“Graviano dica chi ha chiesto di proseguire con gli attentati”
Porre la 'Ndrangheta al di fuori di determinate logiche criminali definendola come un crimine organizzato di livello inferiore rispetto ad altri sistemi, è un grave errore, considerato che “si è resa partecipe di quella che è forse la pagina più buia che questo Stato ha vissuto dal dopoguerra”.
E' con questa considerazione che è iniziata ieri, davanti alla Corte d'Assise d'appello di Reggio Calabria (presidente Bruno Muscolo, a latere Giuliana Campagna) la requisitoria del Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, rappresentando la Procura generale nel processo 'Ndrangheta Stragista.
Prima di passare la parola al sostituto della Dda, Walter Ignazitto, che ha passato in rassegna i motivi d'appello delle difese, Lombardo, citando Franz Kafka, ha parlato dell'importante ruolo che questo processo può avere andando oltre al semplice “svolgimento del giudizio”, ma guardando all'avanzamento, al progresso e all'avanzamento “verso una verità processuale di cui nessuno di noi può fare a meno. Una verità processuale che possa restituire a questa nazione il tempo perduto, tra meandri di menzogne, depistaggi e cortine fumogene”. “Per arrivare dove siamo arrivati oggi non abbiamo avuto la possibilità di scrivere su una pagina bianca – ha detto Lombardo - ma siamo stati costretti a ripulire il foglio perché su un foglio sporco la verità non si poteva scrivere”.
Il punto di partenza
Punto di partenza è ovviamente il giudizio di primo grado dove le responsabilità degli imputati (il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, e il capo bastone di Melicucco, Rocco Santo Filippone, entrambi condannati all'ergastolo) sono state ritenute accertate. Entrambi sono accusati di essere i mandanti degli attentati ai carabinieri avvenuti tra il '93 e '94 in cui morirono gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.
“Gli episodi delittuosi oggetto di questo processo, unitamente a tutte le condotte oggetto di contestazione, non sono reati comuni - ha proseguito Lombardo facendo riferimento al terzo comma dell'art.8 del codice penale - sono delitti politici. Noi abbiamo prova, in questo processo, che chi ha agito i fini politici li perseguiva. E non abbiamo prova di tale inquadramento solo sulla ricostruzione che si fa in primo grado e nel corso della istruttoria in appello, ma anche dalle decine di sentenze che hanno ricostruito gli anni drammatici della stagione stragista”.
Lombardo ha ribadito che Cosa nostra e 'Ndrangheta hanno “agito in maniera unitaria” all'interno di un contesto che era ancora più ampio.
Del resto anche nel corso del dibattimento non sono mancati riferimenti a “soggetti e vicende politiche, a presunti incontri, a scenari internazionali, ad interessi trasversali e ad accadimenti apparentemente lontani nel tempo dalla stagione stragista, come si è più volte detto del sequestro e dell'omicidio Moro; ad ibride figure che hanno saputo sfruttare le capacità operative di 'Ndrangheta e Cosa nostra a fini destabilizzanti ed eversivi. Se quello che ho appena detto è vero la storia delle stragi inizia in realtà molti anni prima e le tante coincidenze, sono diventate prove. Non siamo attrezzati per fare miracoli, ma possiamo fornire una chiave di lettura che in appello si deve confrontare con le ricostruzioni già effettuate e che riteniamo di avere integrato ricostruzioni già esistenti per dimostrare che certe figure politiche non nascono dal nulla; che determinate interlocuzioni non sono casuali; che la ricorrenza di determinati riferimenti soggettivi diventa uno straordinario riscontro al dichiarato di plurime fonti assolutamente indipendenti”.
La struttura di comando della 'Ndrangheta
Primo punto che deve essere chiaro è che nella 'Ndrangheta l'esistenza di una “struttura di comando” c'è sempre stata. Nello specifico, in questi anni di inchieste e processi sono state individuate “alcune 'famiglie' apicali, come i Piromalli e i De Stefano”. Proprio quelle famiglie che, secondo l'impianto accusatorio, avrebbero portato la 'Ndrangheta ad aderire alla strategia stragista.
Il motivo? Perché da anni, proprio quelle famiglie erano parte di Cosa nostra. Secondo il Pg, “i Piromalli e i De Stefano, furono tra i primi in Calabria, come si evince dalle testimonianze di Buscetta, Vitale e Pennino, riprese in alcune sentenze, a ricevere la doppia affiliazione nella 'Ndrangheta e in Cosa nostra. Peraltro - ha detto ancora Lombardo - Tommaso Buscetta, per un periodo, fu 'ambasciatore' presso i Piromalli per conto di cosa nostra. Era stato inviato in Calabria per far attecchire la dottrina mafiosa”.
