Nell’arringa salvati Tinebra e La Barbera, ma il Borsellino quater racconta altro
Vincenzo Scarantino è "un calunniatore" che “non è mai stato indottrinato" né "dai poliziotti né dai magistrati". A parlare è l’avvocato Giuseppe Panepinto, legale di Mario Bo, uno dei tre poliziotti accusati di concorso in calunnia aggravata nel processo per il depistaggio sulla strage di via d’Amelio.
La Procura di Caltanissetta ha chiesto al Tribunale presieduto da Francesco D'Arrigo la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo e nove anni e mezzo per Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Al centro della sua ultima arringa fatta dinnanzi alla corte di Caltanissetta, Panepinto ha posto ancora una volta la figura dell'ex pentito. “Nessuno, né poliziotti né pm, ha indotto Vincenzo Scarantino a dire il falso - ha detto Panepinto -. Non c'è stato alcun comportamento, neppure dei magistrati, che abbiano indotto Scarantino a fare dichiarazioni false. Qui ci troviamo in presenza di calunniatori seriali che continuano a strumentalizzare un processo penale per farne ciò che ritengono opportuno”. Considerazioni che, tra scivoloni e superficialità, fin da subito hanno reso bene l’idea del tipo di arringa intavolata dall’avvocato. Ma procediamo con ordine e facciamo chiarezza.
Scarantino e la sua preparazione
Parlando di Scarantino, Panepinto ha fatto riferimento ad un “interesse a scaricare su altri le proprie responsabilità”, perché se non lo avesse fatto “avrebbe dovuto scontare una pena, e non avrebbe potuto beneficiare della prescrizione”. Dunque, “c’è un interesse a fare queste dichiarazioni false”. E ha ribadito che Vincenzo Scarantino, prima delle udienze dibattimentali, "non veniva indottrinato, come dice l'accusa, ma era un normalissimo studio di preparazione per l'udienza". Per avallare la sua tesi l’avvocato ha voluto usare in maniera alquanto approssimativa, alcune dichiarazioni di Nino Di Matteo, consigliere togato al Csm. Un “modo, il suo, per cercare di allontanare ogni tipo di responsabilità del proprio assistito.
“Il collaboratore si prepara, non è un illecito, forse una pratica discutibile dal punto di vista deontologico ma non è un illecito - ha sottolineato l’avvocato Panepinto -. Di Matteo ha detto che ha sempre preparato i suoi collaboratori. Ad esempio, dicendo: ‘Stia attento, ripassi le sue dichiarazioni' perché in sede di controesame potrebbe ricevere delle contestazioni". Un’affermazione troppo superficiale e di certo decontestualizzata.
Di Matteo, in realtà, durante la sua deposizione nel processo in questione (risalente al 4 febbraio 2020), anticipando le domande sul tema delle intercettazioni del telefono di Scarantino mentre si trovava in località protetta, disse: “Dopo il verbale dell’ottobre ’94 pensavamo che avesse l’obiettivo di essere smentito, fu uno scrupolo per monitorarlo". E poi ancora: "Mai nessuno con me si è permesso di dire che volevano aggiustare qualche dichiarazione. Quando si parla di preparazione di un pentito bisogna dire che è un'attività normale, seguita da tutti. Io ho preparato Cancemi, Ferrante, Onorato, tutti quelli che smentivano Scarantino. Preparare significava semplicemente dire 'giorno tot comparirà davanti alla corte d'Assise, gli argomenti saranno questo, questo e quest'altro, dica la verità, né una cosa in più né una meno, esponga i fatti con chiarezza'. Si chiedeva al collaboratore di essere chiaro, sincero, lineare". Nessun invito a ripassare le proprie dichiarazioni, dunque, ma si sa, esponendo i fatti grossolanamente si rischia di scivolare.
Strage di via D'Amelio © Imagoeconomica
Panepinto: "Su Tinebra comportamento immorale"...
Successivamente, l'avvocato Panepinto, ha parlato di quei soggetti in cui, a suo dire, sarebbe stato "denigrato" in questo processo. "Nel corso di questo processo abbiamo sentito magistrati che hanno segnato la storia d'Italia, si sono susseguiti nomi eccellenti. Gente che ha fatto indagini su Tangentopoli, persone che hanno smembrato Cosa Nostra. E non è consentito, anche solo su un piano morale, che si getti discredito su soggetti che non sono presenti e non si possono difendere o su gente che è morta e che non può difendersi”. E poi, ecco il nome di Giovanni Tinebra. “Sul dottor Tinebra ne hanno dette di tutti i colori - ha continuato Panepinto -. Lui che ha fatto tremare il palazzo di giustizia di Caltanissetta e mezza Italia con le sue indagini. Non si possono accusare coloro che non possono difendersi. Prefetti, questori che hanno servito lo Stato per anni, sospettati di essersi messi d'accordo per coprire le malefatte degli imputati". E ancora: "Non è moralmente corretto dire che Tinebra volesse insabbiare le indagini. Bisogna dirle queste cose”, ha aggiunto rivolgendosi al Tribunale.
