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di Davide de Bari
La Corte d’Assise acquisisce i verbali dell’ex pentito Calabrò

“Mi dissero che per le stragi i siciliani avrebbero fatto la loro parte mentre i calabresi avrebbero fatto la loro”. E’ il collaboratore di giustizia Vincenzo Grimaldi a parlare della condivisione della strategia stragista contro lo Stato tra ‘Ndrangheta e Cosa nostra al processo in corso davanti la Corte d’Assise di Reggio Calabria, che vede imputati i boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. I due sono accusati di essere i mandanti degli attentati contro i carabinieri (in cui morirono anche i militati Fava e Garofalo), avvenuti in Calabria tra la fine del 1993 ed il 1994. Durante l’esame, condotto dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, il teste ha raccontato dei suoi trascorsi criminali, vissuti all’interno della famiglia Asciutto senza essere direttamente affiliato, finché non decise di collaborare con la giustizia anche in seguito alla morte del padre, Giuseppe, ucciso in quella che passò alle cronache come la “Strage del venerdì nero di Taurianova”.
Nonostante quelle forti fibrillazioni tra le cosche la direttiva che arrivava dal vertice era quella di fare la pace. Grimaldi ne sarebbe avvenuto a conoscenza dal boss della cosca Piromalli-Molè, Santo Asciutto “che aveva parlato con i Molè e Piromalli e quindi dovevamo darci la mano con gli Zagari e fare la pace, poi dovevamo anche dividerci i soldi del controllo del territorio. In quel momento la pace era necessaria perché c’era il rischio che poteva verificarsi il fenomeno del pentitismo”.

Quel 41 bis dato e poi tolto
Il pentito, intervenuto in videocollegamento, ha ricordato come fu sottoposto al regime carcerario del 41bis subito dopo le stragi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ma che immediatamente dopo gli dissero che glielo avrebbero tolto. “Nel corso dei processi in cui ero coinvolto insieme a Santo Asciutto, Rocco Molè e Pino Piromalli si parlava di ciò che stava accadendo in Sicilia in quel periodo. - ha raccontato - Mi dicevano di stare tranquillo che ora toglieranno il 41bis. Di questo ne erano a conoscenza tutte le famiglie”. E la conferma che “qualcuno si stava muovendo per far togliere il 41bis” la ebbe qualche tempo dopo quando il regime carcerario duro gli fu tolto. “Dal reparto speciale dove ero mi portarono in cella con Santo Asciutto e mi dissero che piano piano risolviamo tutto… mi assicurarono che qualcosa era stato fatto - ha spiegato - Asciutto mi disse che i Molè-Piromalli erano d’accordo con i siciliani per uccidere i magistrati come riscatto per il 41bis”.

“Cosa nostra e la ‘Ndrangheta erano un'unica cosa”

Parlando dei rapporti tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta, Grimaldi ha poi raccontato che per la criminalità organizzata calabrese “il top” era rappresentato dalla cosca Molè-Piromalli. Con i siciliani, a suo dire, non vi era “una semplice amicizia o collaborazione, ma come se fosse un'unica grande organizzazione”. Infatti, il collaboratore ha riferito che il super boss catanese Nitto Santapaola “era stato quattro mesi latitante nella masseria di Contrada Sovereto dei Molè. C’era stato anche Riina per 3-4 giorni”. Inoltre, il capo dei capi di Cosa nostra “mandava 100 milioni di lire all’anno ai Piromalli-Molè per salvaguardare i camion di droga che erano diretti al Nord e che passavano dalla Calabria. - ha raccontato - Una volta 20 milioni sono stati dati a Santo Asciutto, il quale ne ha dato qualcosa anche a me”. Secondo il pentito “quella fu una richiesta di Riina in persona ai Molè-Piromalli e riguardava tutta la Regione, perché dovevano bloccare ogni tipo di rapina sui tir visto che comunque anche Santo Asciutto e Raso avevano il vizio delle rapine”. Grimaldi ha anche raccontato che esclusivamente “Rocco e Momo Molè andavano in Sicilia a Catania per incontrare Santapaola e a Palermo per incontrare Riina”. Inoltre, ha aggiunto Grimaldi, Cosa nostra e ‘Ndrangheta si sarebbero anche scambiati “i sicari per degli omicidi”. “Quando è accaduto il fatto a casa di mia sorella, dove dei killer si sono vestiti da carabinieri, - ha proseguito il teste - Asciutto mi disse che gli Zagari si erano scambiati un favore con gente di Messina e di Catania in quanto gli Zagari erano andati a fare un attentato e i siciliani erano venuti a casa mia a viso scoperto”. Di quegli scambi di “personale” per compiere gli omicidi Grimaldi avrebbe appreso anche altri dettagli: “Mi dissero che quando Momo Piromalli torna in Sicilia facciamo arrivare qualche siciliano a Taurianova così quando gli serve il favore voi andate da loro a fargli il favore. Per quello che è successo a casa mia ne sono venuto a conoscenza dopo la pace”.

Gli incontri nella masseria dei Molè
Nel corso dell’esame il collaboratore ha poi parlato degli incontri che avvenivano nella masseria di Contrada Sovereto. Lì si sarebbero tenuti gli incontri tra i vertici della cosca dei Piromalli-Molè, che al tempo "era la famiglia più potente della ‘Ndrangheta calabrese”, e le altre famiglie che si trovavano anche al di fuori della Piana di Gioia Tauro. “Venivano alla Masseria Molè-Piromalli anche gente del Cosentino come Franco Pino e Luigi Mancuso del Vibonese”. Ed è proprio in una riunione nella masseria dove ha riconosciuto uno degli imputati al processo: il boss della famiglia dei Piromalli, Rocco Santo Filippone. “Era stato invitato alla riunione qui - ha detto - era il ‘vecchio’ della famiglia di Melicucco”.
All’inizio dell’udienza la presidente della Corte d’Assise, Ornella Pastore, ha letto l’ordinanza con cui è stata acquisita, su richiesta del pm, la documentazione riguardante l’ex pentito Giuseppe Calabrò. Atti importanti che, come ha spiegato il magistrato alla scorsa udienza, dimostrerebbero come Calabrò, che si trova ora accusato di falsa testimonianza, abbia ritrattato le proprie rivelazioni dopo aver ricevuto delle pressioni. Conclusa l’udienza, la presidente ha rinviato al prossimo 11 ottobre.

In foto: a sinistra il boss della cosca Piromalli Rocco Santo Filippone e a destra il capo mandamento di Brancaccio Giuseppe Graviano

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