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strage-capaci-ducato-92di Aaron Pettinari - 11 marzo 2015
Il teste ha tirato nuovamente in ballo l'ex consulente della polizia: “Fu lui a dirmi di cambiare versione”

Non uno ma due furgoni bianchi furono notati nelle zone di Capaci il giorno prima della strage in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. E' questa la nuova versione fornita in aula dal poliziotto Giuseppe De Michele, ascoltato quest'oggi al processo Capaci bis che vede come imputati i boss Salvino Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello. Di una presenza sospetta aveva già parlato nella relazione di servizio, dettata al suo superiore, il sovrintendente Palazzolo, il 26 maggio 1992. In quell'occasione affermava di avere visto un furgone bianco sull'autostrada in cui avvenne l'Attentatuni, dicendo che vi erano delle scritte che sembravano quelle della Sip, e che lì attorno vi erano delle persone in tuta bianca. Non solo,una di queste lo aveva fatto rallentare proprio sul livello autostradale. La relazione venne inviata a più uffici della Questura di Palermo, compresa la squadra mobile. Dopo meno di una settimana, il 1°giugno 1992, De Michele viene convocato nuovamente dagli uffici della mobile e corregge la testimonianza giustificando che “il sovrintendente che scriveva non aveva conoscenza dei luoghi e che mal riportava quanto da lui riferitogli” aggiungendo poi altri particolari. Dice quindi di “aver superato lo svincolo, entrando per percorrere via Kennedy quando lungo la stradina sul lato destro vede un furgone di colore bianco, verosimilmente un Fiat Ducato con le scritte Sip, ed un uomo di circa 30 anni, alto, 1,80, robusto, con baffi folti e capelli mossi di colore castano. Con lui vi erano altre 10 persone che lo accompagnavano anch'esse con le tute di colore bianco. Stavano sistemando alcune scale sul furgone. Il presunto operaio, senza alcuna inflessione dialettale, mi invita dapprima a fermarmi e poi a proseguire la marcia”.

La terza versione
Oggi in aula, e prima ancora ai pm durante l'interrogatorio del dicembre 2013, ha fornito una nuova ricostruzione dei fatti. “Mi trovavo con una signora più grande di me, si chiamava Gina, la stavo riportando a casa. Spesso ci vedevamo con altri amici, andavamo a ballare. Comunque il giorno prima della strage lungo la corsia di decelerazione dell'autostrada vidi questo furgone bianco. Non sono certo che era della Sip comunque c'era una scritta. E lì attorno c'erano anche altre persone non ricordo che facevano qualcosa. Poi considerate anche che avevo una difficoltà visiva all'epoca in quanto soffrivo di astigmatismo e mitropia. Ricordo che quasi ci andavo a sbattere. Poi una volta uscito entrando nello svincolo sempre in direzione Capaci vidi un altro furgone sulla destra, sempre bianco. Anche questo aveva delle scritte, similare a quello di prima. C'è un signore che mi ferma un attimo, sempre in tuta bianca, mi ferma per un attimo e poi mi fa passare via”.