Tuttavia non si può dimenticare che il depistaggio viene messo nero su bianco in una sentenza, quella del Borsellino quater, che rappresenta il basamento da cui ripartire anche per questo processo, in cui si mettono in evidenza le responsabilità di uomini della polizia, ma anche quella condotta “decisamente irrituale” del Procuratore Tinebra nel chiedere la collaborazione nelle indagini di Bruno Contrada, all’epoca numero tre del Sisde, poi arrestato con l’accusa di concorso esterno dai pm di Palermo nel dicembre del 1992, già nel giorno immediatamente successivo alla strage di Via D’Amelio. In tal senso va sottolineato come la normativa vigente all'epoca, ancor già tenuto conto che Contrada non rivestiva la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura. Guardando alle responsabilità del Procuratore capo nisseno è un fatto, inoltre, che quella richiesta fece seguito alla "mancata audizione del dottore Borsellino nel periodo dei 57 giorni intercorso tra la strage di Capaci e la sua uccisione, benché lo stesso magistrato avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il proprio contributo conoscitivo, nelle forme rituali, alle indagini in corso sull’assassinio di Giovanni Falcone, cui egli era legato da una fraterna amicizia".
…E anche su La Barbera
L’avvocato Giuseppe Panepinto, infine, nel corso della sua arringa ha preso anche le difese dell’allora Capo della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera (deceduto), che guidava il Gruppo investigativo Falcone e Borsellino, di cui facevano parte i tre poliziotti imputati, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Secondo Panepinto, anche su La Barbera “ne sono state dette di tutti i colori, compreso che era un uomo vicino alla mafia". "Certe cose non si possono ascoltare in un'aula di giustizia - ha continuato -. A maggior ragione su una persona con una brillante carriera come quella di Arnaldo La Barbera. E invece in questo processo diventa una persona ‘a libro paga della mafia’”. E ancora: "Non possiamo condannare sulla base di sospetti, abbiamo bisogno di prove, mentre qui cosa accade? In questo processo tutti i testimoni, nel momento in cui si sono allontanati dall'impianto accusatorio, sono stati accusati di essere conniventi o di voler proteggere gli imputati, o di fare falsa testimonianza".
Ancora una volta vale la pena ricordare ciò che dice il Borsellino quater, ovvero che quel depistaggio, costato la condanna all'ergastolo a sette innocenti poi scarcerati e scagionati nel processo di revisione, viene indicato dalla Corte come "un proposito criminoso determinato essenzialmente dall'attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri". E proprio sul gruppo degli investigatori dell'epoca, guidato da La Barbera, vengono accesi i riflettori. Secondo i giudici sarebbero stati loro a indirizzare l'inchiesta costruendo i falsi pentiti e la motivazione non si sarebbe celata dietro un'ansia di ottenere risultati nella ricerca dei responsabili del delitto del 19 luglio 1992. Lo Scarantino viene infatti definito come "un soggetto psicologicamente debole che era rimasto per un lungo periodo di tempo (quasi un anno e nove mesi) in stato di custodia cautelare proprio a seguito delle false dichiarazioni rese dal Candura sul suo conto, ed era stato, frattanto, oggetto di ulteriori propalazioni, parimenti false, da parte dell’Andriotta, il quale millantava di avere ricevuto le sue confidenze durante la co-detenzione. Egli quindi, come ha evidenziato il Pubblico Ministero, aveva 'maturato la convinzione che gli inquirenti lo avessero ormai 'incastrato' sulla scorta di false prove'". Secondo la Corte dopo un lungo periodo nel quale lo Scarantino aveva professato inutilmente la propria innocenza, le sue residue capacità di reazione vennero infine meno a fronte dell’insorgenza del proposito criminoso portato avanti da quegli investigatori.
Così furono compiute "una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell'agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte".
Ecco, arrivati a questo punto (in estrema sintesi) sarebbe bene che anche l’avvocato Panepinto la smettesse di dirne “di tutti i colori” e magari, quando può, rileggesse quanto attestato dalla quinta sezione penale della Suprema Corte che ha confermato le condanne del Borsellino quater.
Nel frattempo non ci resta che aspettare le future arringhe difensive che proseguiranno giovedì 9 giugno. Dopo le conclusioni per la difesa di Bo, sarà la volta della difesa di Mattei e Ribaudo, rappresentati dall’avvocato Giuseppe Seminara. Il legale interverrà anche il 14 e il 17 giugno. Poi due settimane di stop. Salvo imprevisti ai primi di luglio ci sarà la sentenza di primo grado.
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