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mormile umberto effIl collaboratore di giustizia parla al processo ‘Ndrangheta stragista
di Francesca Mondin
“Mormile è morto perché non si è voluto corrompere, non era un corrotto”. Lo ha ripetuto più volte in aula il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini sentito al processo Ndrangheta stragista dove l’accusa, rappresentata dal sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, ha portato sul banco degli imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, considerato all’epoca capo mandamento della ‘Ndrangheta reggina, per gli attentati ai carabinieri del ’94 in cui morirono gli appuntati Fava e Garofalo. Nel carcere di Opera il boss Domenico Papalia “quando usciva con i permessi aveva contatti con la ‘ndrangheta” e di questo l’educatore Mormile, ucciso da sei colpi di pistola l’11 aprile 1990, “si era accorto e faceva dei rapporti negativi al Tribunale di Sorveglianza” ha detto il pentito. Per zittire Mormile la ‘Ndrangheta gli avrebbe quindi offerto dei soldi: “Una volta Antonio Schettini e Diego Rechichi sono andati ad offrirgli 30 milioni” per chiudere questa storia ma “lui si rifiutò”.
Ma l’educatore rispose anche altro. “Non sono dei servizi” avrebbe detto ai suoi interlocutori. Con quelle poche parole, ricordate in aula da Foschini rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, “si è decretata ancora di più la morte. Perché sapeva dei servizi segreti. Antonio Papalia lo diceva che erano pure in carcere. Lui diceva che potevano entrare anche in carcere da suo fratello”.
Dichiarazioni che capovolgono completamente quanto viene scritto nella sentenza di condanna all’ergastolo di Domenico Papalia laddove si dice che “l’omicidio doveva essere consumato nell’interesse di Domenico Papalia” in quanto “l’educatore non aveva aiutato il Papalia ad accedere a dei benefici carcerari”.
Umberto Mormile, dunque, era uno che dava fastidio. Antonio Papalia era molto arrabbiato - ha aggiunto Foschini - ed anche se i servizi ci aiuterebbero a far uscire mio fratello, se questo ci blocca con le relazioni non può uscire mai. Anche i servizi erano bloccati perché le relazioni negative non è che erano sparite. Le relazioni andavano dirette al direttore del carcere e al tribunale di sorveglianza”.
Di lì a poco arrivò la condanna a morte da Domenico Papalia, Nino Cuzzola e Antonio Schettini lo bloccarono ad un semaforo e lo uccisero” ha concluso Foschini. Antonio Papalia poi avrebbe fatto rivendicare l’omicidio dell’educatore carcerario con la sigla "Falange armata” e così avvenne attraverso una telefonata di Totò Brusca - "uomo di fiducia di Papalia" - ad un giornale. Sigla che emerse per la prima volta proprio nel delitto Mormile e che negli anni successivi ha accompagnato stragi e delitti che insanguinarono l’Italia negli anni ’90. L'indicazione sulla sigla sarebbe arrivata dai servizi segreti per far pensare ad un fatto terroristico e non mafioso.

Il patto con i servizi
Quel rapporto diretto con i servizi, risaputo all’interno della ‘Ndrangheta, sarebbe stato, dunque, antecedente alla morte di Mormile. “Da quello che raccontavano - ha proseguito il collaboratore di giustizia - si parlava che loro, i servizi, avevano promesso che non ci sarebbero state più retate nell’Aspromonte ma in cambio non dovevano esserci più i sequestri di persona. E se qualche sequestro era stato fatto si doveva liberare”. Non solo. Ci sarebbe stato un filo diretto tra gli 007, Domenico Papalia e il  boss calabrese Antonio D’Agostino. Quest’ultimo, secondo quanto ribadito in aula da Foschini, avrebbe violato gli accordi di un altro patto con i servizi e fu ucciso nel 1976 a Roma. Di quell’omicidio poi Domenico Papalia si è dovuto dichiarare colpevole” ha continuato Foschini raccontando che il fratello avrebbe confermato l’innocenza di Domenico dicendo: “Non lo ha ammazzato mio fratello perché era suo amico, ma lo ha dovuto dichiarare per i servizi segreti che gli hanno detto: ‘tu lo dichiari questo omicidio e poi noi ti facciamo uscire non ti preoccupare, ti daremo la libertà e i permessi'”. Permessi che poi, ha ricordato il collaboratore di giustizia, “venivano dati” finché non “si è messo di mezzo questo educatore di Opera” e lì “sono stati bloccati”.
Per tutta questa serie di vicende i fratelli Papalia “non erano contenti” anzi “avevano quasi paura” dei servizi.
Ma ai magistrati l’ex santista ha raccontato anche altri dettagli dei presunti rapporti della famiglia Papalia con gli 007. “Da quello che so Antonio Papalia andava a Roma per incontrare due dei servizi - ha aggiunto - Ce lo diceva a noi che eravamo affiliati. Poi so che si incontravano con Domenico Papalia. Se entravano in carcere non lo so. Ma queste cose le sapevo da prima ancora che entrassi nella ‘Ndrangheta, quando gestivo la latitanza di Rocco Papalia.
Infine, sempre rispondendo alle domande del pm, ha anche parlato del periodo in cui Papalia era carcerato a Parma. Anche al tempo il capomafia otteneva dei permessi per uscire dal carcere ma il dato inquietante è che “al carcere di Parma entravamo tutti”. E così ha raccontato anche un episodio quantomeno anomalo: “Una volta andai nella cella del mio rivale, Emilio Di Giovane. Andammo in tre per dirgli che una zona non era più la sua. Andai in cella, lui aveva la vestaglia, e c’era pure lo zio suo che non era carcerato. Io Foschini mi chiamo mica Di Giovane, con loro non c’entravo niente e mai avrei potuto avere un permesso”.
Il pentito ha anche parlato di una riunione a Botricello, nel catanzarese, convocata da Franco Coco Trovato dopo le stragi del ’92, alla presenza dei capi delle famiglie Bellocco, Pesce, Papalia, insieme a Luigi Mancuso e Diego Richichi. “Io ero presente - ha spiegato Foschini - in quanto braccio destro di Coco Trovato”. Oggetto della riunione furono anche le bombe di Capaci e via d’Amelio: “Erano tutti un po’ contenti, ma anche un po’ ‘ingrifati’ (arrabbiati, ndr)” ha ricordato il teste, spiegando le tensioni esistenti tra calabresi e palermitani: “Con Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca si dovevano incontrare perché dovevano finire le stragi a Palermo - ha raccontato Foschini - dicevano ‘se voi fate casino paghiamo anche qui in Calabria’” riferendosi al maggiore stato d’allerta al quale i clan sarebbero andati incontro, e che avrebbe reso più difficile anche la prosecuzione degli affari. Franco Coco Trovato e Antonio Papalia erano preoccupati”, ha specificato Foschini, poiché erano già in corso “indagini su di loro” e dunque sarebbero potuti finire “nell’occhio del ciclone”.
Il processo è stato rinviato al 27 aprile 2018, ore 9.30.

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