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giuffre-antonino1di Aaron Pettinari - 2 ottobre 2014
“Tra i soggetti in contatto con i servizi segreti si parlava anche di Pietro Rampulla”. A dirlo in aula al processo Capaci bis è il pentito Antonino Giuffrè (in foto). “C'era questa voce. Io Pietro Rampulla non l'ho conosciuto ma ne sapevo l'esistenza. Io ho avuto a che fare con suo fratello all'inizio degli anni 2000-2001 ma altro non mi ricordo”. Una dichiarazione dirompente se si considera che Rampulla, detto “l’artificiere”, ex ordinovista originario di Mistretta (Messina), legato alla destra eversiva, vicino alle cosche di Nitto Santapaola, procurò il telecomando usato nella strage ed era il primo incaricato a premere il pulsante nel giorno del “gran botto” di Capaci. Soltanto all'ultimo momento, secondo quanto raccontato dal collaboratore di giustizia Brusca, venne sostituito dallo stesso ex boss di San Giuseppe Jato.

Rispondendo alla richiesta di chiarimento da parte del pm Lia Sava Giuffrè ha ribadito che “quando usiamo l'espressione 'una voce' in Cosa nostra questa è una mezza certezza perché in linea di massima non è ammesso raccontare fesserie. E' anche vero che ci sono state tragedie e malelingue. Per questo non mi sento di andare ad asserire che è sicuramente così al cento per cento. Stesso discorso vale per il rapporto tra Graviano e Bellini”. Nonostante i chiarimenti però ci sono domande che restano aperte e che riguardano proprio la presenza di soggetti esterni a Cosa nostra nella strage. E' possibile che oltre alla mafia vi sia stato il contributo di qualcun altro nella preparazione dell'attentato? Come va collocata in questo contesto la figura di Rampulla, attivista nero con un profondo legame d'amicizia con un personaggio come Rosario Pio Cattafi, quest'ultimo considerato “uomo cerniera” tra Cosa Nostra, politica, la massoneria coperta e gli stessi ambienti dei servizi segreti? Sempre rimanendo in tema di intelligence deviate nel corso del controesame Giuffrè ha detto di aver sentito parlare anche di Sergio Flamia, il collaboratore di giustizia di Bagheria contattato di recente dai servizi segreti su cui si concentrano le indagini della Procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta sul Protocollo farfalla, collegandolo al gruppo di fuoco di Bagheria a capo di Onofrio Morreale. “Morreale lo combiniamo io, Provenzano, Pietro Aglieri e Carlo Greco – ha ricordato – C'era questo gruppo di fuoco e il nome di Flamia mi ricorda un soggetto che era vicino a Morreale. Io non ho mai avuto contatti diretti con luima ricordo che sul finire degli anni ottanta a Bagheria si era creato questo gruppo di delinquenti comuni e rapinatori poi divenuto gruppo di fuoco usato da Cosa nostra capeggiato da Onofrio Morreale. Alcuni soggetti di questo gruppo, tra cui poteva esserci questo Flamia, mi hanno aiutato, senza che io sapessi chi fossero, in qualche omicidio fuori Bagheria”. Rispondendo alle domande dell'avvocato Salvatore Petronio durante il controesame Giuffrè ha ribadito: “La strage di Capaci, come la morte di Lima, era un messaggio chiaro per Andreotti ma non solo. Riina diceva ‘ora facciamo la guerra che poi viene la pace’. Riina non era un pazzo. Uccidere Falcone rientrava nella risposta violenta contro lo Stato ma si lanciavano messaggi anche al mondo politico. Tra i politici da eliminare, considerati traditori, vi erano anche Andreotti e Martelli che avevano preso i voti di Cosa nostra”. Il processo Capaci bis vede come imputati i boss Salvino Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello. Nel pomeriggio è prevista l’audizione del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.

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