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Al processo ‘Ndrangheta stragista sentito l’ex braccio destro della cosca De Stefano

"Delle stragi ho sentito parlare per la prima volta a Milano. Il periodo era quello dopo il fallito attentato all'Addaura, ma prima che finisse la seconda guerra di 'Ndrangheta e fosse ucciso il giudice Scopelliti. Lo ricordo perché Mico Libri aveva detto che certe cose andavano fatte insieme, uno di loro e uno di noi". Sono queste le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Antonino “Nino" Fiume, cognato ed ex braccio destro di Peppe De Stefano ("capo crimine” della 'Ndrangheta di Reggio), sentito giovedì davanti alla Corte d’assise di Reggio Calabria al processo ’Ndrangheta stragista, in merito alla partecipazione della criminalità organizzata calabrese alla strategia di attacco allo Stato che ha avuto luogo nei primi anni '90. Una testimonianza di oltre tre ore in cui il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo ha avuto il suo bel da fare per cercare di rendere il più chiaro possibile il racconto del teste, spesso poco fluido e con troppi passaggi dati per scontato. Su diversi argomenti Fiume ha riferito solo lo scorso 14 marzo, quando è stato raggiunto dal pm ed oggi in aula ha confermato quei summit milanesi a cui avrebbero partecipato i boss De Stefano di Reggio, i Mancuso di Vibo ed i referenti reggini in Lombardia, Franco Coco Trovato e Antonio Papalia.
Incontri e riunioni che sarebbero proseguite anche in Calabria, in contrada Badia. “Ho dormito quasi un mese lì a Limbadi perché non si è trattato di una riunione di un’ora - ha detto Fiume - Prima ce n'è stata una 'stretta stretta' fra i capi a casa di un parente dell'autista di Luigi Mancuso, Antonio Pronesti 'Nasu scacciatu' che si trovava nella frazione Badia di Limbadi. C'era Pino Piromalli, Nino Testuni, Schettini, Franco Coco Trovato, Peppe De Stefano e Nino Pesce". Il teste ha riferito che in questa riunione Franco Coco Trovato era d'accordo sulla strategia stragista mentre Peppe De Stefano diceva che "era meglio trovare altre vie come corrompere un magistrato o delegittimarlo". In quel periodo vi furono anche altri incontri in altre sedi, a Parghelia, al Blue Paradise a Nicotera, a Limbadi e Rosarno. In queste, però, il collaboratore non ha ricordato se si fosse parlato della strategia stragista.

Il Consorzio, il “potere assoluto”
Nel suo lungo flusso di coscienza, Fiume ha riferito degli assetti della ‘Ndrangheta di Archi, costituita dopo la morte di don Paolino De Stefano e degli accordi stabiliti successivamente alla seconda guerra di mafia.
Ha parlato di Pasquale Condello raccontando come questi avesse ricevuto una “delega” di Crimine, direttamente da Paolo De Stefano e che questa "gli consentiva di parlare in suo nome, perché Condello è nato destefaniano e lo è stato anche durante la guerra per certi aspetti”. Una delega che poi passò a Giuseppe De Stefano e che per un certo periodo, quando i due fratelli erano uno in carcere ed uno latitante, tenne anche lui, sebbene fossero sempre presenti con ruoli importanti anche Vincenzino Zappia e Giovanni De Stefano.

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Il boss Pasquale Condello


Poi il discorso è tornato alle stragi. La decisione finale l’avrebbe presa il “Consorzio” nato proprio a Milano: "Questo era il potere assoluto che dominava su tutti, perché all’interno c’era ‘Ndrangheta, Cosa nostra, Camorra, Sacra Corona Unita. Molti lo hanno definito come una specie di federazione, ma questo consorzio aveva il monopolio di tutto lo stupefacente che girava in Italia e tutti lo dovevano comprare da loro. Addirittura alcuni omicidi potevano essere decisi solo dal consorzio”. A farne parte erano solo in pochi e i fratelli De Stefano erano tra questi. “Per riconoscersi avevano tutti lo stesso bracciale. Il capo aveva un girocollo, che era di Mico Papalia. - ha detto - Una volta lo ha lasciato anche a Peppe De Stefano. Al tavolo, si poteva parlare solo se avevi queste cose”. Ma quella struttura non era una novità. A detta del teste il primo consorzio fu creato a Milano negli anni ’70. Mentre nel secondo, costituito tra l’86 e l'87, c’era Jimmy Miano, Turi Cappello, Antonio Papalia, Franco Coco Trovato ed altri. Ad alcune riunioni avrebbe partecipato, in rappresentanza dei De Stefano, anche Fiume.