Filippone anello di congiunzione
Del resto, proprio “la forza dei Piromalli e dei De Stefano scaturisce dalla vittoria della prima guerra di 'Ndrangheta, del 1974, a Reggio Calabria, contro il boss Mico Tripodo, e trasformano la 'Ndrangheta in quel mostro criminale che è oggi. In tal senso esistono riscontri non solo fattuali, ma storici e logici”. Giuseppe Lombardo, inoltre, ha delineato i motivi secondo cui la 'Ndrangheta reggina ha deciso alla fine degli anni '60 di modificare la linea organizzativa di rappresentanza, “a seguito del summit di Montalto, in Aspromonte, dell'autunno del 1969, e successivamente alle sentenze del Tribunale di Locri, nominando persone di strettissima fiducia al posto loro, come Rocco Santo Filippone, già menzionato dal pentito Pino Scriva negli anni '70 come rappresentante dei Piromalli, secondo il quale sarebbe stato poco attenzionato nonostante le sue dichiarazioni”. E proprio Rocco Santo Filippone è lo zio acquisito di Giuseppe Calabrò. Quest'ultimo, assieme a Consolato Villani - ha sottolineato il rappresentante dell'accusa – "agì nell'esecuzione degli attentati, su richiesta di Filippone, con l'obiettivo di seminare il terrore in Calabria, in maniera indistinta e feroce, contro i carabinieri, una decisione che poteva essere presa solo dai vertici della 'Ndrangheta”.
Sul punto, nel processo d'appello, hanno fatto ingresso le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gerardo D'Urzo, oggi deceduto. In un verbale datato 19 dicembre 2009 addirittura indica proprio nei fratelli Graviano come quei soggetti che furono incaricati di mettersi in contatto con la compagine calabrese per chiedere l'adesione alla strategia stragista trasformando la guerra, che fino a quel momento era ancora “territoriale” in una guerra “totale”.
La Cosa unica e la doppia affiliazione
"'Ndrangheta e Cosa nostra vollero inviare un granitico messaggio per sottolineare l'unitarietà della decisione che sfociò negli attentati di Roma, Firenze e Milano, e negli attacchi agli uomini dell'Arma. D'altronde - ha spiegato - perché Totò Riina scelse come compare d'anello il defunto boss Mico Tripodo, se non per sottolineare che erano una cosa sola?”.
Per quanto riguarda i rapporti sull'asse Sicilia-Calabria, ha ricordato Lombardo, è comprovato che questi si erano sviluppati da tempo. Collaboratori di giustizia hanno raccontato dei rapporti delle famiglie di Palermo e addirittura il pentito Girolamo Bruzzese ha riferito di una riunione in cui la 'Ndrangheta decise di appoggiare l'ascesa dei corleonesi in qualche maniera “abbandonando” i rapporti con le storiche famiglie di Palermo di Bontade e Badalamenti.
E proprio Bruzzese ha riferito in aula quali fossero le famiglie con la “doppia affiliazione” indicando anche i nomi di "Paolo De Stefano, Peppe e Mommo Piromalli, Nino Pesce, Pino Mammoliti, Luigi Mancuso, Pino Piromalli, Nino Molè, Nino Gangemi, qualcuno degli Alvaro”.
Un concetto, quello della “Cosa unica”, che venne rivelato dal pentito Leonardo Messina sin dal lontano dicembre 1992, che trova una sua conferma anche nelle dichiarazioni di quei collaboratori di giustizia che hanno rappresentato l'esistenza del Consorzio in Lombardia. Un contenitore che, per dirlo con le parole di Nino Fiume, era “il potere assoluto che dominava su tutti, perché all’interno c’era ‘Ndrangheta, Cosa nostra, Camorra, Sacra Corona Unita”. Un Consorzio che vedeva in Mico Papalia la sua figura di riferimento a livello nazionale. Non a caso, secondo Lombardo, proprio Papalia ha scritto una lettera alla Corte d'assise d'appello quando sono stati depositati al processo i verbali dei collaboratori che lo chiamavano in causa.
