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di Aaron Pettinari e Davide de Bari
La Corte d’Assise dispone la trasmissione degli atti alla Procura
Il pm Lombardo: “Ha dichiarato il falso perché minacciato dalla madre che rappresenta la famiglia ‘ndranghetista”

Nessun colpo di scena. Nessun ripensamento. Giuseppe Calabrò, ex collaboratore di giustizia già condannato per l’omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo ed autore assieme a Consolato Villani degli attentati ai militari dell’Arma che si consumarono tra il 1993 ed il 1994, ancora una volta è tornato in aula per propinare quelle che lo stesso procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo ha definito senza mezze misure come “falsità” e “menzogne”.
Il cambio di versione repentino, avvenuto già nel 2014 e confermato in aula la scorsa settimana, è tanto clamoroso quanto assurdo e per questo motivo il pm, a fine esame del teste, ha chiesto e ottenuto dalla Corte d’Assise di Reggio Calabria, presieduta da Ornella Pastore, la trasmissione degli atti d'udienza alla Procura affinché possa essere valutata la commissione del reato di falsa testimonianza.
Già nel 2014 Calabrò era tornato sui suoi passi e, dopo aver accusato che l'agguato contro i due militari gli era stato commissionato dal cugino Antonio Filippone, figlio di Rocco Santo Filippone (imputato nel processo in corso a Reggio Calabria insieme al boss di Cosa nostra Giuseppe Graviano, capo del mandamento di Brancaccio), aveva sostenuto l’assassinio dei due carabinieri é stato, in realtà, "una ragazzata" commessa insieme al collaboratore di giustizia Consolato Villani per evitare di essere sottoposti ad un controllo da parte dei militari.
Rispondendo alle domande di Antonio Ingroia, legale di parte civile per le famiglie degli appuntati Fava e Garofalo, Calabrò ha detto più volte di “essere stato sotto pressione", che “aveva paura per aver detto delle cose non vere” e che quando nel 2012 scrisse una lettera, mai inviata, al Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso non era altro che “per gioco”.
Ma quelle giustificazioni non hanno affatto convinto neanche l’ex pm palermitano che nel corso dell’esame ha evidenziato le contraddizioni del teste.
All’interno di quella lettera, scritta “per gioco”, infatti, vi erano accuse gravi e rilevanti. "Lei parla di conferma a cose di cui aveva parlato tre anni prima in un colloquio investigativo con un magistrato della procura nazionale antimafia (Vincenzo Macrì, ndr) - ha detto con forza Ingroia - Lei fa riferimento a preoccupazioni per l'incolumità della sua famiglia in relazione a quello che nella lettera avrebbe scritto; la raccomandazione al Procuratore nazionale antimafia e che il suo nome non venisse diramato per motivi di sicurezza. E lei vuole farci credere che queste cose le ha scritte per gioco? Cioè lei gioca con l'incolumità dei suoi familiari?". E Calabrò ha risposto: "Ma io non l'ho mandata quella lettera, è pura fantasia". E Ingroia ha incalzato: "La domanda è perché l'ha scritta non perché non l'ha mandata". Ma l'unica risposta ottenuta da Calabrò è che "non so nemmeno io perché l'ho scritta quella lettera. L'ho presa così".
E così anche il legale non ha potuto far altro che associarsi alla richiesta di invio atti alla Procura espresso dal pm perché "è evidente la falsa testimonianza".
Tra mille incertezze e parole confuse Calabrò forse una cosa vera l'ha detta quando, prima durante il controesame dello stesso Ingroia e poi ad una del presidente della Corte d’Assise, Ornella Pastore, sui motivi per cui "aveva paura", ha parlato di "paura della 'Ndrangheta".
Incalzato ha anche confermato che "non tutto era falso, c'erano anche delle cose vere" ammettendo anche alcuni fatti: "Io e Villani andammo a casa di mio cugino Totò e c’era pure mio zio". Una circostanza che offre un riscontro a quanto riferito da Consolato Villani, che aveva parlato proprio di quegli incontri. Ovviamente diversa la motivazione data da Calabrò che ha sminuito ("parlammo del più e del meno, io volevo parlare con mio cugino"). Resta però il dato dell'incontro che sarebbe avvenuto "dopo l’omicidio degli appuntati Fava e Garofalo". Calabrò ha anche parlato di un secondo incontro, a Reggio Calabria, dove lui, suo padre e lo zio andarono a casa Villani, per incontrare Consolato e suo padre "per questioni di armi". Ma secondo il pm Lombardo il motivo è ben diverso.
Concluso l'esame di Calabrò il magistrato ha depositato una memoria per illustrare i motivi per cui vanno immediatamente acquisite nel fascicolo del dibattimento le dichiarazioni rese ai magistrati nel 2014.

