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di Lorenzo Baldo e Miriam Cuccu - 2 ottobre 2014

Tra amnesie e conferme la testimonianza dell’ex fedelissimo di Matteo Messina Denaro
Palermo. “L’attentato a Roma contro Falcone? A un certo punto Riina ci disse di tornare in Sicilia perché aveva cose più grosse da fare”. “La presenza di un uomo che non era di Cosa Nostra nella preparazione degli attentati di Roma? Chiedetelo a Matteo Messina Denaro”. “Fu lui a dirci di votare Forza Italia perché era il partito che più ci garantiva”. “L’individuazione del patrimonio artistico? Sarebbe servito a far scendere a patti lo Stato con Cosa Nostra”. La voce dell’ex capomandamento di Mazara del Vallo, Vincenzo Sinacori, tradisce un filo di tensione. All’udienza odierna del processo sulla trattativa i pm Del Bene, Di Matteo e Teresi ricostruiscono fatti e circostanze che lo hanno visto protagonista nei 15 anni (dal 1981 al 1996) in cui ha fatto parte di Cosa Nostra.

Il più delle volte l’ex boss non si ricorda nei minimi particolari quanto riferito quasi vent’anni fa. Ad ogni  contestazione del pm, il collaboratore si limita a confermare le sue precedenti dichiarazioni. Che aprono comunque uno squarcio sul dietro le quinte di determinati attentati e su quelli abortiti prima ancora di essere realizzati. Come quelli che si sarebbero dovuti compiere a Roma nei confronti di Giovanni Falcone, Claudio Martelli, Maurizio Costanzo ed altri soggetti. “Ci appostavamo in via Arenula per controllare i movimenti di Martelli e davanti ai ristoranti che sapevamo frequentava Falcone, che era l'obiettivo prioritario – riferisce in videoconferenza il pentito –, ma non concludemmo nulla. Quello più facile da colpire era Costanzo, però poi arrivò l'ordine di Riina di tornare indietro perché lui aveva cose più grosse da fare”. “Si è mai chiesto il perché di questo cambio di strategia?”, chiede Del Bene. “Non l’ho mai saputo – replica laconico –, non l’ho mai chiesto. Quando avvengono questi fatti a Palermo non c’è bisogno di chiedere niente”. Non mancano ulteriori flashback sulla preparazione di quegli omicidi. “Nell’ultima riunione da Salvatore Biondino si parlò dei preparativi per Roma – specifica – c’era anche Geraci Francesco (un gioielliere di Castelvetrano, oggi collaboratore di giustizia, ndr), un amico di Matteo Messina Denaro che non era uomo d’onore”. Alla domanda del pm sulla ragione della presenza di un non-affiliato il collaboratore è alquanto diretto: “chiedetelo a Matteo Messina Denaro perché era lì…”. Sinacori racconta anche della particolare sinergia, nel periodo della preparazione di quegli attentati, con il clan napoletano dei Nuvoletta, nello specifico con Ciro Nuvoletta (figlio di Lorenzo) che sarebbe stato regolarmente “affiliato” a Cosa Nostra. L’ex capomandamento di Mazara racconta inoltre del libro sui monumenti italiani che gli avrebbe mostrato Messina Denaro jr. prima delle stragi del ’93. L’obiettivo sarebbe stato quello di colpire lo Stato per far togliere il 41bis che “portava a pentimenti”. Nel ’97 Sinacori aveva dichiarato che l’individuazione del patrimonio artistico serviva “a far scendere a patti” lo Stato con Cosa Nostra. “Io pensavo che era così – ha parzialmente confermato oggi il pentito –, non ho la certezza… pensavamo che facendo così lo Stato sarebbe potuto venire a patti”. Il collaboratore sottolinea che l’ex boss, morto “suicida”, Antonino Gioè “era sostenitore di questi discorsi, se non ricordo male voleva buttare giù la torre di Pisa per far togliere il 41bis”. Anche le divergenze all’interno di Cosa Nostra sul proseguimento della strategia stragista dopo l’arresto di Riina tornano alla ribalta. “Matteo Messina Denaro e noi dovevamo seguire la linea di Riina perché se lo diceva Bagarella era come se lo diceva Riina. I contrari alla prosecuzione erano Provenzano, Ganci e forse era anche un po’ titubante Giovanni Brusca”. Sul ruolo del suo capo, però, l’ex boss è tassativo: “in Cosa Nostra comandava solo una persona, Totò Riina, gli altri erano numeri”.

In foto: i danni alla Sala della Niobe (Strage di Via dei Georgofili)
tratto da firenze.repubblica.it

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