di Miriam Cuccu - 27 aprile 2015
Sinacori: a Roma per uccidere Falcone, ma Riina “aveva cose più grosse per le mani”
Sulla strage di Capaci “non ci aspettavamo una cosa così eclatante”, anche se “si vociferava di una risposta al maxiprocesso, avevamo capito che qualcosa cominciava a muoversi”. È quello che ricorda Giuseppe “Pino” Marchese, collaboratore di giustizia ed ex appartenente al mandamento di Ciaculli. Marchese è stato in carcere per dieci anni, dall’’82 fino al settembre ’92, prima di collaborare. “Il carcere – ricorda – è la strada che ti fa conoscere con altri uomini d’onore, altre famiglie e organizzazioni. Io avevo contatti con Pippo Gambino, Bernardo Brusca, i Madonia: il fior fiore di Cosa nostra”.
Prima dell’attentato a Falcone, continua Marchese, “Totò Riina mandò un bigliettino in carcere dicendo che stavano vedendo il da farsi, spesso mandava messaggi, eravamo in contatto diretto con lui. I bigliettini arrivavano anche da parte dei Ganci e dei Graviano, per tramite di Emanuele Di Filippo e di mio fratello Gregorio”. Quando poi scoppiò la bomba, ricorda il pentito, “non solo tra i mafiosi ma anche tra i detenuti normali ci fu un festeggiamento, brindando con acqua o aranciata per l’esito. È come vedere un potere che dice: siamo più forti noi delle istituzioni”. Così come per la strage di via D’Amelio: “Con Giuseppe Madonia abbiamo brindato con il vino al carcere di Cuneo e lui diceva ‘ecco qui, è andato anche l’ultimo’”.
In riferimento a personaggi con la faccia butterata, in contatto con le famiglie mafiose, i ricordi di Marchese sono molto vaghi: “Non ricordo… forse qualcosa… non sempre si approfondiva quando si parlava in carcere...”. Secondo il collaboratore si tratterebbe di un soggetto “vicino a Cosa nostra, e quando uno è vicino è disponibile a fare tutto. Apparteneva alle istituzioni ma non ricordo da che parte, se dei servizi...”. In precedenza alcuni collaboratori di giustizia avevano parlato di un uomo con il volto deturpato, conosciuto come “faccia da mostro”, che sarebbe stato presente in molti delitti misteriosi come il fallito attentato all'Addaura dell'estate dell'89, organizzato ai danni del giudice Giovanni Falcone, o l'omicidio del poliziotto palermitano Nino Agostino (ucciso insieme alla moglie nello stesso anno). Durante un interrogatorio, Marchese aveva visionato un album fotografico, senza però indicare alcun soggetto di sua conoscenza.
Sull’Addaura, ricorda Marchese, “si vociferava che Falcone cercava di attirare l’attenzione su di sé, che se l’era messa lui quella bomba”. Nessuna conoscenza, invece, su contatti con le cosche calabresi in riferimento alle stragi, anche se con le ‘ndrine, ricorda Machese, di contatti ce n’erano: “Venivano a trovare mio zio (Filippo Marchese, ndr) aveva contatti con i Piromalli e i De Stefano, e altre famiglie si cui non ricordo il nome”.
A Roma per uccidere Falcone, poi lo stop di Riina: “Aveva cose più grosse per le mani”
di Miriam Cuccu - 27 aprile 2015
Parla il pentito Vincenzo Sinacori al processo Capaci bis
“Alla riunione di Castelvetrano, alla fine del 1991, siamo andati io, Mariano Agate, i fratelli Graviano, Matteo Messina Denaro. Riina ci dice che dovevamo cercare un aggancio a Roma, un certo Scarano. Dovevamo andare lì a cercare Falcone, Costanzo (Maurizio Costanzo, ndr), Martelli (Claudio Martelli, all’epoca ministro della giustizia, ndr) ed altri. Ma la priorità era Falcone”. Così il pentito Vincenzo Sinacori descrive la riunione in cui Riina ordinò di andare a Roma per uccidere Falcone, al processo Capaci bis in trasferta a Roma, all’aula bunker di Rebibbia. Nei ranghi di Cosa nostra dal 1981, Sinacori è stato reggente del mandamento di Mazara del Vallo, dopo l’arresto del boss Mariano Agate, insieme ad Andrea Mangiaracina. Fedelissimo di Matteo Messina Denaro, Sinacori inizia a collaborare dal ’96. Qui però il pentito si irrigidisce: “Ho deciso di collaborare per problemi miei che non intendo dire. Non ho nessuna spiegazione da dare, ho fatto questa scelta”.