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Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo © Imagoeconomica


Secondo l'articolo 500, comma 4, del codice di Procedura Penale "quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate".
E il caso Calabrò, secondo il pm, rientrerebbe in questa casistica. Il motivo è presto detto in quanto, secondo Lombardo, "Calabrò è stato intimidito dal comportamento posto in essere da Filippone Maria Concetta, madre di Calabrò e sorella di Filippone la quale in maniera scientifica e con argomenti suggestivi si colloca in un contesto di ‘Ndrangheta".
Lombardo, che ha elencato la lunga serie di colloqui registrati in carcere dal maggio 2014 al gennaio 2015, compiuti in quel periodo, in cui vi sono "una serie di passaggi apparentemente di tipo colloquiale, incastonabili fra madre e figlio. La donna vuole coprire il prossimo congiunto e si cura che quello scenario, rimasto ignoto fino al momento, non venga fuori. Vi sono continui rimandi alla famiglia, intesa come famiglia di ‘Ndrangheta. Calabrò non ha paura della madre, ma ha paura del contesto di 'Ndrangheta di cui la famiglia è l’esponente di vertice e che passa dal ruolo di alto livello di Rocco Santo Filippone". Quindi ha evidenziato come la donna lo avrebbe esortato a tenere fede, nell'interesse comune, quale elegante accezione della comune appartenenza alla organizzazione di tipo mafioso, a comportarsi in un certo modo ("fede... fedeltà...fedeltà. Bocca chiusa... e non sbagli mai"). "Io non sarei stato in grado di utilizzare un termine più chiaro per riferirmi all’associazione" ha detto Lombardo ringraziando in maniera ironica la donna che aveva usato certe espressioni.
Dopo quell'intervento della madre, ha sottolineato il pm, "il detenuto abbandona i suoi propositi collaborativi, per adottare la scelta di scontare il lungo periodo di detenzione".
Davvero la madre di Calabrò in quel momento sta rappresentando la 'Ndrangheta? Secondo il pm vi sono anche altri aspetti che possono essere colti in questo senso come i ripetuti inviti a tenere la bocca chiusa, o il riferimento specifico a Lo Giudice, definito con disprezzo “il nano” ("un soprannome con cui veniva chiamato nei contesti di ‘Ndrangheta"), o le parole dette contro Villani, apostrofato come “cornuto” un termine che, secondo il pm "non definisce il millantore o il tragediatore ma il traditore, l’elemento pericoloso in quanto è a conoscenza di cose vere, che non doveva dire”.
Il pm ha anche ricordato i momenti in cui, nell’interrogatorio con i magistrati nel maggio 2014, Calabrò tentò di lanciarsi contro una parete, avendo una reazione di terrore proprio quando si stava parlando della lettera e dei suoi contenuti. “Calabrò ha mentito. - ha spiegato il pm - Non serve neppure ricordare al testimone le parole dette ad inizio interrogatorio, quando Calabrò scoppiò in lacrime, dicendo di aver paura che potessero uccidere la sua famiglia, sua figlia in particolare se avesse detto la verità”.
C'è poi quel riconoscimento di "Faccia da mostro", l'ex poliziotto Giovanni Aiello.
Tanto ieri quanto nel corso dell'udienza precedente Calabrò ha detto di aver riconosciuto Aiello perché "lo aveva visto in televisione". Lombardo però ha sottolineato due dati: il primo che in quel periodo non vi erano state trasmissioni che riguardavano Aiello. Il secondo, forse il più importante, che "nel fascicolo gli furono mostrate due foto di Aiello e lui ha riconosciuto quella meno semplice. Il che significa che lo conosceva".
Così il magistrato ha chiesto l'acquisizione agli atti del processo delle dichiarazioni dell’interrogatorio del maggio 2014 e della missiva inviata il giorno dopo in cui annunciava “ulteriori importanti rivelazioni” su cui aveva deciso di non parlare il giorno precedente visto che era presente il suo legale difensore. Richiesta alla quale la difesa si è opposta. La Corte si è riservata di decidere sull'acquisizione nelle prossime udienze. Il processo è stato quindi rinviato al prossimo 3 ottobre.

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