di Karim El Sadi
Per la prima volta in aula l’ex poliziotto riporta le parole di Giovanni Peluso: dalla volontà dei boss di uccidere Guarnotta fino alla 007 libica coinvolta nella strage
“Perché non ho parlato finora? Non conoscevo il sistema, se lo avessi fatto sarei stato un uomo morto”
E’ passato oltre un anno da quando il pentito Pietro Riggio ha parlato per la prima volta ai pm nisseni delle vicende misteriose che ruotano attorno alla strage di Capaci. Dichiarazioni le sue che pare stiano dando corpo a quelli che al momento i magistrati possono solo definire “sospetti” o “ipotesi”.
Ieri il 54enne ex agente della polizia penitenziaria e mafioso del clan di Caltanissetta è stato sentito per la prima volta come testimone "de relato" al processo Capaci bis, nel quale sono imputati i boss Salvo Madonia, Lorenzo Tinnirello, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo e Vittorio Tutino. Davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta Riggio, collegato in video conferenza, ha avuto modo di riportare una per una tutte le delicate informazioni a lui snocciolate dall’ex collega poliziotto Giovanni Peluso, ora pure lui indagato per la strage anche smentisce categoricamente ogni coinvolgimento, nel periodo in cui erano entrambi al carcere di Santa Maria Capua Vetere.
A partire dalla mano che azionò il fatidico telecomando collegato ai 500kg di tritolo nascosti nel viadotto sotto l’autostrada Capaci-Palermo. Quella mano secondo il collaboratore, sempre in riferimento alle parole dell’ex poliziotto Peluso, non era della mafia, ma di sogetti esterni ad essa.
"Tu sei sicuro che a premere il telecomando della strage fu Brusca?' - gli avrebbe domandato Peluso durante una conversazione - e ho dedotto che non avesse premuto Brusca, io mi sentii raggelare perché era una verità che si sapeva cioè che fosse stato Brusca e la mafia. In quel momento, invece, capii che oltre a loro c'erano altre persone che si erano interessate di questa situazione. Capii che mi trovavo in pericolo e che stavo giocando con un gioco più grande di me". Poi ha aggiunto: "Sono deduzioni che ho fatto io dopo quanto mi disse Peluso". Su questa linea, quella della possibile collaborazione di soggetti esterni a Cosa nostra nella strage che tolse la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti di scorta, il collaboratore di giustizia ha riferito del coinvolgimento di una "donna, sui 35-40 anni, appartenente ai servizi segreti libici”. "Mi ricordo che Peluso si accompagnava con una donna - ha aggiunto - mi disse che era una persona vicina ai servizi segreti libici" e ha ricordato di avere saputo che la compagna di Peluso "apparteneva ai servizi libici" così come “la suocera che svolgeva servizio all'ambasciata libica". "C'era un collegamento di veridicità in quello che mi diceva”, ha sostenuto in aula il pentito. Collegamento di veridicità che potrebbe invece essere fatto per quanto concerne la presenza di tracce genetiche di Dna appartenenti a una donna rinvenute su alcuni reperti recuperati dalla polizia scientifica (un sacchetto di carta, una torcia elettrica, un tubetto di mastice marca Arexons e dei guanti di lattice) nei pressi del luogo dove avvenne “l'Attentatuni”. Misteri che si aggiungono a misteri.
Il giudice (oggi in pensione) Leonardo Guarnotta
Guarnotta nel mirino di Cosa nostra
In aula il collaboratore di giustizia Riggio ha riferito anche quanto apprese da Peluso nel 2000 sulla volontà di Cosa nostra di eliminare il giudice Leonardo Guarnotta, ex membro del pool antimafia di Antonino Caponnetto e all’epoca presidente della corte che stava giudicando il fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri per concorso esterno a Cosa nostra. "Peluso - ha detto Riggio rispondendo alle domande dell'avvocato Salvatore Petronio - voleva essere coadiuvato in un attentato nei confronti di un giudice palermitano, il dottore Guarnotta. Le ragioni non me le disse, se non l'esigenza di rifugiarsi dopo l'attentato. Aveva anche fatto uno schizzo sull'abitazione del giudice. Io quel giorno stesso riferii dell'attentato al colonnello della Dia". Sul punto però rispetto al verbale reso ai pubblici ministeri, Riggio ha aggiustato un po' il tiro, in quanto ai magistrati aveva detto: "Peluso mi disse che la 'nostra organizzazione' aveva bisogno di fare favori alla politica quando ve ne era la necessità. Segnatamente mi disse che era stato incarico a uccidere il giudice Guarnotta e che a tal fine aveva già eseguito un sopralluogo nei pressi di un 'palazzo', ritengo fosse quello dove abitava il magistrato". L’omissione risiederebbe quindi sul passaggio dei favori alla politica.
Paura dei “pescecani”
La mole di informazioni in possesso di Pietro Riggio, anche se dovranno passare al vaglio della magistratura, è indubbiamente considerevole sia per quantità che per importanza.
Per questo motivo c’è una domanda che da settimane, ovvero da quando il suo nome è andato alla ribalta, alberga nella mente dell’opinione pubblica e non solo: perché parlare solo ora?
"Non ho parlato prima della strage di Capaci perché, purtroppo, ho avuto modo di conoscere il sistema dall'interno e se io ne avessi parlato prima oggi sarei un uomo morto...", ha spiegato l’ex poliziotto. “Quando ho redatto i verbali, in uno dei verbali, nell'ottobre 2008, ho citato un fatto ben preciso in cui ho fatto il nome del colonnello Pellegrini da lì è emerso uno spaccato". "Non fu frutto di fantasia, io ho fatto ritrovare anche la corrispondenza epistolare con i soggetti nominati", ha detto il collaboratore aggiungendo: "Io non faccio il bagno con i pescecani, altrimenti mi mangiano. Mentre se non ci sono i pescecani faccio il bagno, io lo dico con dati di fatto". E poi ha citato il pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che nel frattempo è deceduto, "che mi disse: 'Stai attento a parlare e se lo devi fare, fallo solo con la Procura di Firenze'. Ecco perché quando decisi di parlare scrissi alla Procura di Firenze".
Foto © Shobha
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