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di Aaron Pettinari
Che relazione c'è tra la sigla della Falange Armata, le stragi e gli attentati maturati nei primi anni Novanta? In che misura quelle rivendicazioni si inseriscono all'interno di un piano politico eversivo? E in che maniera 'Ndrangheta e Cosa nostra si inseriscono in questo progetto? In una requisitoria che dura da cinque udienze (oggi l'ultima con la richiesta delle pene nei confronti degli imputati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone) il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha evidenziato tutti gli elementi necessari per comprendere quanto avvenne in quel periodo storico. Un percorso verso la verità, citando Arthur Schopenhauer, che "passa per tre gradini: viene ridicolizzata, viene contrastata, viene accettata come ovvia". E fino ad oggi proprio il coinvolgimento della criminalità organizzata calabrese all'interno di quel progetto di attacco allo Stato non era mai emerso con tale chiarezza.
All'interno dell'aula bunker di Reggio Calabria la Corte d'assise, presieduta da Ornella Pastore, ascolta con attenzione, così come alcuni cittadini, rappresentanti delle associazioni che hanno aderito al sit-in che in contemporanea si tiene davanti al Cedir, sede del Tribunale. Ad ascoltare vi sono anche gli altri. Ed è a loro che ad un certo punto della requisitoria Lombardo si rivolge con determinazione, puntando il dito verso la finestra: "Indico volutamente la finestra perché la fuori ci sono loro. Che ascoltino, attraverso Radio Radicale, e sappiano quello che stiamo facendo e che andremo a fare".
Il segno evidente che comunque il processo 'Ndrangheta stragista segna il passo anche per possibili filoni investigativi futuri.

Da Gladio alla Falange Armata, un pezzo di storia
"La vicenda della Falange Armata non è semplice - spiega il pm - Perché le minacce, le rivendicazioni, la disinformazione, i depistaggi vanno ad incidere sulle alte funzioni degli apparati di Governo di questo Stato e non stiamo parlando di banalità, ma di una drammatica realtà. Qui c'è una struttura che non richiede riconoscimenti, punciute di varia natura o rituali. Ma siamo di fronte a gente che deve mantenere inalterato il ruolo di baricentro che ha sempre avuto, in una condizione dalla quale sia possibile determinare le scelte di quelli che sono gli organi di governo di questa nazione". Il riferimento è al "crollo" di quelle strutture che con la caduta del muro di Berlino, nel 1989, hanno visto finire "la propria ragione d'essere". Una struttura come l'organizzazione paramilitare clandestina Gladio, che agiva tramite operazioni Stay Behind, la cui esistenza fu rivelata in Parlamento dal Presidente del Consiglio Giulio Andreotti nel 1990, che era in strettissima relazione con il VII Reparto del Sismi, il cosiddetto Ossi.

Il percorso
E' l'aprirle 1990 quando la sigla della Falange Armata fa il suo ingresso nella scena con l'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile. In quello stesso anno vi saranno altre 18 rivendicazioni. Nell'anno successivo saranno 10. Nel 1992 il numero sale a 17. Nel 1993 se ne aggiungo altre 16. Poi, nel 1994, un vero e proprio boom con 41 rivendicazioni. Caso vuole che 39 di queste saranno tra il gennaio e il febbraio. Un periodo cruciale. "E' quello il momento in cui qualcosa deve succedere - spiega il magistrato - Quello che ci ha detto Giuseppe Graviano trova conferma in questi numeri. Graviano ai suoi diceva: 'sbrighiamoci, perché i calabresi già si sono mossi'. Ed infatti qualcosa è accaduto. E in quel momento la storia di ‘Ndrangheta e Cosa Nostra in quel momento storico va di pari passo alla storia del movimento politico che verrà annunciato il 26 gennaio di quell’anno, Forza Italia". Successivamente, ricorda il pm, il "colpo di coda" si manifesterà con due sole rivendicazioni, una a marzo ed una a dicembre, per poi entrare dentro un silenzio di quasi vent'anni.

