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Conclusa la requisitoria nel processo d'Appello

Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone sono colpevoli di tutti i reati a loro ascritti e la sentenza di ergastolo a loro va confermata in maniera integrale”. Come previsto è questa la richiesta formalizzata dal Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, al termine della requisitoria del processo d'appello 'Ndrangheta stragista.
Il boss di Brancaccio ed il mammasantissima di Melicucco, esponente di rilievo della famiglia Piromalli, sono accusati di essere i mandanti degli attentati ai carabinieri che hanno portato alla morte anche i due militari Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi il 18 gennaio 1994. Agguati che, secondo l'accusa, rientrano a pieno titolo nella campagna stragista che si è protratta nei primi anni Novanta.
Una stagione che, ha spiegato Lombardo alla Corte d'Assise d'Appello (presidente Bruno Muscolo, a latere Giuliana Campagna), non può essere decontestualizzata da una serie di accadimenti storici e politici sul piano nazionale e internazionale.
Sul punto il processo ha avuto delle testimonianze importanti come quella dell'ex Gran Maestro del Goi, Giuliano Di Bernardo il quale non solo ha parlato della compenetrazione tra le mafie e la massoneria, ma ha anche offerto una chiave di lettura politica tanto puntuale quanto inquietante quando ha parlato di Licio Gelli, indicandolo come “un'invenzione della Cia e degli americani, perché il governo americano aveva perso fiducia in Moro e Andreotti e iniziava a temere che in Italia ci potesse essere il sorpasso comunista”.
“Si tratta di un richiamo importante - ha detto in aula Lombardo - Perché è impossibile decontestualizzare le azioni stragiste di quel periodo rispetto alle grandi modifiche che si portavano avanti a livello politico nazionale e internazionale in cui, come substrato, si inserisce la stagione delle stragi con obiettivi anche di natura politica”.
E i fatti avvenuti nel corso della storia permettono di ottenere una chiave di lettura precisa.


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La Corte d'Appello, presieduta da Bruno Muscolo, e come giudice a latere Giuliana Campagna © Emanuele Di Stefano


“Nel 1981 - ha ricordato il Pg - viene controllata a Fiumicino una valigia di Maria Grazia Gelli, dentro cui si trovava un documento sottoposto a segretezza Nato, in cui si descrivono le dinamiche volute dagli americani per contenere l’espandersi dei movimenti comunisti in Italia e in Europa, da contenere. E, a seconda della circostanza, usare azioni violente o non violente. Ne parla anche Saverio Morabito, di Platì, collaboratore di giustizia ed ex killer dei Papalia”.
“In quel documento - ha proseguito il magistrato - gli americani raccomandano di utilizzare contro l’insorgenza comunista anche il terrorismo di sinistra. Un segnale di aperto dissenso contro le politiche volute da Aldo Moro, prima, dinamiche subite anche da Craxi negli anni ’80, quando comincia a mettere limiti all’azione degli Usa in Italia”.

Le manovre di Gelli
Parlare del Venerabile della P2 non è certamente improprio se si considera che lo stesso, assieme all'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, era stato coinvolto nel progetto delle Leghe Meridionali. Un progetto separatista, di cui ha parlato anche Antonio D'Andrea che fu in qualche maniera “sposato” dalla stessa mafia, alla ricerca di nuovi interlocutori politici, ritenuti ancor più inaffidabili dopo le condanne definitive del maxi processo.
In questo senso assumono un certo rilievo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Girolamo Bruzzese il quale ha affermato che Riina e Provenzano “non accettavano più la politica di Craxi ed Andreotti di contrapposizione agli Stati Uniti; questa politica era avversata anche dagli americani, ma soprattutto non andava bene a Licio Gelli, molto amico di Peppe Piromalli”.


