di Miriam Cuccu
“Abbiamo un diluvio di prove che ci portano a concludere che l’esplosivo usato per la strage di Capaci era nella totale disponibilità del mandamento di Brancaccio”. E che l’esplosivo “arrivava da residuati bellici inesplosi rimasti in fondo al mare, poi sconfezionati”. Prosegue davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta la requisitoria del pm Onelio Dodero al processo “bis” per l’”attentatuni” al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Il pubblico ministero sottolinea inoltre come la maggior parte della carica esplosiva utilizzata fosse fatta da una miscela di tritolo e T4, e che doveva essere utilizzato in altri attentati come quello, poi accantonato, contro l’attuale Presidente del Senato Piero Grasso.
L’ipotesi dell’uso del tritolo, “non in saponette, ma macinato”, afferma Dodero, “oltre che dagli accertamenti tecnici è avvalorata dal narrato di collaboratori di giustizia come Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca”, che hanno parlato di “esplosivo farinoso, fine e asciutto, di colore giallino nel quale vi rimaneva impressa l’impronta della mano”. Lo stesso tipo di materiale ritrovato poi nel deposito clandestino di Cosa nostra in contrada Giambascio, a San Giuseppe Jato. Sostanza, specifica il pm, “identica a quella travasata nella villetta di Antonino Troia” dove furono preparati i bidoncini, nonché “la medesima che Salvatore Biondino aveva procurato a Brusca da usare nelle prove esplosivistiche in Contrada Rebottone, nell’aprile ‘92”. Un “filo rosso che collega questa sostanza esplosiva agli attentati e ai progetti di attentato di Cosa nostra”.
Le fasi preparative: i contributi dei pentiti
“Quando Brusca assume l’incarico – spiega Dodero – si rivolge a Pietro Rampulla (esperto in esplosivi, ndr) e a Francesco Piediscalzi” che lavorava in una cava. Fu proprio quest’ultimo
a consigliare “un cunicolo stretto” per collocare l’esplosivo, nonché a “suggerire come confezionare la carica, in più contenitori, in modo da ottenere un effetto domino e da poter usare un solo detonatore”. Così, “grazie a Troia individuano quel cunicolo sottostante l’autostrada, il canale di scolo, dove viene collocato l’esplosivo”.
“La sostanza esplosiva che finisce nella prova esplosivistica, fornita da Salvatore Biondino – ha affermato il pm – assume valenza importantissima per la credibilità di Brusca, perché sia Mario Santo Di Matteo che Gioacchino La Barbera riconoscono che effettivamente è in Contrada Rebottone che avvenne la prova”. “Brusca non sapendo la provenienza aveva solo supposto, avendone parlato con Riina e Rampulla, che l’esplosivo visto nell’abitazione di Troia l’avesse la famiglia di Brancaccio e che provenisse da bombe usate da pescherecci nella pesca a strascico. Grazie però alle dichiarazioni dei collaboratori Giovanbattista Ferrante, Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina possiamo sostenere – asserisce il pm – che la sostanza venne recuperata e lavorata mediante macinazione da uomini del mandamento di Brancaccio e conferita a Capaci da Giuseppe Graviano”.
Ferrante, elenca Dodero, “è l’unico collaboratore di giustizia presente quando Graviano arriva nel casolare di Antonio Troia portando con sé quattro sacchi di esplosivo” che “verranno momentaneamente custoditi e poi conferiti, forse il giorno dopo, nell’altro immobile di Troia, il villino dove arriva Brusca con il suo esplosivo e vengono effettuate le operazioni di travaso”.
In quel villino, conclude il pm, “arrivano due sostanze: l’ANFO (Ammonium Nitrate Fuel Oil) e l’esplosivo farinoso”, cioè il tritolo derivato dallo sconfezionamento di residuati bellici.