Riina minacciato

Perché la misteriosa sigla farà il suo ritorno nel 2014, quando invierà una missiva in carcere non ad un detenuto qualunque, ma al Capo dei capi corleonese, Totò Riina. "A Riina - ricorda Lombardo - Falange Armata si rivolge dopo 19 anni per dirgli cosa? Riina è recluso all’epoca nel carcere di Opera, anche lui impegnato in una serie di chiacchierate con Alberto Lorusso, chiacchierate intercettate di cui si era iniziato a parlare sulla stampa. Falange armata rinasce dalle sue ceneri e gli dice 'Riina chiudi quella maledetta bocca, i tuoi familiari sono liberi'. Stiamo minacciando Riina? C’è qualcuno al mondo capace di minacciare Totò Riina? Strano, pensavo che, come ci hanno raccontato per anni, in maniera fasulla e deviata, non ci fosse nessuno sopra Totò Riina. Attento, tu sei anziano e detenuto ma tu hai gente fuori che può fare una bruttissima fine. Al resto di pensiamo noi. Noi chi? Falange Armata".

lombardo aula 10 luglio panoramica

Strategia stragista come strategia politica
Nella sua ricostruzione Lombardo sottolinea come dietro alla Falange armata vi sia una questione "squisitamente politica", non nel senso ideologico, ma "espressione di una sordida, inaccettabile, vomitevole lotta per il potere" e "le mafie sono componenti di questo sistema di potere".
Lombardo spiega l'esistenza di un filo dietro la misteriosa sigla che attraversa le dichiarazioni di svariati collaboratori di giustizia e che permettono di aggiungere pezzi al puzzle. "Si poteva fare a meno di cosa nostra in un disegno del genere? Perché diventasse disegno totale, si poteva fare a meno della ‘ndrangheta? Soprattutto nel momento in cui esse avevano l’esigenza di mantenere un ruolo centrale negli assetti di potere che governavano questo Stato. Si era trovato qualcuno che doveva poi eseguire quello che andava rivendicato. Bisognava fare rumore, ci raccontano Cannella e Calvaruso, nel momento in cui ci riportano le frasi di Bagarella decisive per tutti noi, quando questi, a contatto con i suoi uomini di massima fiducia, dice 'mi hanno chiesto di fare rumore. Questo sciame stragista che cresce e monta e si contestualizza su determinati obiettivi e si arricchisce di false rivendicazioni, spesso emulative, non deve farci dimenticare che esisteva un fenomeno di grande rilievo criminale che era reale. Sono morte decine e decine di persone. Tutto questo è reale. E doveva esserlo se si voleva ottenere lo scopo prefissato".
Il procuratore aggiunto reggino individua tre filoni investigativi sulla Falange. Il primo riguarda Cosa nostra e passa dalle riunioni di Enna, con Riina che ordina di rivendicare le stragi con quella sigla e che vede conferme nel dichiarato dei collaboratori, tra cui Malvagna, ma anche Tullio Cannella che racconta delle parole di Bagarella dopo le stragi del 1993, con un riferimento proprio alle rivendicazioni.
Il secondo filone riguarda la 'Ndrangheta e proprio la rivendicazione sulla morte di Mormile. Pentiti come Foschini e Cuzzola hanno spiegato le reali motivazioni che si nascondevano dietro quel delitto indicando anche nei Servizi di sicurezza l'entità che aveva in qualche maniera suggerito l'utilizzo di quella sigla a Domenico ed Antonio Papalia, ovvero i vertici assieme a Franco Coco Trovato della 'Ndrangheta, e non solo, in Lombardia.
Il terzo filone è quello che proviene dalle dichiarazioni di un testimone di altissimo livello come l'ambasciatore Fulci, che fu chiamato a dirigere il Cesis direttamente da Francesco Cossiga e Giulio Andreotti. "Fulci subirà delle minacce proprio dalla Falange Armata e - ricorda Lombardo - vennero fatti degli accertamenti nei confronti di 15-16 funzionari del Sismi, presso il nucleo della Settima divisione degli Ossi. Per Fulci erano loro che compivano azioni di minacce nei suoi confronti, rivendicandole Falange Armata. Quindi per Fulci esisteva una struttura occulta e deviata dei servizi che svolgeva una costante campagna di intossicazione, disinformazione e aggressione degli esponenti istituzionali, in linea, con la politica piduista dei vecchi apparati del Sid e del Sifar".

