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di Aaron Pettinari
Il giornalista mediaset per la prima volta in aula: "Disse di aver accusato innocenti"


"Vincenzo Scarantino, il pentito del processo Borsellino, ritratta tutto e torna in carcere, mentre gli e' stato immediatamente revocato il programma di protezione. La clamorosa marcia indietro e' tutta in una telefonata di Scarantino alla madre, che risale a ieri, e il cui nastro è in possesso di uno degli avvocati della difesa, Paolo Petronio". Iniziava così il lancio di agenzia AdnKronos del 26 luglio 1995 in cui si dava atto della ritrattazione del picciotto della Guadagna, autoaccusatosi del furto della 126 utilizzata per la strage. E' da questo lancio di agenzia che ha inizio il racconto del giornalista Mediaset, Angelo Mangano, sentito ieri al processo che vede imputati l'ex ispettore di polizia Fabrizio Mattei, ora in pensione, Mario Bo, ex funzionario e oggi dirigente della polizia a Gorizia, e Michele Ribaudo, agente di polizia. I tre poliziotti fecero parte del cosiddetto gruppo investigativo "Falcone Borsellino" che si occupò delle indagini sulla strage di via d'Amelio e contro di loro l'accusa è di calunnia aggravata dall'avere favorito Cosa nostra.
Era la prima volta che Mangano saliva sul banco dei testimoni dopo che, nel 2013, era già stato sentito dagli agenti della Dia. Nel Borsellino quater, infatti, la sua audizione non fu ritenuta necessaria mentre venne comunque acquisito un dvd che riportava l'intervista rilasciata nel 1995 dal falso pentito e all'epoca trasmessa da "Studio Aperto" su Italia Uno.
"Ero ancora per strada la mattina del 26 luglio quando ricevetti una telefonata del direttore Paolo Liguori che mi disse del lancio di agenzia - ha raccontato Mangano rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto Paci - Ci confrontammo sul punto e decidemmo di verificare la notizia. Chiamai la segreteria del procuratore Tinebra, ma mi dissero che era impegnato e che comunque nessuno era in condizione di poter smentire o confermare quella circostanza. Feci la stessa cosa col gruppo Falcone-Borsellino della mobile di Palermo, sapevamo che Scarantino era gestito da loro, ma anche lì buco nell’acqua, La Barbera era impegnato". La ricerca di Mangano non si interruppe neanche quando uscirono due smentite della Procura e del Ministero degli Interni. Entrambe, a detta del teste, sarebbero uscite sull'Ansa ma, come contestato dall'avvocato Rosalba Di Gregorio, nell'archivio dell'agenzia è possibile rintracciare solo quella della Procura nissena. "Sono sicuro che fossero due agenzie e non un fax perché le vidi al Pc - ha proseguito Mangano - A me la storia di Scarantino non mi convinceva del tutto perché io vivevo in quello stesso quartiere e non lo facevo uno capace di fare certe cose. Però all'epoca la fonte era autorevole e non avevo elementi per non fidarmi di quello che sosteneva La Barbera. Comunque decidemmo di andare avanti. Così con una troupe mi recai a casa della famiglia Scarantino. C'era la madre del finto pentito che mi fece entrare e mi fece sentire una registrazione fatta con un vecchio registratore a nastri poggiato sulla cornetta del telefono, ma non si capiva molto. Tenete conto anche di come parlava Scarantino. Così dissi che se lui avesse richiamato a casa, di dirgli di cercarmi se avesse voluto parlare con un giornalista, e lasciai il mio numero - ha raccontato il giornalista -. La madre era contenta, voleva che si sapesse che lui aveva ritrattato, la famiglia voleva la sponda della stampa ma credo che mai nessuno chiese loro un’intervista".

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Arnaldo La Barbera


La telefonata del picciotto della Guadagna fu quasi immediata, quando ancora non era giunto in redazione. "Voleva parlare così gli dissi che avremmo registrato appena fossi arrivato nella redazione palermitana di Mediaset - ha detto Mangano proseguendo il suo racconto di quella giornata - Quando Scarantino chiamò ricordo che era molto agitato. Subito gli chiesi di questa sua intenzione di ritrattare: mi confermò che aveva detto delle bugie accusando delle persone innocenti. Chiesi perché. E lui mi parlò del carcere di Pianosa, lo avevano torturato, usò tutta una serie di termini, 'mi fecero urinare sangue, mi facevano iniezioni di penicillina'. Chiesi chi gli aveva fatto quelle cose lui disse: 'La Barbera'. Ma siccome c'erano due La Barbera nel gruppo Falcone e Borsellino io gli chiesi se si riferiva al questore e lui mi disse di sì. Giornalisticamente a me bastava quello, quella registrazione era abbastanza, non chiesi altro".
Rispondendo alle domande di Paci, Mangano ha anche raccontato del suo stupore per la totale assenza di colleghi che in quel momento seguivano la notizia, tanto che lui fu l'unico ad andare dalla famiglia Scarantino. Ma le "stranezze" in quel giorno furono anche altre. Infatti, appena conclusa la registrazione, il portatile del giornalista Mediaset incominciò subito a squillare. "Il numero era inequivocabile - ha ricordato il teste - era la Questura. Misi subito in relazione il fatto che Scarantino mi avesse chiamato e il fatto che fosse possibile che il suo telefono fosse sotto controllo. Ero ancora in sala rwm, in redazione. Decisi di non rispondere. Nemmeno dieci minuti dopo il centralinista della sede mi chiamò per dirmi che mi cercava Arnaldo La Barbera, ho lasciato detto che ero in sala rwm per preparare un servizio per la sera. Ormai erano le 16, i tempi erano stretti. Perché non risposi? Temevo che bloccassero tutto".
Il primo video andò in onda e, dopo un consulto con il direttore Liguori e l'ufficio legale, fu tagliata solo l'unica parte in cui si indicava La Barbera come il responsabile delle torture che necessitava comunque di una verifica.
Nonostante la notizia "esplosiva" l'unico collega che chiamò Mangano fu Francesco La Licata e il giorno dopo solo alcuni giornali nazionali diedro la notizia. "La Licata, era stato mio capo cronista, mi insegnò il mestiere e a lui dissi come arrivai a quell'intervista. Gli chiesi anche consiglio se andare a parlare con La Barbera che mi cercava. Poi il giorno dopo leggendo i giornali rimasi stupito che praticamente quasi nessuno diede risalto alla notizia. La Licata fece un articolo su La Stampa con un titolo che mi sconvolse: 'Scarantino: su via d’Amelio ho mentito. Ma dietro la ritrattazione ci sarebbe la mano della mafia'. Io mi sono sentito crollare il mondo addosso, a scriverlo era stata una persona che mi conosceva, che sapeva come lavoravo, e che mi dava 'dell’ufficio stampa di Cosa nostra'. Questo articolo l’ho tenuto appeso sopra la mia scrivania per vent’anni, l’ho staccato solo quando sono arrivate le dichiarazioni di Spatuzza. Da quel momento è iniziata contro di me la macchina del fango e anche tra colleghi vidi che c'era una certa diffidenza nei miei confronti".