Il ruolo di Graviano
Lombardo, inoltre, ha indicato Giuseppe Graviano come “coordinatore delle stragi”, ricordando l'incontro tra il boss di Brancaccio a Roma con Spatuzza e la famosa frase pronunciata da Graviano “abbiamo il Paese nelle mani”. E' un quell'occasione che venne dato l'ok all'attentato all'Olimpico da compiere comunque perché c'era un “altro colpetto da dare” anche perché “i calabresi si erano mossi”.
E' noto che la strage dell'Olimpico, anche nota come strage di via dei Gladiatori, fallì per una coincidenza. “Solo il malfunzionamento di un telecomando non ha fatto una strage di decine di carabinieri che facevano servizio allo stadio in quella giornata” ha ricordato Lombardo. Tanto quell'azione quanto gli attentati in Calabria contro i carabinieri, ha spiegato il Pg alla Corte, “non erano azioni mirate a colpire specifiche persone appartenenti alle forze dell’ordine o che avevano dato fastidio alla criminalità organizzata. Qui l’azione criminale è del tutto diversa. Un attacco all’istituzione in quanto tale. Con un messaggio che può essere capito fino in fondo solo da pochissimi soggetti. Tanto l’opinione pubblica che le istituzioni dovevano intendere che il solo fatto di indossare la divisa trasformava ogni militare in un possibile bersaglio. Questa è la strategia del terrore. Si passa dalla logica criminale tipica a quella con connotazione terroristica eversiva”. Quel gesto “doveva dare un senso di inarrestabilità al fine di accrescere nel paese la paura determinata dal fatto che anche chi doveva avere il compito di difendere gli altri non riusciva a difendere se stesso. È la stagione ideale per recuperare la centralità che per una serie di vicende è stata persa. Esiste un tessuto fragile in Italia che deve essere recuperato attraverso l’individuazione di nuovi interlocutori”.
L'attentato all'Olimpico non troverà più una futura esecuzione ed il perché con quell'atto, di fatto, si pose fine alla stagione delle stragi resta uno dei misteri che le Procure stanno cercando di chiarire. E' noto che pochi giorni dopo il 23 gennaio 1993 i fratelli Graviano saranno arrestati e al contempo farà ingresso sullo scenario politico italiano Silvio Berlusconi con il suo celebre discorso a reti Mediaset unificate.
Nel corso della requisitoria Lombardo si è persino rivolto al capomafia di Brancaccio: “Nelle intercettazioni in carcere con un altro detenuto, Umberto Adinolfi, e rispondendo alle domande del pubblico ministero di primo grado, Graviano dice che una determinata stagione stragista non si doveva fermare perché così gli era stato chiesto. Quando troverà la forza di dirci chi gli ha chiesto il proseguimento della strategia stragista già in atto, avremo un ulteriore tassello di verità. La certezza che siamo in grado di spendere in questa sede ci consente di dire che qualcuno glielo ha chiesto”. Chissà se troverà una nuova spinta per rispondere alle domande dei magistrati che a Firenze stanno indagando sull'ex Cavaliere e su Marcello Dell'Utri.
Intanto il boss di Brancaccio ha parlato nel processo di primo grado, facendo chiari riferimenti proprio a Berlusconi. In sede di appello non una parola. Neanche ieri, quando dopo svariate ore trascorse ad ascoltare la requisitoria ha abbandonato la saletta da cui era collegato dal carcere di Terni.
Il progetto politico e l'ascesa di Forza Italia
Nella ricostruzione tracciata dal Pg Lombardo la strategia stragista che fu messa in atto da Cosa nostra e dalla 'Ndrangheta si forma in un preciso momento storico sul piano politico.
Perché è in quel tempo che cambiano una serie di fattori sul piano internazionale e nazionale: la caduta del muro di Berlino (che aveva portato con sé anche la rivelazione dell'esistenza di Gladio), la ricerca di nuovi referenti politici con la nascita dei movimenti indipendentisti.
“Mantenere gli equilibri non era possibile mantenendo ai posti di comando le stesse persone e gli stessi assetti di potere - ha ricordato il magistrato - Bisognava cambiare tutto per non cambiare nulla. Nuovi partiti, nuovi uomini che garantissero l'egemonia mafiosa soprattutto nelle regioni meridionali, ma anche negli ambiti strategici”.
Nel 1991 vi furono una serie di riunioni da Enna alla zona di Monza, passando per Nicotra, Polsi, e Lamezia Terme, in cui il sistema criminale sviluppò il suo programma politico-eversivo.
