuti al 41 bis". A novembre quelli non rinnovati furono 334. “La cartina tornasole per capire se quelle revoche andavano fatte emerge da un dato storico e cioè dal numero dei detenuti che tornarono al 41 bis dopo il mancato rinnovo. Sono oltre 50 quelli che hanno visto riapplicato il regime speciale, anche in epoca molto successiva al 1993".

Foto © Giorgio Barbagallo

AUDIO
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