L'ispettore di polizia, oggi in pensione, sentito al processo sul depistaggio
di Aaron Pettinari
"Nel '92 prestavo servizio alla Criminalpol di Catania. Il giorno della strage ero a casa e dopo un paio d'ore mi dissero che all'indomani io ed i colleghi Francesco Arena ed Antonio Carambia dovevamo andare a supportare da aggregati la Criminalpol di Palermo. Quando arrivammo in via d'Amelio ricordo ancora i fumi delle macchine, i pezzi delle auto ed i palazzi sventrati. Visti gli ingenti danni pensammo immediatamente ad un utilizzo di un telecomando per la strage. Notammo anche il giardino nei pressi, ma lo escludemmo. Accanto al giardino, sulla destra, c'era un palazzo in costruzione, definito nella struttura ma non completato". E' così che ha avuto inizio la testimonianza dell'ispettore in quiescenza Mario Ravidà al processo sul depistaggio sulla strage del 19 luglio 1992 che vede imputati i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra.
Ancora oggi quell'edificio, anche noto come complesso "Iride", cioè il palazzo dei “fratelli Graziano“ a 11 piani all’epoca in costruzione, è ben visibile da via d'Amelio e presenta una visuale perfetta sulla strada in cui furono uccisi Paolo Borsellino e gli uomini della scorta.
Ravidà, chiamato a testimoniare da Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino ed altri nipoti del giudice, ha quindi proseguito nel racconto di quel sopralluogo del 20 luglio 1992: "Carambia raccolse le testimonianze di chi abitava nei palazzi. Io ed il collega Arena ci guardammo attorno. Eravamo convinti che chi avesse premuto il telecomando non poteva essere vicino perché sarebbero stati colpiti dai detriti dell'esplosione. Guardammo quel palazzo in costruzione e ci recammo sul luogo. Ricordo perfettamente le delimitazioni di lamiera dei lavori in corso. C'era una porta leggermente aperta e siamo entrati. Il collega ricorda anche la presenza di una Mercedes parcheggiata. Dentro il palazzo incontrammo una persona che scendeva le scale. Disse di essere il costruttore del palazzo e che si trovava assieme al fratello che era all'ultimo piano. Chiedemmo i documenti di entrambi. Arrivammo e trovammo un piccolo ufficio di cantiere con una scrivania ed un telefono appoggiato sopra. Mi affacciai al terrazzo e notai la vista diretta e pulita su via d'Amelio. Notai anche una lastra grande appoggiata al parapetto e delle cicche di sigarette raccolte, come se qualcuno avesse fumato in quel posto".
L'ex ispettore ha dunque ricordato che al controllo dei nominativi la centrale operativa disse loro che i due soggetti avevano precedenti rilevanti, anche di mafia. "Ci fu detto che sarebbero giunti sul posto dei colleghi in ausilio - ha proseguito - Così scendemmo. A metà scale arrivarono dei colleghi della Criminalpol di Palermo che dissero che avrebbero pensato loro alla situazione. Noi riferimmo quel che avevamo visto, del posto eccezionale con la visuale sul luogo della strage, ed anche degli elementi che avevamo raccolto. I due soggetti si chiamavano Graziano ed entrambi erano forniti di telefonini. Prendemmo i numeri telefonici. Tutti questi elementi li inserimmo in una relazione di servizio. Specificammo tutto quel che poteva esser utile per uno sviluppo investigativo e la consegnammo al dottor Di Costanzo, a capo della Criminalpol (vice era Tucci ed entrambi sono deceduti, ndr). Il giorno dopo ci dissero che non avevano più bisogno di noi e che potevamo rientrare a Catania e per 18 anni non seppi più niente".
Per anni Ravidà è sempre stato convinto che su quegli elementi erano state compiute indagini. Poi, tornato a Palermo per deporre al processo Mori-Obinu, incontrò il giornalista Nicola Biondo al quale raccontò quel sopralluogo. "Quando dissi i nomi dei costruttori Biondo saltò in aria. Io di mafia palermitana non ero a conoscenza - ha aggiunto il teste - Noi non avevamo più saputo niente dopo la relazione di servizio e Biondo ci disse che di tutto ciò non si era mai saputo nulla. Tempo dopo fummo chiamati dalla Procura di Caltanissetta. I magistrati ci dissero che quella relazione non si trovava agli atti. Solo tempo dopo, da altri colleghi della Dia, appresi che fu ritrovata e che furono fatti accertamenti".
La telefonata anonima
Tra le "coincidenze" riferite da Ravidà anche un altro elemento. Quando andammo a testimoniare al Quater incontrai un collega del 113. Un centralinista. Mi disse che in concomitanza con la strage raccolse una telefonata anonima in cui si diceva che nel palazzo dei Graziano c'era un movimento strano di persone. Noi, quando andammo di lunedì, non trovammo nessun operaio. Figuriamoci come sarebbe dovuto essere di domenica. Tutto questo ci fece rabbia perché apprendemmo che della nostra relazione si perse traccia e sappiamo che i gestori telefonici dopo 10 anni distruggono i tabulati. Poi, quando riapparse la nostra relazione so di accertamenti sul fatto che poteva esser quello il posto dove fu azionato il telecomando e so che fu escluso, ma non sono a conoscenza delle indagini".
Nella giornata di ieri sono anche stati sentiti l'ispettore Massimiliano Domanico e il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Messina, Nicola Mazzamuto. Il primo ha riferito in merito alla relazione di servizio in cui si segnalava la denuncia presentata da Giuseppe Orofino (uno degli ingiustamente condannati per la strage) il 20 luglio 1992 in cui si riferiva del furto delle targhe avvenuto nella propria autocarrozzeria.
Il secondo, invece, compare in alcuni video registrati in via d'Amelio nel giorno della strage.
"La mia abitazione si trovava a circa 3-4 minuti dal luogo dell'attentato - ha riferito ieri in aula - Mi incontri con il giudice Tresoldi e sul luogo tra le persone vidi il giudice Ayala. Lui svettava". Il teste, sentito per la prima volta in un processo sulla strage del 19 luglio 1992, ha detto di essere giunto sul posto nella prima mezz'ora che ha seguito il boato, che "ancora non erano stati predisposti i cordoni di sicurezza" e di essere stato presente sul luogo del delitto per "meno di quindici minuti".
Mancino silence
Nel corso dell'udienza il Presidente del Tribunale Francesco D'Arrigo ha dato atto dell'invio alla Corte di una missiva con cui l'ex ministro Nicola Mancino spiega di non poter partecipare ad un'udienza in trasferta, adducendo un'impossibilità per ragioni di salute. L'avvocato Fabio Repici ha chiesto l'acquisizione del verbale reso da Mancino davanti ai magistrati nisseni durante le indagini preliminari del processo Borsellino quater. "Al quater si avvalse della facoltà di non rispondere (era sotto processo a Palermo per falsa testimonianza nel processo trattativa Stato-mafia, dove è stato assolto, ndr) - ha ricordato il legale - Mi sento di poter dire che anche nel proseguo non ci sarà una grande pulsione del testimone, che afferma di non saper nulla sulla trattativa, ad affrontare la trasferta. Io l'ho citato in quanto ministro dell'Interno pro tempore nel momento della strage e delle prime indagini, così come nel momento della creazione del gruppo Falcone-Borsellino. Tutti fatti oggetto di questo processo". Prossima udienza rinviata al prossimo 12 ottobre.
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