Le dichiarazioni spontanee del boss prima delle arringhe dei suoi difensori: “Non distruggete i dischetti con le intercettazioni”
Marcello Dell'Utri? “Non lo conosco. Se lo avessi conosciuto ce lo prendevo io a D'Agostino il provino per il Milan”. Giuseppe Piromalli? “Non lo conosco. Non sono mai stato in Calabria”. Il Paese nelle mani? “Con Adinolfi scherzavo. Parlavamo della Bolivia”.
Ecco l'autodifesa del boss stragista Giuseppe Graviano, intervenuto ieri in videocollegamento dal carcere di Terni, non per rispondere all'esame da parte del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo (come avvenuto in primo grado, ndr), ma con semplici dichiarazioni spontanee.
Il boss di Brancaccio, in questo processo, è accusato assieme a Rocco Santo Filippone, di essere stato mandante degli agguati ai carabinieri avvenuti nel reggino tra la fine del 1993 ed il 1994. Attentati culminati con il il duplice omicidio dei sott'ufficiali Antonino Fava e Vincenzo Garofalo il 18 gennaio del 1994.
Un intervento specifico, il suo, in particolare per attaccare i collaboratori di giustizia (in particolare Gaspare Spatuzza, ndr) che lo hanno accusato (“Hanno raccontato fatti per sentito dire”), sconfessando ogni tipo di coinvolgimento alla strategia stragista e negando in maniera netta l'esistenza della 'doppia affiliazione' alla Ndrangheta e a Cosa nostra.
Reggio Calabria, 28 febbraio 2023. Il procuratore aggiunto, Giuseppe Lombardo, durante la requisitoria © ACFB
A colpire, ovviamente, è la totale assenza a qualsiasi riferimento che riguardi i rapporti di natura economica che la sua famiglia avrebbe avuto con l'allora imprenditore Silvio Berlusconi.
Nel processo di primo grado aveva asserito di aver incontrato l'ex Premier, da latitante, "almeno per tre volte" e che l’ultima sarebbe avvenuta nel dicembre del 1993, ovvero poche settimane prima del suo arresto (avvenuto il 27 gennaio 1994), in un appartamento a Milano 3.
Un argomento che è stato ricordato anche in sede d'appello, ma sul punto il capomafia, ha preferito non tornare.
Diversamente ha negato ogni tipo di conoscenza con Marcello Dell'Utri (già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) mentre in primo grado aveva comunque fatto accenno all'ex senatore indicandolo come un soggetto "tradito" e "danneggiato" proprio dall'ex Premier (“Ha fatto leggi che hanno danneggiato anche lui e tutti i detenuti al 41 bis. Per non fare uscire noi dal carcere, ha iniziato a fare leggi. Dell’Utri è stato condannato”).
Il Paese nelle mani
Graviano ha contestato le accuse mosse dalla Dda di Reggio Calabria e ha parlato delle sue intercettazioni con il camorrista Umberto Adinolfi con lui detenuto nel 2016 nel penitenziario di Ascoli Piceno. "Dicono che io ho detto 'Abbiamo il Paese nelle mani, l'Italia'. - ha affermato Graviano - No, si stava scherzando. Si sente la parola Bolivia perché nei primi anni '80 il signor Adinolfi viveva in Bolivia, in Perù, in questi posti. Non si parlava di cose illecite ma visti i rapporti che lui aveva con il governo di quel Paese, io scherzosamente gli ho detto: 'Avessimo la Bolivia in mano, io facevo il presidente e tu il ministro della Cultura essendo una persona acculturata'".
Sul punto i giudici di primo grado erano stati abbastanza netti, smentendo il boss palermitano.
La Corte, infatti, aveva scritto nelle motivazioni della sentenza di aver ascoltato in camera di consiglio la conversazione e di non aver colto alcun riferimento alla Bolivia. “Peraltro - aggiungevano i giudici - appare significativo il fatto che il Graviano nel corso dell’incontro avuto presso il bar Doney con lo Spatuzza avesse riferito a quest’ultimo di avere 'Il paese nelle mani', facendo riferimento a Berlusconi e Dell’Utri e ciò induce a ritenere che anche nella suddetta conversazione egli non intendesse certamente alludere alla Bolivia, non essendo agevole comprendere il motivo per il quale l’imputato nel suddetto colloquio avrebbe dovuto menzionare proprio il paese sudamericano”.
L'ex senatore Marcello Dell'Utri
Ma Graviano, nel suo parlare, ha contestato nuovamente le dichiarazioni di Spatuzza. “Lui - ha detto ieri in aula - dice che al bar Doney ho riferito che avevo parlato con il signor Dell'Utri che non conosco. Se io avessi conosciuto il signor Dell'Utri, lo prendevo io l'appuntamento per fare al signor D'Agostino il provino nel Milan. E invece D'Agostino è andato da un certo Barone".
Il riferimento è alla vicenda del provino al Milan che, stando alle indagini, il figlio di Giuseppe D'Agostino avrebbe dovuto fare per il tramite di Marcello Dell'Utri.
