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tribunale-palermo-cavallidi Miriam Cuccu - 27 maggio 2013
Un'indagine insidiosa e ostacolata su più fronti, un filone investigativo che porta i pm della Procura di Palermo direttamente nei palazzi delle istituzioni, dove chi sedeva al potere decise, in nome di una certa “Ragione di Stato”, di piegarsi alle richieste avanzate da Cosa nostra. E sacrificare sull'altare della storica alleanza che da sempre unisce Stato e mafia chi, come i giudici Falcone e Borsellino, avrebbe ostacolato in tutti i modi la trattativa in corso fra le due parti. L'inchiesta, coordinata da magistrati di rara professionalità e spessore morale, è infine arrivata a processo, in un clima che, con il progredire delle indagini, vedeva aumentare in modo esponenziale gli attacchi frontali volti a delegittimare quei pubblici ministeri che si erano messi in testa di processare lo Stato.

Oggi compariranno davanti alla seconda sezione della Corte di Assise del Tribunale di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, indistintamente uomini di Cosa nostra (Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Totò Riina), collaboratori di giustizia come Giovanni Brusca, figli di mafiosi come Massimo Ciancimino, ex esponenti politici (Marcello Dell’Utri e l'ex ministro Nicola Mancino) ed ex ufficiali del Ros (Giuseppe De Donno, Mario Mori, Antonio Subranni). Accusati, ciascuno secondo la posizione occupata un ventennio fa, di aver preso parte ad una trattativa “sostanzialmente unitaria, omogenea e coerente, ma che lungo il suo iter ha subìto molteplici adattamenti, ha mutato interlocutori e attori da una parte e dall'altra, allungandosi fino al 1994, allorquando le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese” scrivevano i pm Ingroia (al quale è poi subentrato Vittorio Teresi), Di Matteo, Del Bene, Sava e Tartaglia nella memoria depositata a novembre del 2012. “In questo quadro, può dirsi che è proprio dal suo epilogo del 1994, che viene ancor meglio in evidenza la vera posta in gioco di tutta la ‘trattativa’. Essa non è stata limitata a singoli obiettivi ‘tattici’, come la tregua per risparmiare gli uomini politici inseriti nella lista mafiosa degli obiettivi da eliminare, o l'allentamento del 41 bis e gli altri punti del papello, ma – assai più ambiziosamente – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici” trovati, come ha dichiarato il superpentito Gaspare Spatuzza, depositario delle confidenze del boss Giuseppe Graviano, nelle figure del “paesano” (Dell'Utri, ndr) e di “quello di canale 5” (Berlusconi, ndr) “dall'altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l'Italia”.
Tuttavia “nessuno è imputato per il solo fatto di aver trattato. Non ne sono imputati i mafiosi e neppure gli uomini dello Stato”. “I boss mafiosi Riina – autore del papello – Provenzano, Brusca, Bagarella e il “postino” del papello Antonino Cinà, sono gli autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia ad un Corpo Politico dello Stato” a cominciare dall'omicidio dell'onorevole Salvo Lima nel marzo del 1992. Mentre “Subranni, Mori, De Donno, Mannino – che verrà processato con il rito abbreviato – e Dell'Utri sono tutti accusati di aver fornito un consapevole contribuito alla realizzazione della minaccia” avendo svolto il ruolo di “consapevoli mediatori” fra i mafiosi e la parte sottoposta a ricatto. Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo don Vito, è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa per aver fatto da tramite fra il padre e Bernardo Provenzano (la cui posizione è stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute). Infine Giovanni Conso e Nicola Mancino, rispettivamente ex ministro della giustizia ed ex ministro dell'interno, sono “colpevoli di una grave e consapevole reticenza”: Mancino è imputato per falsa testimonianza, mentre Conso insieme all’ex Direttore del Dap Adalberto Capriotti e all’onorevole Giuseppe Gargani sono indagati per false dichiarazioni al pm (per loro la legge prevede che l'inchiesta, in questo caso, sia bloccata fino alla definizione in primo grado del processo principale, quello, appunto, sulla trattativa). Ci sono però altre figure, nell'ambito della trattativa, che “contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis”: l'allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi e del vice direttore del Dap Francesco Di Maggio, che hanno agito entrambi in stretta collaborazione con l'ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (tutti e tre deceduti).
Resta sconfortante vedere quanto la politica corrotta, servendosi anche di una certa stampa, abbia cercato di ostacolare gli inquirenti delle indagini. “Molti hanno detto che non capivano i capi d'accusa, che erano delle assurdità. In questa 'battaglia' ci siamo sentiti soli” ha detto il pm Vittorio Teresi commentando il rinvio a giudizio. Meno di un anno fa era scoppiato il caso delle intercettazioni tra Napolitano e Mancino che, sentendo vicino il momento in cui avrebbe dovuto rendere conto delle sue responsabilità in tribunale, cercava appoggio presso il Capo dello Stato e l'ex consigliere Loris D'Ambrosio, deceduto qualche mese fa. Nonostante i dialoghi (definitivamente distrutti lo scorso aprile) fossero stati intercettati nel rispetto della legge, il Quirinale sollevò il conflitto di attribuzione. Gli inquirenti palermitani, abbandonati persino dall'Associazione Nazionale Magistrati, finirono sotto inchiesta per verificare se era stato violato il principio di riservatezza (nonostante il fatto in sé fosse del tutto infondato e altre conversazioni del Capo dello Stato, messe agli atti da procure diverse, non avessero scatenato la stessa reazione). I pm Ingroia e Di Matteo furono bersagliati da attacchi e critiche su più fronti, il primo per aver abbandonato il ruolo di procuratore a Palermo ed essere successivamente sceso in politica, il secondo “reo” di aver violato, in un'intervista a Repubblica, il principio di riservatezza del Capo dello Stato. Pochissime voci, dalla magistratura e dalla politica, si levarono per sostenere quei magistrati che erano appena riusciti ad entrare nella “stanza della verità” definita non molto tempo prima da Antonio Ingroia: “Una stanza buia” dove “ci siamo accorti che qualcuno aveva sbarrato le finestre e che, addirittura, neanche l’illuminazione artificiale funzionava, perché qualcuno aveva fulminato anche le lampadine”. A distanza di quasi un anno dalle dichiarazioni Ingroia viene relegato ad Aosta, mentre su Di Matteo, recentemente destinatario di alcune lettere minatorie contenenti pesantissime minacce di morte, pende un provvedimento disciplinare che lo accusa ingiustamente di aver ammesso l'esistenza delle intercettazioni tra Napolitano e Mancino. E la luce, in quella stanza, continua ad essere precaria. Lo Stato continua a mantenere un ostinato silenzio tanto che, se non fosse stato per le confessioni dei mafiosi o dei figli dei mafiosi come Massimo Ciancimino, quella trattativa non sarebbe mai stata oggetto d'indagine.
Ma oggi, con l'apertura del processo, viene conseguito un risultato storico. E sono tanti coloro che attendono di conoscere finalmente ciò che accadde più di vent'anni fa, e che determinò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. “La parte sana del Paese ci sostiene – diceva Salvatore Borsellino davanti al carcere Pagliarelli in occasione della prima udienza preliminare – E credo che insieme a questi pm coraggiosi riusciremo ad arrivare alla verità”.

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