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di Aaron Pettinari

L'esistenza di "una sorta di filo rosso che dagli anni Sessanta ad oggi ha collegato ambienti, istituzioni di nostri servizi di informazione con contesti della criminalità organizzata e della massoneria, che poi si è dipanato con modalità diverse e acronimi differenti e rivendicazioni di circostanza", da alcune udienze è al centro dell'esame del vicequestore della Dia, Michelangelo Di Stefano nell'ambito del processo di appello 'Ndrangheta stragista.
Rispondendo alle domande del sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria Walter Ignazitto (anch'egli applicato al processo come il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo) il teste ha messo in evidenza alcuni punti cardine che hanno riguardato l'informativa depositata agli atti nei mesi scorsi.

Origine della falange
Tra questi vi è indubbiamente la genesi della famigerata sigla della Falange Armata, che fece la sua comparsa dopo l'uccisione, nell'aprile del 1991, dell'educatore carcerario Umberto Mormile e che poi verrà utilizzata anche per rivendicare una serie di fatti negli anni successivi. Tra questi anche l'omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo. La rivendicazione, in una missiva del 4 febbraio 1994, scritta con un normografo, recita: “Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi uccisi sull’autostrada, è un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine”.
Anni dopo, nel 2013, la Falange Armata rifarà la sua comparsa per "zittire" il capo dei capi Totò Riina, reo di aver sproloquiato assieme al suo compagno di socialità, il pugliese Alberto Lorusso, lasciandosi sfuggire minacce e retroscena inediti sulle stragi mafiose, mentre le telecamere piazzate nel carcere di Opera dalla Dia di Palermo registravano tutto. "Chiudi quella maledetta bocca - era scritto nella lettera indirizzata a Riina e mai pervenuta al boss - ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto ci pensiamo noi”.

Focus su Papalia
Tutti episodi che la Dia di Reggio Calabria ha ripercorso nell'informativa così come la morte in carcere del boss di Altofonte Nino Gioé, il quale parlò nella sua ultima lettera del boss di 'Ndrangheta Domenico Papalia affermando che quanto detto sul suo conto non erano altro che millanterie.
Ancora una volta il teste ha ricordato in aula le anticipazioni dell'Adnkronos su un frammento di quella lettera che sarà pubblicato sulla rivista Panorama nell'agosto del 1993. "Un articolo a firma di Liliana Milella dal titolo 'Cara mafia mi suicidio'. L'attività di approfondimento effettuata a riscontro ha rilevato che il giorno successivo alla morte di Gioé, così come riporta l'agenda del generale Mori, vi è un incontro con la giornalista Milella. Ed è stato anche rilevato che vi furono apporti confidenziali da parte della direzione della testata giornalistica di Panorama con il generale Francesco Delfino. La stessa Milella avrebbe riferito, parlando del caso, che si trattava di una soffiata istituzionale che il giornale aveva ricevuto. Delfino è colui che si trovò a dirigere la struttura dell'Arma dei Carabinieri vicino ad Omegna (uno dei luoghi dove Giuseppe Graviano ha vissuto la propria latitanza, ndr), dove si consegnò il boss Balduccio Di Maggio. Quest'ultimo fu trasferito a Palermo. E poi venne arrestato Riina. Fatta questa premessa vale la pena ricordare alcuni frammenti di interrogatorio di Annunziato Romeo con il sostituto procuratore distrettuale di Reggio Calabria, Roberto Pennesi. Romeo descrisse Papalia 'come una sorta di Giano bifronte': massimo referente della 'Ndrangheta di Platì da una parte e, per altro verso, rappresentante nazionale della 'Ndrangheta tutta". A queste dichiarazioni ha ricordato Di Stefano, vanno aggiunte quelle rese da Maurizio Abbatino "al quale fu detto di mettersi a disposizione di Papalia che era un personaggio di rilievo". 
Tra gli argomenti affrontati anche quei collegamenti tra la 'Ndrangheta ed alcuni ambienti massonici, già emersi agli atti del processo Gotha, in cui si attribuisce un ruolo di vertice proprio a Delfino con presunti collegamenti con soggetti come "Don Stilo" e "Peppe Morabito Tiradritto".