Asse Piromalli a Dell’Utri
Tra gli argomenti trattati nella requisitoria anche alcuni passaggi sul ruolo fondamentale della famiglia Piromalli nei contesti più alti del potere. Argomenti sviluppati in inchieste giudiziarie come "Cent'anni di storia" in cui si parla dei collegamenti tra le famiglie calabresi e Marcello Dell'Utri, già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. "È noto che risultava avere rapporti stretti proprio con i fratelli Graviano e con Antonino Cinà, medico di cosa nostra vicino ai corleonesi e legatissimo ai Graviano - ricorda Lombardo - E da 'Cent’anni di storia' emergeva la figura del faccendiere Aldo Micciché, già della Democrazia cristiana e fuggito in Venezuela dopo condanna a 25 anni di reclusione per diversi reati. Micciché era uomo legato completamente “mani, piedi e culo” ai Piromalli-Molè, che all’epoca, fino al 1 febbraio 2008, quando l’asse Piromalli-Molè in qualche modo subisce un forte scossone per l’omicidio di Rocco Molè, è ancora unitario e granitico. Quanto ai compiti nell’organizzazione, Micciché metteva a disposizione il tessuto relazionale. Mentre Gioacchino Piromalli si incontrava con gli uomini di Graviano, Micciché era in contatto telefonino con Giacchino Arcidiaco, fornendo indicazioni circa un incontro che Arcidiaco avrebbe avuto con Marcello Dell’Utri. Emergeva non solo il rapporto Dell’Utri-Micciché, ma anche Dell’Utri-Piromalli. I Piromalli avevano chiesto aiuto in cambio di appoggi elettorali. Micciché affermava di poter dire che la Piana è cosa nostra, il porto di Gioia Tauro l’abbiamo fatto noi, quello che è successo in Aspromonte è successo perché l’abbiamo fatto noi. E lì significa Polsi, cioè la testa formale della ‘ndrangheta nel mondo. E ricordati - gli dice - che la politica bisogna saperla fare e che ha avuto autorizzazione di dire che possiamo garantire Calabria e Sicilia. L’autorizzazione la dà non solo la ‘ndrangheta, ma quel livello elevatissimo su cui ‘ndrangheta e cosa nostra si parlano per evitare che ci possano essere incomprensioni o disallineamenti dannosi. Emerge, dunque, quello stabile duraturo strutturato sinergico rapporti fra Graviano e Piromalli".

Il tempo delle risposte e la promessa mancata da B.
Ricordando le dichiarazioni del pentito Spatuzza ("Graviano mi disse abbiamo il Paese nelle mani”) ancora una volta Lombardo torna sulla rabbia di Giuseppe Graviano per quelle promesse mancate. Perché i messaggi, proprio grazie alle rivendicazioni con la sigla della Falange Armata, erano stati trasmessi in maniera chiara. E gli attentati non si fermarono con l'arresto dei Graviano. "Non è che, catturato Graviano, il disegno viene meno automaticamente - aggiunge il pm - Ecco perché prosegue per pochi giorni il comando in Calabria, quando la componente calabrese viene avvisata che le esigenze sono venute meno. 'Fermatevi, perché ora si apre il tempo delle risposte', che mi pare di capire che non siano arrivate o non come Graviano si aspettava, visto che definisce Silvio Berlusconi 'un traditore'. Lo fa in carcere, il 14 marzo del 2017. Dice 'io sto pagando, va bene. Ma l’autore è lui'. Per poi aggiungere: 'Ha tradito per una questione di soldi'".

Dossier Processo 'Ndrangheta stragista

Foto © ACFB

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