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Licio Gelli, Maestro venerabile della Loggia P2 © Imagoeconomica



Della massoneria, dell'esistenza delle logge coperte, delle relazioni con le 'ndrine, del ruolo politico hanno parlato anche collaboratori di giustizia come Cosimo Virgiglio e di recente anche Marcello Fondacaro. Entrambi hanno parlato di logge che facevano riferimento alla P2 anche dopo lo scioglimento di quest'ultima con l'istituzione della legge Anselmi.
Ma Fondacaro aveva parlato anche di molto altro, come i rapporti e gli interessi tra le famiglie siciliane (in particolare quelle dell'area trapanese) e quelle calabresi, riferendo anche dei rapporti che c'erano tra i cosiddetti “corleonesi” ed i Piromalli. Argomenti che ripropongono il tema della “doppia affiliazione” di cui si è approfondito nella scorsa udienza.

La 'Ndrangheta e la destra
Nel corso della requisitoria Lombardo ha anche riferito delle dichiarazioni di Bruzzese su un altro incontro di peso: quello che sarebbe avvenuto nel laboratorio di piante ornamentali del marchese Fefé Zerbi. In quella riunione avrebbero partecipato, a detta del pentito, soggetti come Franco Freda, Paolo Romeo, Giorgio De Stefano e Stefano Delle Chiaie.
Certo è che dei rapporti tra la 'Ndrangheta e gli uomini dell'eversione nera hanno parlato anche altri pentiti come Carmelo Stefano Serpa, benzinaio di Filippo Barreca e uomo della cosca De Stefano fino agli anni '90.


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L'estrema di destra neofascista, Stefano Delle Chiaie


Proprio lui, in Calabria, ha gestito la latitanza dell’ex terrorista, appartenente all'area del neofascismo ed esponente del Movimento Politico Ordine Nuovo, Franco Freda.
E proprio Serpa ha raccontato di essere a conoscenza di “diverse riunioni fra Freda e persone che andavano a trovare specificamente lui. Tra questi c’erano l’avvocato Giorgio De Stefano, il politico Paolo Romeo, Stefano Delle Chiaie e Luigi Concutelli. - ha proseguito - Non solo li ho visti, ma li ho accompagnati a casa di Barreca ed ero responsabile della loro sicurezza quando erano lì”. E poi ancora ha anche raccontato di aver visto un altro ex terrorista nero in contatto con la cosca dei fratelli De Stefano, e cioè Luigi Concutelli. “L’ho visto al summit di Montalto nel ’69. Io ero lì come picciotto di giornata - aveva spiegato quando è stato sentito in primo grado - uno dei guardiani portati da Saraceno”. Inoltre, il teste aveva ricordato che a quell’incontro erano presenti personaggi del calibro dei De Stefano, i Molè, Zappia, Domenico e Pasquale Tegano, Vincenzo Saraceno, Giuseppe Zappia, Vincenzo Macrì, Giovanni De Stefano e Caponera e che all'interno del summit ci fu un altro incontro “appartato” a cui presero parte quattro o cinque persone assieme a Paolo De Stefano.
Pezzi di storia che dimostrano come, per le decisioni più importanti, la 'Ndrangheta ha sempre avuto relazioni con altri sistemi di potere e che certe decisioni non si prendevano in maniera collegiale, ma con la partecipazione di poche famiglie di vertice che fanno parte di quello che Lombardo chiama “Sistema criminale” che ha permesso alla 'Ndrangheta di trasformarsi e diventare ciò che è poi stata negli anni a venire.
“E' la fotografia di una clessidra dove tra il sovramondo e il sottomondo c'è un collo di bottiglia dove si trovano i Piromalli, i Papalia, i De Stefano e pochi altri - ha proseguito il magistrato - Quanto conta? Molto. Perché collega il vertice del sottomondo con il sovramondo. E' la cosiddetta Terra di Mezzo”.