Il ruolo del Consorzio nell’omicidio Mormile
Secondo il collaboratore di giustizia il Consorzio avrebbe deciso anche la morte dell’educatore carcerario Umberto Mormile, assassinato a Carpiano, mentre si stava recando a lavoro, l’11 aprile 1990. “E’ stata una cosa brutta, mannaja. Questo omicidio l’ha fatto Schettini e Franco Coco era arrabbiatissimo perché avevano lasciato la pistola sul luogo del fatto, non si doveva risalire a nessuno - ha detto Fiume - Franco Coco si arrabiò con Pino Carnevale e lo fece tornare sul luogo del delitto per recuperare la pistola. Lo stesso giorno ci fu un altro omicidio nel carcere di Bologna. Era una cosa programmata dal ‘Consorzio’, doveva avvenire in contemporanea con il fatto di Bologna. Ma non erano loro i capi. Il Consorzio eseguiva ordini di altri, aveva delle indicazioni per queste cose”. Chi erano questi altri? I servizi di sicurezza che con i boss erano in stretti rapporti.
Sempre riguardo l’omicidio Mormile, rispetto la rivendicazione dell’omicidio con la sigla Falange Armata, il teste ha saputo solo dire che “c’entravano i servizi". Su quella misteriosa sigla però ha ricordato uno strano episodio: “Ero a Milano e non c’erano voli per tornare a Reggio Calabria. C’era una lista d’attesa che non finiva mai. In quel momento Schettini mi disse vai in una cabina e digli che sei un amico di falange e ho chiamato dicendo solo il numero del volo. Poi a Milano due poliziotti mi hanno accompagnato in aereo e sono partito per Reggio”. Un altro omicidio che sarebbe stato deciso dal consorzio è quello del figlio di Raffaele Cutolo: “E il padre non ha detto nulla perché era un altro di quelli che i servizi andavano a trovare in carcere. I suoi uomini giravano con il tesserino dei servizi”.

Il treno della ‘Ndrangheta
Parlando della struttura della ‘Ndrangheta, Fiume ha anche usato diverse metafore: "Ce n’è una che può essere paragonata ad un treno con tanti vagoni, e ogni vagone ha il suo capotreno che è il capolocale. Poi c’è il capotreno. E questo è un treno locale bello lungo. Poi c’è il treno ad alta velocità, dove non possono salire tutti, ci vanno solo i capi. Al di sopra di questo treno c’è chi viaggia in aereo, che dirige gli scambi, dirotta i convogli e neanche si vede. Sono state combattute guerre, sono state uccise tante persone e chi lo ha fatto non sa neanche il vero perché. Mi riferisco, ad esempio, all’omicidio del giudice Occorsio, con Papalia che ha fatto l’ergastolo da innocente”. Poi ha avvisato: “Vi dico che c'è gente che non può collaborare perché ha preso ordini dai servizi segreti. E quelli ti trovano ovunque”.

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Il pubblico ministero Giuseppe Lombardo © Imagoeconomica