L'accusa a Genchi
Rispondendo alle domande dei pm Olindo Dodero e Stefano Luciani il poliziotto ha poi spiegato la motivazione per cui sono state prodotte due relazioni differenti a pochi giorni di distanza, tirando in ballo Gioacchino Genchi, tra gli investigatori che indagavano sull'eccidio in qualità di perito tecnico al primo gruppo d’indagine Falcone e Borsellino, il quale lo avrebbe convocato per minacciarlo e costringerlo a rivedere quanto scritto, secondo la testimonianza. “Gioacchino Genchi, con cui mi conoscevo da tempo, tanto che veniva a mangiare anche a casa di mio padre, mi convocò in caserma e mi disse - ha raccontato - che dovevo dimenticarmi quello che avevo visto o era meglio se mi sparavo. Dopo questo incontro mi fece uscire dalla stanza dicendomi di andarmene e di non farmi più vedere”. “Rimasi spaventato, dopo quello che era successo con Genchi. Pensai che il confermare ciò che avevo scritto nella relazione del 26 maggio mi avrebbe portato non so a che cosa, magari ad essere licenziato, e che quindi la mia carriera in Polizia sarebbe finita” ha aggiunto De Michele che tuttavia non è riuscito a fornire particolari elementi di conoscenza su Genchi, né a spiegare per quale motivo, rispetto a quella minaccia ricevuta, non denunciò il fatto, non lo raccontò alla “signora Gina”, che avrebbe potuto confermare la sua stessa versione dei fatti, e scelse di cambiare la versione anziché “cancellare” quello che aveva visto così come gli aveva chiesto lo stesso funzionario della mobile.
Le uniche persone con cui ne avrebbe parlato sarebbero state, a suo dire, il padre e la sorella (sul quando restano i dubbi se sia avvenuto nel 1992 o nel 2013, ndr). Il primo, sentito quest'oggi in aula, ha però dichiarato di non ricordare affatto di aver saputo all'epoca della minaccia. “Se lo avessi saputo – ha detto ai pm – potete esser certi che avrei chiamato Genchi con cui confermo la frequentazione almeno fino al 23 maggio del 1992. Di queste cose mio figlio recentemente mi ha detto di avermene parlato, ma io non lo ricordo. Così come non ricordo di aver ricevuto delle telefonate di minaccia all'utenza di casa nel 1992 (il figlio ha raccontato diversamente alla corte, ndr). Minacce contro mio figlio? Ora che mi fate pensare può darsi che lui mi abbia detto qualcosa in merito, ma di recente”.

Colpo di scena
Nel corso della deposizione il teste ha, infine, aggiunto di essere stato convocato nel settembre del 2013 negli uffici della Dia di Palermo dove due persone, da lui indicate come un funzionario di Polizia e un magistrato, gli avrebbero chiesto in che punto avesse visto il furgone bianco. Una circostanza che i pm di Caltanissetta Onelio Dodero e Stefano Luciani, che hanno condotto l'esame del teste, non sapevano. Alla domanda se fosse stato redatto un verbale in merito, il teste (che dovrà fornire alla Corte il documento di notifica) ha dichiarato di non ricordare di aver verbalizzato ma di essere stato registrato. In quell'occasione però delle presunte minacce di Genchi non disse nulla. Come mai? E per quale motivo solo a più di vent'anni di distanza si è deciso a fornire certi particolari? La procura nissena per cercare di fare chiarezza e rispondere anche a queste domande sta procedendo su due fronti. Da una parte c'è un'indagine nei confronti di Gioacchino Genchi con l’imputazione di “minaccia aggravata e favoreggiamento degli autori della strage di Capaci”. Dall'altra c'è la contro denuncia di Genchi, nei confronti del De Michele, per “calunnia”. Da parte sua, Genchi ha sempre negato la ricostruzione del poliziotto: “A distanza di oltre vent’anni dai fatti – disse tempo fa - non riesco a credere e a spiegarmi il perché di queste accuse, soprattutto da parte di un appartenente alla Polizia di Stato, che semmai quelle minacce e quell’istigazione a mentire fossero vere avrebbe avuto il dovere morale e giuridico di denunciarle immediatamente e non attendere che passasse un ventennio e che fossero dei magistrati a contestargli le sue plateali contraddizioni. Non oso nemmeno ipotizzare un complotto di qualcuno della Polizia di Stato contro di me nel tentativo di calunniarmi”.
Adesso spetterà agli investigatori cercare di fare chiarezza su questi fatti e sul mistero del “furgone bianco” visto nelle zone di Capaci. Anche perché dalle carte relative alla strage di Capaci, è emersa un’altra testimonianza per anni rimasta “sepolta” tra le indagini. Si tratta di quella dell'ingegnere palermitano Francesco Naselli Flores, cognato di Carlo Alberto Dalla Chiesa, che avrebbe anche lui riferito della presenza, all’altezza dello svincolo per Capaci, di un furgone bianco, e di alcune persone che “stendevano i cavi” nella tarda mattinata del 22 maggio '92. Un elemento quantomeno sospetto considerato che le indagini fatte allora accertarono che nessun’azienda aveva inviato propri operai ad eseguire dei lavori su quel tratto autostradale. E se da un parte la procura nissena continua ad indagare su eventuali “concorrenti esterni” che potrebbero aver avuto un ruolo nella strage di Capaci, dall'altra vi è la convinzione che ad eseguire l'attentato siano stati “soltanto i mafiosi”. 

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