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mancino-nicola-big0di Nicola Biondo - 26 giugno 2012
Non poteva che andare così. L’inchiesta palermitana sulla trattativa ha scatenato una guerra: all’interno della stessa magistratura, nel mondo politico e in quello giornalistico. Una guerra che ha mostrato una galleria di personaggi spaventosa e ridicola insieme all’interno della quale possiamo isolare perdenti e vincenti.

Tra i perdenti c’è la banda del Quirinale. E non solo perché pescata con le mani nella marmellata, nel tentativo di proteggere Mancino e chissà chi altri dalle indagini della magistratura. Ma perché appaiono dei pessimi conoscitori dei meccanismi giuridici. Per mesi parlano di coordinamento delle indagini di Palermo, Caltanissetta e Firenze come se questo possa fermare le inchieste. O non hanno chiaro cosa significa coordinamento tra le procure oppure dietro quel termine si nasconde qualcos’altro. Coordinamento significa che in caso di inchieste aventi ad oggetto gli stessi fatti uffici giudiziari diversi si scambino informazioni e atti di indagini. E’ avvenuto o no nel caso dell’inchiesta sulla trattativa che vede impegnate le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze?

La risposta è affermativa ed è facilmente dimostrabile per chi conosce le carte delle tre inchieste. Decine di interrogatori, atti di indagine e documenti sono transitati dalle Procure siciliane a quella toscana e viceversa.

Dalle intercettazioni sembra invece che “la banda” voglia uniformare i giudizi dei magistrati sulla trattativa. Come se coordinamento delle indagini significhi imporre ai magistrati un giudizio omogeneo. Chi lo dovrebbe imporre? E su quali basi? Non c’è né una legge né una direttiva del Csm o della direzione nazionale antimafia che prescrive ai magistrati un comune giudizio su un dato fatto o un testimone.

Mancino e D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale, dimostrano la loro “ignoranza” quando parlando di Gaspare Spatuzza, collaboratore di giustizia, si sorprendono del fatto che è attendibile per le indagini di via D’Amelio e non viene creduto dalla Corte d’Appello del processo Dell’Utri. Per loro coordinamento significa questo: rendere omogenee indagini e sentenze. Ecco perché dietro la parola coordinamento si nasconde qualcosa di indicibile, un progetto di riforma della giustizia penale da far impallidire il ventennio berlusconiano. Pensate se a qualcuno venisse in mente di proporre una legge secondo la quale se un testimone, magari un collaboratore di giustizia, non viene ritenuto credibile su un fatto o non si trovano le prove per ciò che dice  tutto quello che ha detto e che magari è stato riscontrato non vale più in tutti i processi e le indagini in cui è stato chiamato.

Tra gli sconfitti seppure con onore ci sono i magistrati palermitani. Massacrati sulla stampa, additati come eversori, incapaci e in malafede. Cosa avrebbero dovuto fare? Non intercettare Mancino?  Tra i commentatori più inviperiti il senatore Macaluso e il giornalista Giuseppe Sottile. Non serve ricordare cosa hanno scritto, basta sapere chi sono. Macaluso è l’uomo che ha festeggiato i 90 anni di Andreotti definendolo padre della Patria, dimenticandosi del suo compagno di partito Pio La Torre ucciso, secondo una sentenza, dai boss che Andreotti ha incontrato più volte in Sicilia. Sottile invece è stato interrogato da Giovanni Falcone che lo indicava come portavoce dei cugini Salvo, gli esattori siciliani longa manus di Cosa nostra nel mondo economico.

Se in questa storia c’è un vincitore è Pietro Grasso, numero uno della Procura nazionale antimafia. A Mancino avrebbe detto che “i magistrati di Palermo danno fastidio” ma poi si sarebbe rifiutato di prestarsi alle manovre del Quirinale e della Cassazione (il procuratore Grasso ha smentito categoricamente di aver detto quelle parole a Nicola Mancino, nota della redazione). Oggi, anche per l’antimafia radicale, è il salvatore delle inchieste sulla trattativa. Se non fosse che già nel 2009 Grasso provò, in nome del coordinamento, a inviare a Caltanissetta il giudice Ilda Boccassini. Una manovra, appoggiata da esponenti di vertice delle istituzioni, che disorientò non poco la Procura che indagava su via D’Amelio. Perché nell’inchiesta che portò al depistaggio sulla strage del 19 luglio la Boccassini partecipò, pur discostandosi in seguito dalle indagini, e quindi era testimone dei fatti e non poteva certo occuparsene di nuovo. Un dettaglio che avrebbe potuto far saltare l’intera inchiesta chiusa pochi mesi fa. Grasso è poi quello che nel maggio scorso propose un premio al governo Berlusconi per la lotta antimafia, quello che accusa Ingroia di fare politica ( come se lui invece non andasse alle feste di partito), che ha vinto il concorso per la Procura nazionale dopo che una legge votata dal PDL ha escluso il suo diretto concorrente, Giancarlo Caselli.

Ma una parte della storia della trattativa è ancora da scrivere. Chissà cosa succederà se dalle indagini qualche altro nome legato al partito democratico venisse fuori. Come quello di Luciano Violante o del vicepresidente dell’Antimafia Luigi De Sena. Entrambi sono finiti nell’inchiesta nissena e non certo come eroi antimafia. A Violante, come a Mancino che però è indagato, i magistrati contestano il silenzio durato 17 anni sui contatti dello Stato con Vito Ciancimino. Violante poi nel 1995 si era speso a favore della dissociazione per i mafiosi, uno dei punti cardine del Papello. Il contributo di De Sena è apparso opaco ai magistrati che indagano sulla morte di Borsellino. Il vicepresidente è stato infatti colui che fece entrare Arnaldo La Barbera, l’inventore della pista Scarantino, nei servizi segreti, proteggendone la lunga carriera. Sapeva nulla delle indagini depistate su via D’Amelio, sulle veline dei servizi che anticipavano Scarantino, delle missioni sotto copertura di 007 in Sicilia?

Alla fine, tra vincitori e vinti, se c’è un filo comune in queste inchieste è la frantumazione degli schieramenti: da destra a sinistra si allungano i segreti della trattativa.  

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