L’azione dei servizi segreti
E’ dietro alla presenza dei servizi che si nasconde la paura, dunque. Anche per lui che di tanti argomenti riferiti solo di recente non aveva parlato prima. “Quando mi è stato chiesto di parlare dei servizi segreti, non ho parlato perché avevo paura - ha detto il collaboratore - Non so quanti di questi sono ancora in giro, ma è gente che poteva trovarti ovunque, raggiungerti ovunque. Io ho avuto a che fare con quelli ‘puliti', con gli uomini dei servizi di sicurezza che sono conosciuti a Reggio. ‘Ntoni Gambazza, che era un capo, Mico Alvaro, che era un capo, io sono con Giuseppe De Stefano e facciamo anticamera da Rocco Papalia perché suo fratello è con queste persone che non può vedere nessuno...”. Secondo Fiume il tramite con i servizi segreti erano lui e “Ntoni Nirta, Mazzaferro quello di Gioiosa, avevano contatti diretti con queste persone. Paolo De Stefano era protetto da queste stesse persone, fin da quando il primo consorzio in Lombardia gestiva il traffico di sigarette, poi ci ha litigato e suo figlio ha detto ‘I servizi fanno la guerra e i servizi fanno la pace. I servizi ci ammazzano e non ci pagano’”.
Secondo il pentito chi ha continuato ad intrattenere i rapporti con i servizi era Mico Papalia in quanto “lui e i De Stefano erano la stessa cosa”. Tutte le volte che “Mico Papalia ha avuto un permesso premio l’ho incontrato. E questo è strano. - ha spiegato - Noi lo sapevamo prima perché venivamo avvertiti e io e Giuseppe De Stefano andavamo da lui, o a Platì o a Milano. Perché per lui i figli di Paolo De Stefano erano come figli suoi. Papalia era uno di quelli che stavano sull’aereo (riprendendo la metafora precedente, ndr). Il rapporto con i servizi io l’ho constatato personalmente. Una volta eravamo con lui e si è avvicinata una macchina ed ha detto ‘questi sono quelli che mi vengono a trovare in carcere’. E De Stefano ha specificato: i servizi. Lui non ha mai potuto parlare di queste cose per questo. E lo stesso è stato per Mico Libri. Li andavano a trovare in carcere”.

Cosa nuova e i legami con la massoneria
Rispondendo alle domande del pm Lombardo il collaboratore ha parlato della cosiddetta “Cosa nuova”. “Ne ho sentito parlare durante una riunione in cui erano presenti Giuseppe De Stefano, Cataldo Marincola e Giuseppe Farao. - ha detto - Bisognava fare terra bruciata delle persone che sapevano troppe cose. Occorreva eliminare coloro che erano al corrente di determinati fatti e ricercare gente riservata”.
Fiume ha poi detto che Paolo De Stefano“era in una loggia con Nitto a Catania collegata a una di Brescia e ad altre”. La loggia di cui ha parlato Fiume farebbe riferimento a quella che ha obbiettivi eversivi fondata da Freda durante la sua latitanza a Reggio Calabria, legata alla gemella che era stata fondata dal banchiere Michele Sindona. Inoltre, il teste ha parlato della figura dell’avvocato Giorgio De Stefano e come questi era “sia in quella normale, che nelle logge spurie”. Fiume ha poi raccontato che quando ha iniziato la sua collaborazione, accompagnato da un funzionario di polizia, ha condotto dei sopralluoghi in cinque studi di professionisti milanesi con cui “ero stato con Carmine De Stefano. Uno era vicino alla Zecca dello Stato. Uscendo mi disse ‘dimentica che siamo stati qua’”. Il teste ha poi spiegato il motivo per cui si sono recati in questi luoghi, ovvero la necessità di riciclare denaro con metodi vecchi (scontrini in sovrannumero o schedine vincenti) non si riusciva a eliminare. “Loro avevano società in cui, come diceva l’avvocato Tommasini, ‘non può entrarci neanche il presidente della Repubblica’. - ha ricordato - La maggior parte dei soldi di Milano venivano portati in Vaticano da Giuseppe De Stefano e Franco Coco, vestiti da preti”.
Fiume ha poi parlato di quando dal Consorzio arrivò loro un’ambasciata dove si diceva di non sequestrare il figlio di Silvio Berlusconi. “Io ero con Peppe De Stefano, Peppe Morabito ed Antonio Papalia quando da Cosa nostra arrivò un’ambasciata ad Africo dove c’era scritto di non toccare il figlio di Berlusconi. - ha detto - I palermitani ci dissero di non sequestralo perché questo ci fa i regali. Ci fu anche una lite perché c’era chi voleva farli questi sequestri, ma Papalia disse che il figlio di Berlusconi non si doveva toccare”. E il discorso si chiuse lì.
L’udienza del processo è stata rinviata al prossimo 13 giugno.

Foto originale di copertina © Getty Images

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