“Spatuzza – prosegue Dodero – afferma che tutta l’attività di macinatura dura complessivamente due o tre settimane, dall’11 aprile ‘92 alla fine del mese o ai primi di maggio. Ha aggiunto che nel corso dell’operazione arriva Fifetto Cannella e gli chiede i famosi 10 chili da consegnare a Graviano” che poi servirono per la prova esplosivistica di Brusca. Quindi, conclude Dodero “Giuseppe Graviano ha la disponibilità dell’esplosivo già dall’aprile ‘92”. In un secondo momento, riprende, “Cannella torna da Spatuzza” per farsi consegnare “tutto l’esplosivo macinato. Spatuzza dice di aver preparato due o più sacchi che finiscono nel baule della vettura di Cannella” e “racconta di aver seguito la vettura di Cannella e poi, seguendo le sue istruzioni, di essere tornato indietro”. È a questo punto che si inserisce il racconto del pentito Fabio Tranchina, che dichiara come “quindici o venti giorni prima dell’attentato aveva accompagnato Giuseppe Graviano alla rotatoria del Motel Agip” dove sono stati raggiunti “da Fifetto Cannella. Graviano scende dal veicolo e si mette alla guida della vettura di Cannella, allontanandosi, da solo, in direzione Trapani”. Ma prima il boss “alza il baule insieme a Cannella e gli chiede ‘hai preso tutto?’” ricevendo una risposta affermativa. E Tranchina, aggiunge il pm, “dice di aver visto un sacco nero della spazzatura al limite del baule”, lo stesso “che Spatuzza aveva preso per infilarci i sacchi dell’esplosivo”. Secondo Dodero si tratta dunque del “dipanarsi della sequenza di un unico episodio”.
Ma dove si dirige Graviano? È il pentito Ferrante a rivelarlo, chiarisce il pubblico ministero: “Ferrante descrive l’arrivo di Giuseppe Graviano, con il tritolo, sulla stessa auto descritta da Tranchina, una Volkswagen polo blu”.
La pista dei residuati bellici
L’ipotesi dello sconfezionamento dei residuati bellici per ottenere il tritolo, espone Dodero, “diventa certezza dal 1995, quando il mafioso Pietro Romeo decide di collaborare, indicando il luogo in cui Cosimo Lo Nigro (imputato in questo processo insieme a Lorenzo Tinnierllo, Giorgio Pizzo, Salvo Madonia e Vittorio Tutino, ndr) custodisce gli esplosivi” presi insieme a lui sulla spiaggetta di Sant’Elia. Si trattava di “125 chili di sostanza di colore giallo sabbia in parte già macinata e ridotta in polvere, il resto suddiviso in 140 pezzi”. Tritolo, dicono i consulenti, i quali “accertano che i pezzi derivavano da tre cariche di forma cilindrica con base piatta, sommità arrotondata e un foro assiale”. “Pertanto – commenta Dodero – non potevano che essere di origine bellica”. Solo due delle cariche sono di fabbricazione italiana, composte da puro tritolo.
“Quando Spatuzza – ricorda il pm – spiega che in un secondo prelievo della cava gli ordigni erano simili ma non uguali a quelli presi prima a Porticello (con il contributo del pescatore Cosimo D’Amato, ndr) dimostra la possibilità fondata che abbiano prelevato ordigni di fabbricazione sia italiana che anglosassone o angloamericana” concludendo che “la sostanza contenuta nei due ordigni prelevati alla cala venne mischiata con quella degli ordigni prelevati a Porticello. Ed ecco giustificabile la presenza non solo di tritolo ma anche di T4, quella parte che troviamo esclusivamente negli ordigni angloamericani”. Si tratta “di una plausibile spiegazione alle corpose evidenze di tritolo e alle tracce di T4” nei reperti della strage di Capaci.
“La scelta di collaborare con la giustizia di Cosimo D’Amato – chiude il cerchio Dodero – scrive la parola ‘fine’ essendo il principale riscontro al narrato di Spatuzza e alle intuizioni dei consulenti tecnici” dalle quali “ restava da individuare chi avesse procurato gli ordigni”. D’Amato, spiega, “ha assunto un ruolo fondamentale per il compimento non solo della strage di Capaci, ma di tutto il piano mafioso stragista del ’92, ‘93 e ’94, perché fornì l’esplosivo al mandamento di Brancaccio”.
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