Per Falcone, precisa Sinacori, “non c’era bisogno di spiegarmi i motivi (dell’attentato, ndr) è sempre stato obiettivo di Cosa nostra”, soprattutto dopo il maxiprocesso. “Riina si muoveva in tutti i sensi per cercare di sistemare il maxiprocesso, si sarà giocato tutte le carte – prosegue il collaboratore di giustizia – io sono partito alcune volte con mastro Ciccio (il boss Francesco Messina, ndr) per parlare con uno della Cassazione, un cancelliere che secondo me vendeva fumo e basta, che non poteva aggiustare niente. Mi ricordo solo il nome, Paolo”.
Successivamente alla riunione di Castelvetrano, continua Sinacori, “abbiamo avuto altri incontri a Palermo, a casa di Salvatore Biondino e anche del fratello” alle quali erano presenti anche Lorenzo Tinnirello (imputato in questo processo) e Fifetto Cannella.
Durante l’ultima riunione prima di partire a Roma, racconta Sinacori, Riina parlò di gruppi da formare “che dovevano dipendere solo ed esclusivamente da lui, non dovevano dire niente ai capimandamenti, il rapporto doveva essere diretto con Riina qualsiasi cosa si facesse in Cosa nostra. Il mio gruppo era composto da Giuseppe e Filippo Graviano e Matteo Messina Denaro. A queste persone Riina fece il discorso”. Per andare a Roma, “Partii in aereo con Francesco Geraci (non affiliato ma molto vicino a Messina Denaro, ndr). Io usai il mio cognome storpiato per prendere precauzioni, mica andavamo a fare una gita. Avevamo appuntamento in un posto noto, credo Piazza di Spagna o Fontana di Trevi, poi siamo andati ad abitare da Scarano. Non so però dove dormisse Giuseppe Graviano”.
Una volta a Roma, il commando iniziò a fare dei sopralluoghi facendo però confusione e scambiando il ristorante "Il Matriciano" per "La Carbonara", dove Falcone era solito andare. L’attentato doveva essere fatto con le armi tradizionali “altrimenti bisognava chiedere il permesso a Riina. Le armi e l’esplosivo arrivarono a Roma con un camion partito da Mazara. L’esplosivo proveniva credo da Trapani, tramite Vincenzo Virga”.
A Roma il commando aveva anche il supporto di altri soggetti: “Sono andato a Napoli, a Marano, a chiamare Ciro Nuvoletta e un certo Armando, uomini d’onore di Cosa nostra – spiega Sinacori –. Me li aveva presentati direttamente Riina. I Nuvoletta erano tutti affiliati a Cosa nostra ma dipendevano solo da Riina”. Prima di andare a Roma, continua, “erano venuti in Sicilia, e in mia presenza Riina disse loro che se avevo bisogno si sarebbero dovuti mettere a mia disposizione”. A Roma, aggiunge il pentito, “facevo i sopralluoghi in via Arenula per Martelli, insieme a Geraci, ma l’unico obiettivo possibile era Costanzo perché usciva dai Parioli e faceva una strada dove era facile affiancarlo e sparargli. Non abbiamo mai incrociato Martelli – precisa – nè gli altri Falcone. Si decide di avvisare Riina, dovevamo parlare con lui perché la priorità era Falcone. Scesi io, che tra tutti ero il più pulito. Riina mi disse di sospendere tutto e scendere giù che aveva altre cose più grosse per le mani. Io salgo a Roma, informo Matteo (Messina Denaro, ndr) e decidiamo di scendere”.