Inoltre già nella requisitoria di primo grado era stata evidenziata la creazione delle Leghe Meridionali che vedevano l'impegno diretto delle mafie, ma anche di “forze occulte di matrice massonica riferibili al contesto piduista, per lungo tempo riconducibili a Licio Gelli", “componenti della destra eversiva”, “alcuni settori dei servizi di sicurezza” inserite probabilmente in un unico Sistema.
Era necessario “sostituire vecchi uomini e vecchi politici ormai in declino, per continuare a controllare la spesa pubblica attraverso gli ‘infedeli’”.
Poi un cambio di programma che portò ad una nuova scelta.
“Nell'autunno del 1993 – ha ricordato il magistrato - l'allora segretario del Pds, Achille Occhetto, vince le elezioni amministrative e parla da Presidente del Consiglio, come se non avesse avversari. E non ha avversari in realtà. Dopo qualche mese, l'avversario diventerà Forza Italia e abbiamo visto che, per voce unanime delle varie componenti mafiose, il sostegno elettorale a quel punto deve essere canalizzato su quel nuovo movimento politico”.
Nella ricostruzione della Procura generale “le forze politiche che si affacciano sulla scena nel '94 sono soggetti la cui caratterizzazione politica è riferibile a epoche precedenti”.
Il summit con Craxi e Berlusconi
E le lancette dell'orologio possono essere riportate indietro nel tempo fino alla fine degli anni Settanta, quando vi fu il rapimento e l'omicidio dell'onorevole Aldo Moro.
Di quell'evento ha parlato proprio Girolamo Bruzzese, figlio di Domenico Bruzzese (esponente di primo piano della cosca Crea di Rizziconi), non solo rispetto al ruolo avuto in quei fatti dalla criminalità, ma anche per contestualizzare il summit di 'Ndrangheta a cui avrebbero partecipato Bettino Craxi e Silvio Berlusconi in un agrumeto di proprietà di Giuseppe Piccolo. Più volte Lombardo ha sottolineato volutamente come quell'incontro debba essere definito “presunto” in quanto non sono stati prodotti riscontri utili ai fini processuali.
“Noi il riscontro della presenza di Craxi e Berlusconi sulla Piana non lo abbiamo - ha chiarito Lombardo - ma questo non può minare la tenuta della testimonianza di Bruzzese. Assolutamente no, perché Bruzzese il riferimento a quell’incontro lo ha fatto subito. La dichiarazione tempestiva deve essere valutata sulla base di parametri logici: che beneficio ne trae Bruzzese a parlare di Craxi appena inizia a collaborare? Lo ha detto lui: 'Ho raccontato quello che ho visto quando ero un ragazzino. Perché non sarebbe attendibile quando rischiando tantissimo parla di Craxi fin dal primo verbale? Se abbiamo recuperato le dichiarazioni di Spatuzza su Berlusconi allora perché non farlo con Bruzzese. Non ci ha consegnato elementi inverosimili”.
Da Moro alla Falange Armata
Successivamente Lombardo ha sottolineato la presenza, sullo scenario del rapimento di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta, di una componente della ‘Ndrangheta. Anche in quel momento storico “si era in una fase di probabile cambiamento degli scenari politici in tempi di ‘democrazia bloccata’ e Aldo Moro - ha detto - era disallineato dalla logica dei blocchi contrapposti”.
Nel corso della requisuitoria si è parlato molto anche della nota sigla Falange Armata, con cui furono rivendicati numerosi omicidi e stragi a partire dal 1990 con l'assassinio dell'educatore carcerario Umberto Mormile (su ordine proprio di Papalia) e che verrà ripresa negli anni Novanta da Riina. “Non erano dei veggenti - ha detto Lombardo in aula - era un progetto che iniziò con l’omicidio di Scopelliti. Non sono coincidenze o veggenti. Perché Riina rivendicò le stragi proprio con la sigla falange armata? Era consapevole che il Papalia l’aveva già utilizzata. Perchè dovevano mandare un chiaro segnale, un identico messaggio e un segnale di unitarietà. E lo facevano perché evocando quel tipo di ambienti con i quali avevano rapporti erano in grado di capire di che si stava parlando. La strategia era ben più alta ovvero la sostituzione di una classe politica nuova portata avanti dai vertici di cosa nostra e ‘Ndrangheta”.
L’intervento del Pubblico ministero proseguirà lunedì 27 febbraio, con probabile prosecuzione il giorno successivo, martedì 28 febbraio.
Foto e Video © ACFB
Dossier Processo 'Ndrangheta stragista
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