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Silvio Berlusconi, ex Premier © Imagoeconomica


L'incontro dell'agrumeto
Su Bruzzese e l'incontro che vi sarebbe stato tra i capi della 'Ndrangheta, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, Lombardo ha più volte ribadito che non vi sono riscontri diretti con la fotografia del summit, ma restano verificati alcuni dati. “Noi possiamo dire che nel 1978 la rilevanza mediatica nazionale di Berlusconi accresce. Nasce la Fininvest e si passa dagli investimenti immobiliari al settore televisivo. Il '78-'79 è il periodo in cui spinge su quella che sarà poi una parte importante della sua holding imprenditoriale. E già nel 1977 aveva iniziato a corteggiare Mike Bongiorno, uno dei volti pubblici dell'epoca, affinché diventasse il volto principale della sua galassia televisiva”.
Quindi sono state ricordate le dichiarazioni sui contrasti tra Bontade e Piromalli e poi ancora la figura dell'imprenditore Angelo Sorrenti (gestore di ripetitori tv per conto di Mediaset, all'epoca Fininvest).
E poi ancora il ruolo di Rocco Santo Filippone che, ha detto Lombardo, “non è uno sconosciuto alle attività investigative e non è un'invisibile. Nel capo di imputazione si sostiene che prende ordini da un livello superiore e non che fa parte di un livello superiore. Lui diventa capo mandamento tirrenico, quale prestanome dei Piromalli ed è in relazione con soggetti di rilievo oltre i Piromalli e anche con altri componenti dell'ala stragista”.


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Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo © Deb Photo


Le conclusioni del Pg
In conclusione Lombardo, così come aveva anticipato sin dall'inizio della propria requisitoria, ha chiesto la condanna all'ergastolo per i due imputati e, rivolgendosi alla Corte, ha aggiunto: “Oggi sono straordinariamente contento e convinto di aver fatto tutto quello che era possibile fare fino ad oggi per poter ricostruire una vicenda complessa. Perché non potevate scrivere in un foglio bianco, ma questo era stato sporcato da una serie di iniziative riferibili all'alta mafia, nell'accezione che ho rassegnato in queste udienze. Un noto fisico e pensatore tedesco, Albert Einstein, diceva, parlando del Mondo, ovviamente con gli occhi che probabilmente solo lui poteva avere per realizzato: “Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l'inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare”. Noi ce ne siamo accorti e non ce ne staremo qui a guardare. E io credo che voi non starete a guardare”.

L'arringa di Antonio Ingroia
Successivamente è stata la volta delle parti civili. Tra questi vi era anche l'ex pm Antonio Ingroia, oggi avvocato, in rappresentanza dei familiari dei due carabinieri Fava e Garofalo.
“Questo è un processo storico perché ha messo a punto una narrazione giudiziaria, fondata su granitici elementi, che va avanti da 20 anni circa - ha ricordato l'ex magistrato sostenendo le conclusioni dell'accusa - È emerso un quadro che ha tutti i tasselli a loro posto. Tasselli di un mosaico indiziario che ci dice che l’omicidio dei carabinieri entrava a pieno in quella strategia che mirava a minare la stabilità del paese. Andava azzerato tutto. Un processo di ristrutturazione come detto da Riina 'dobbiamo fare la guerra per poi fare la pace'. Bisognava creare quel clima di terrore”.


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Antonio Ingroia, avvocato © Emanuele Di Stefano


Secondo Ingroia “siamo in una fase in cui il Paese, i cittadini hanno bisogno di sapere la verità piena e completa su quella stagione. Questa corte è all'altezza di pronunciare sentenze difficili, dure e che mettano il Paese davanti alle verità anche più indicibili”.