Non distruggete i dischetti
Ascoltando l'intervento di Graviano, durato circa un'ora e venti prima di lasciare la parola ai propri difensori, colpiscono alcuni riferimenti.
In primis l'invito a “non far distruggere i dischetti”, quelli inerenti alle intercettazioni in carcere con Adinolfi acquisiti tanto a Reggio Calabria quanto a Palermo, nell'ambito del processo “Trattativa Stato-mafia”, in quanto “potrebbero servire in qualche prossimo grado”.
Altro dato interessante, così come aveva fatto anche in primo grado, l'indicazione che “persone siciliane” hanno impedito che il terrorismo islamico potesse proliferare in Italia.
“Con Adinolfi si parla che nel 1991 i terroristi islamici avevano iniziato ad attaccare in Europa - ha spiegato Graviano alla Corte - Tramite Vincenzo Sinacori avevano cercato un aggancio per iniziare dall’Italia. Ci sono state persone siciliane che hanno detto: 'non vi permettete a fare un graffio a un italiano perché ve la faremo pagare'. Questo l'ho ascoltato a Pianosa e Novara”.
Se da una parte Graviano continua a professarsi innocente per le stragi, in particolare quella di Borsellino (“sono stato condannato nel Borsellino-bis, dove c'è stato il depistaggio... perché La Barbera Arnaldo e altri poliziotti dicevano i nomi a Scarantino”) non si nasconde dietro ad un dito quando c'è da parlare dei luoghi in cui si era dato alla macchia. “Era ad Omegna che facevo la latitanza e nel bene o nel male adesso lo sanno tutti” ha detto Graviano. Un riferimento al “gelataio” di Omegna Salvatore Baiardo, la cui figura è apparsa più volte in televisione negli ultimi mesi? Chissà.
Salvatore Baiardo
Le parole degli avvocati
Successivamente la parola è passata ai legali per la discussione. Primo a parlare è stato Federico Vianelli secondo cui il “procedimento è viziato”. Nel chiedere al collegio la “piena assoluzione” per il proprio assistito, l'avvocato Vianelli ha ribadito, tra i motivi a sostegno della sua richiesta, il mancato recapito a Giuseppe Graviano e ai suoi difensori di alcuni file audio contenenti intercettazioni. “Non si tratta di formalismi - ha sottolineato il penalista - ma di impossibilità di esaminare la mole di materiale prodotta nel rispetto delle regole”. Vianelli, inoltre, ha mosso critiche all'impostazione dell'accusa: “Qui non vi sono elementi seri di prova ma una cortina fumogena, affascinante se uno è appassionato di storia, ma non per questo, per confermare un teorema, a tutti i costi dobbiamo arrivare a un giudizio di responsabilità, a una condanna in capo a Graviano”. Quindi ha aggiunto: “Se c'è questa passione investigativa venga soddisfatta, altrimenti vengano investigate altre situazioni, vengano portati a giudizio altre persone. Qui vedo soltanto Graviano e Filippone. Chi altri vedo? È vero che sono invisibili, ma sono usciti i nomi, i cognomi. Dobbiamo discutere e continuare a portare avanti un processo viziato? Lo è all'origine perché sconta un vizio di fondo, una spasmodica ricerca di un qualcosa che non c'è per arrivare a tutti i costi a una condanna altrimenti evitabile”.
Sul punto, si potrebbe dire, che sarà il tempo a dire ciò che avverrà nei prossimi anni. Perché gli spunti investigativi non mancano, tanto che in primo grado la stessa Corte d'Assise aveva offerto delle indicazioni trasmettendo alla Procura alcuni atti del processo.
Successivamente si è svolta l'arringa di Giuseppe Aloisio, avvocato del foro di Reggio Calabria. Questi ha posto all'attenzione dei giudici d'appello il dilemma se “i collaboratori di Giustizia Consolato Villani e Antonino Lo Giudice possano essere considerati credibili o meno”. Aloisio, concludendo, ha evidenziato all'attenzione della Corte d'Assise d'Appello le dichiarazioni dei pentiti siciliani. “Ma è mai possibile che altri pentiti siciliani come Brusca non hanno mai parlato di una collaborazione dei calabresi nella strategia stragista? La cosa strana è che i collaboratori calabresi dicono alla Procura che l’ambasciatore di Riina rispetto a questa ipotesi stragista in Calabria era Brusca Giovanni”.
Il presidente della Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria, Bruno Muscolo, e latere, Giuliana Campagna © ACFB
Eppure, come ha ricordato il Pg Lombardo, vi sono stati anche collaboratori, come D'Urzo, che hanno indicato in Giuseppe Graviano come l'uomo di riferimento per questi contatti.
Aloisio ha anche contestato i riferimenti al “delitto politico” fatti durante la requisitoria del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. “Prima di parlare di delitto politico – ha detto il legale – bisognerebbe fare un passo indietro ed accertare se i reati contestati agli odierni imputati sono stati da loro commessi e, quindi, verificare se sono loro i mandanti”.
Il processo è stato rinviato al 10 marzo prossimo dove sono attese le eventuali repliche “i cui tempi - ha già detto il Presidente Muscolo – non potranno essere superiori ai venti minuti ciascuno”.
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