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L'educatore carcerario Umberto Mormile


I sequestri di persona e gli accordi con i servizi
Quindi ha ripercorso quelle che furono le dichiarazioni del collaboratore Vittorio Foschini sul delitto Mormile. A suo dire l'operatore carcerario si sarebbe accorto di alcune uscite premio di Papalia "facendo dei rapporti negativi al Tribunale di Sorveglianza" e, per zittirlo, "Antonio Schettini e Diego Rechici sono andati ad offrirgli  30 milioni" per chiudere questa storia, ma "lui si rifiutò" aggiungendo: "Non sono dei servizi". Ed è così che si sarebbe decretata la morte, perché, diceva Foschini "sapeva dei servizi segreti".
Altra questione è il rapporto tra Domenico Papalia e tale Antonio Vittorio Canale, alla riunione che quest'ultimo avrebbe fatto a Nizza assieme ad un agente libico e Maurizio Broccoletti, in quel periodo direttore amministrativo del Sisde, poi finito al centro dello scandalo sui fondi neri del Servizio.
Un incontro di cui parlò il pentito Nocera, rispetto ad un piano di evasione dal carcere di Totò Riina.
Altro punto affrontato dal teste è quello della stagione dei sequestri di persona gestiti dalla 'Ndrangheta, in base ai racconti di Antonio Schettini, uno dei killer di Mormile, che nel 1995 parlò dell'esistenza di un progetto legato alla sigla Falange Armata che avrebbe visto cointeressati con la 'Ndrangheta anche apparati dello Stato.
Ed aveva anche parlato di fondi neri per alimentare altre esigenze deviate, che in passato sarebbero state catalizzate attraverso le entrature di quota parte dei sequestri di persona negoziati dallo Stato.
Come ha ricordato Di Stefano le parole di Schettini troverebbero riscontro nel narrato del collaboratore di giustizia Nicola Feima. Questi raccontò di un accordo in cui certi apparati non esitarono a scarcerare boss della 'Ndrangheta come Vincenzo Mazzaferro e a far circolare, per tutta la Locride, una valigetta con dentro 500 milioni di vecchie lire.
Soldi che, per l'appunto, sarebbero serviti per liberare Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni.

Il protocollo farfalla
Il teste ha anche ricordato le vicende inerenti il cosiddetto "protocollo farfalla". "Interviene nell'anno 2004 - ha ricordato Di Stefano - con la direzione del Dap, dottor Tinebra e con il generale Mori come direttore del Sisde. Questo protocollo, in pratica, bypassa la normativa in materia di colloquio investigativo previsto dal codice di rito e prevedeva la possibilità che potesse esserci questo rapporto di osmosi tra strutture di amministrazione carcerarie e personale dei Servizi di informazione per favorire dei colloqui investigativi. Quindi in teoria dal 2004 in poi questi colloqui investigativi, anche se non previsti dal codice, ma previsti da una sorta di accordo tra le parti, avrebbero dovuto essere quantomeno tracciati e registrati nei registri. A noi interessa capire cosa succede prima e siamo stati in grado di documentare che questo genere di protocollo, che non si chiamava 'farfalla' ma aveva un altro nome di fantasia, era vigente".
Il presupposto è che nel 1990 Mormile viene ucciso proprio per aver notato la presenza di servizi in carcere, che il capo del Cesis chiederà, ad un certo punto, al generale Federici 'come mai il Sismi stesse entrando in carcere' nel periodo in cui aveva disvelato l'elenco dei sedici che, secondo lui, sarebbero stati estranei al contesto della Falange armata. E, secondo l'investigatore, un'altra traccia è nella vicenda Gioé, in quanto "alcuni operatori carcerari diranno che effettivamente i servizi andavano in carcere, ma con un escamotage non venivano annotati nei registri e non lasciavano traccia", ma non tutte sarebbero scomparse.
Il processo è stato poi rinviato al prossimo 23 marzo, quando la Procura generale concluderà l'esame di Di Stefano. Alla successiva udienza, quella del 30 marzo, saranno le altre parti a fare le domande al teste.

Foto © Imagoeconomica

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