L'attentato a Costanzo, “messaggio a Berlusconi”
Nel suo intervento, Ingroia ha fatto anche un passaggio sulla bomba di via Fauro con la quale Cosa nostra ha attentato alla vita di Maurizio Costanzo, il conduttore televisivo recentemente scomparso. “Io sono sempre stato convinto - ha affermato Ingroia - che erano tre gli obiettivi di quell'attentato. Il primo era l'eliminazione di un giornalista popolare che per primo aveva introdotto nelle sue trasmissioni delle prese di posizione antimafia. Il secondo era un obiettivo eversivo-destabilizzante perché si tratta di una figura popolarissima e agli occhi del grande pubblico la mafia avrebbe dimostrato un atto di grande potenza. C'è poi la bomba del dialogo: io sono convinto che l'attentato a Maurizio Costanzo sia stato un messaggio a Silvio Berlusconi. Nel dibattito in corso per la costruzione di Forza Italia, come è emerso anche nel processo Dell'Utri, Maurizio Costanzo era uno dei tanti che era contrario che Silvio Berlusconi scendesse in campo. Questo è emerso già da altri processi. Maurizio Costanzo era contrario che Berlusconi scendesse in campo mentre erano favorevoli Dell'Utri e Previti”.
Infine, rivolgendosi alla Corte, ha detto: “Potete rendere giustizia ai due servitori dello Stato. Giustizia a loro e alle loro famiglie anche se tardivamente. La giustizia arriva tardi ma è importante anche a livello simbolico per dare forza ai servitori giusti dello Stato. E che sia stigmatizzata, invece, quella parte dello Stato deviato. La sentenza di primo grado è stata ineccepibile. Se non ci fosse uno stato corrotto e infedele le mafie non esisterebbero più. Ci sono solo due medicine per uscire da questa situazione di condizionamento e sono verità e giustizia. Ecco perché questo processo è cruciale perché ci fornirà le prime dosi di queste medicine. Quindi chiedo la conferma della sentenza di primo grado”.


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Il conduttore televisivo, Maurizio Costanzo, e l'ex presidente del consiglio, Silvio Berlusconi © Imagoeconomica


Oggi c'è stata la prima giornata dedicata alle arringhe delle difese. I primi ad intervenire sono stati gli avvocati Guido Contestabile e Salvatore Staiano, difensori di Rocco Santo Filippone i quali hanno professato l'innocenza del proprio cliente, parlando di “inutile sacrificio”: “Gli innocenti non possono pagare colpe che non hanno. Non è con il loro inutile sacrificio che si rende onore alle vittime di un'azione vile e scellerata tanto quelli morti innocenti, quanto Rocco Filippone che a 83 anni e in gravi condizioni di salute, non può morire in carcere con lo stigma dello stragista. Perché non lo è mai stato. Non ha mai preso parte, né ha avallato accordi con Cosa nostra per adeguare la strategia stragista in Calabria". Secondo i difensori di Filippone, “il processo si sorregge su tre fonti": il collaboratore di giustizia Consolato Villani "che dice di non sapere chi ha armato la sua mano”; il pentito Antonino Logiudice “che dice di avere certezze sul mandato di Rocco Filippone proprio per averle apprese da quell'incerto Villani e da Giuseppe Calabrò che smentisce un coinvolgimento dello zio nei tragici fatti che lo hanno visto protagonista”. Argomenti già smontati in primo grado dallo stesso pm quando ha ripercorso le dichiarazioni e le ritrattazioni di Giuseppe Calabrò. Una "collaborazione pilotata" nel momento in cui "fa di tutto per proteggere lo zio, Rocco Santo Filippone. E cerca di proteggere lo zio perché era soltanto grazie a lui che la sua famiglia poteva operare nel territorio di Reggio Calabria".
Come dimenticare, del resto, l'esistenza di quel dialogo tra il collaboratore di giustizia e Filippone Maria Concetta, madre di Calabrò e sorella di Filippone Rocco Santo, che in un colloquio in carcere faceva dei continui rimandi alla famiglia, intesa come famiglia di ‘Ndrangheta ("fede... fedeltà... fedeltà. Bocca chiusa... e non sbagli mai")?
Nonostante ciò per i legali la prova contro Filippone sarebbe “malformata, gracile, imperfetta e discordante che solo con un audace sforzo di fantasia creativa è stata ritenuta unitaria dalla sentenza di primo grado. Io mi rendo perfettamente conto che è facile stare dalla parte della Procura: un procuratore attento e capace, di grande comunicazione, che tutela le vittime di un agguato. Vittime che non sono vittime qualsiasi, ma sono carabinieri morti o feriti nell'adempimento del dovere. Ma la verità non ha simpatie o antipatie. Non corre dietro l'opinione pubblica o i media. Non deve essere compiaciuta o blandita”. Domattina (oggi per chi legge) il processo riprenderà con l'intervento dell'avvocato Giuseppe Aloisio, difensore di Giuseppe Graviano.

Foto di copertina © Emanuele Di Stefano

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