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Il giornalista Francesco La Licata


Il documento sparito e poi ritrovato
Il giorno successivo alla messa in onda del primo servizio Mangano, per il tg delle 12, ne preparò un secondo in cui Scarantino parlava delle vessazioni subite nel carcere di Pianosa. Poi andò in "ferie forzate", concordate anche con l'ufficio legale di Mediaset e la redazione.
Mangano ha raccontato che in quel giorno, tornato a casa, il portiere gli riferì di una strana visita di tre poliziotti in borghese che, senza esibire il tesserino, chiesero informazioni su di lui, sua moglie ed anche i suoi figli di appena cinque e tre anni. "Questo fatto mi lasciò inquieto - ha detto il teste - così come quello che accadde dopo al rientro dalle ferie quando la Procura di Caltanissetta blindò completamente le cassette con i servizi ed i master. Non ho mai visto l'ordinanza ma si diceva che da quel momento erano a disposizione della Procura e che bisognava cancellare da tutti i computer e dai nastri tutto quello che riguardava Scarantino per proteggere il collaboratore di giustizia. Ancora oggi se chiamo l’ufficio Mediaset e chiedo di usare delle immagini di Scarantino vengo frenato, c’è un vincolo legale, non è cambiato nulla. Questa ordinanza devono averla mandata direttamente a Milano - ha aggiunto -. Ho scoperto anche che il master originale era stato portato via da due funzionari del gruppo Falcone-Borsellino che si erano presentati il 27, dopo la messa in onda dell’ultimo servizio. Non ho mai saputo chi fossero". Nonostante ciò, quando Mangano fu sentito dalla Dia riuscì a consegnare un Dvd con all'interno tutto quello che riguardava questa vicenda Scarantino e il motivo è presto detto: "Quello che noi chiamiamo un tecnico disubbidiente, a Milano, decise di conservare una copia di quello che era andato in onda e che fu poi sequestrato, salvandolo in un server offline. Quel salvataggio riemerse solo vent'anni dopo quando un altro giornalista, Massimiliano Di Dio, che seguiva il Borsellino quater, apprese della storia del mio vecchio servizio e chiamò Milano. Ebbe la fortuna di parlare al telefono proprio con quel tecnico disubbidiente che tirò fuori i due servizi completi".

Mutolo e la dissociazione
Dopo Mangano ad essere sentito in videoconferenza è stato il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. Quest'ultimo ha riferito ancora una volta di un dialogo in cui sentì Borsellino, fuori di sé, quando sentì parlare di dissociazione. Il fatto avvenne a margine di un interrogatorio: "Ricordo che diceva 'ma questi sono pazzi, che vogliono fare?'. C'era in quel periodo questa cosa della dissociazione che girava, che si era saputa. Si era sparsa la voce che nelle carceri c'erano persone che erano pronte a fare come un armistizio, volevano dissociarsi dai mafiosi e in cambio non pagavano i reati. Borsellino era nettamente contrario. Chi era coinvolto? C'era un certo Greco, Pippo Calò, ma mi pare anche i camorristi. Erano autorizzati ma non so da chi".
Mutolo ha poi parlato degli aggiustamenti per il processo Basile ma anche dell'ufficiale dei carabinieri Antonio Subranni. "Io non l'ho mai conosciuto - ha detto - ma posso dire che quando con Riccobono, nel 1974, eravamo latitanti nella zona di Cinisi sapevamo che potevamo stare tranquilli con i carabinieri perché erano in buoni rapporti con Badalamenti. Poi ho saputo che c'era là anche Subranni. Ma al tempo avevamo questa informazione generica". Per evitare un esame lungo il tribunale di Caltanissetta, su richiesta del pm, ha acquisito il verbale di interrogatorio reso dal pentito Gaspare Mutolo al cosiddetto processo Borsellino quater. Nel verbale, Mutolo raccontava di aver riferito al giudice Paolo Borsellino che sia l'ex pm Domenico Signorino, poi morto suicida, sia l'ex numero due del Sisde Bruno Contrada erano stati "avvicinati" da Cosa nostra. Il processo è stato rinviato al 5 aprile.

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Il magistrato Paolo Borsellino © Shobha


Foto © Imagoecono
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