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di Aaron Pettinari e Miriam Cuccu - 1° ottobre 2014

L’ex boss di Caccamo: “I Graviano in contatto con i Servizi segreti”
“Non mi ricordo un’altra riunione di questo genere, là dentro regnava il silenzio più assordante. C’era il gelo”. Così Antonino Giuffrè, detto “Manuzza”, ex boss di Caccamo, ha descritto al processo Capaci bis – in trasferta a Milano fino al 4 ottobre – la riunione della Cupola di Cosa nostra in cui Riina pianificò una nuova linea d’attacco contro lo Stato. Il collaboratore di giustizia ha raccontato, davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta che indaga sull’uccisione del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta, che Riina si rivolse agli altri capimandamento dicendo: “Oggi è arrivato il momento per ognuno di noi di prendersi le sue responsabilità, dobbiamo chiudere i conti con tutti coloro che ci hanno portato in questa situazione, sia per quanto riguarda Falcone e Borsellino, sia per i politici traditori. Ricordo Lima, i Salvo, Mannino e se ricordo bene anche Virzì”, colpevoli di “non avere mantenuto fede alle promesse fatte” ma anche, ha precisato Giuffrè, di aver “fatto perdere la faccia a Salvatore Riina nei confronti della commissione provinciale, della commissione regionale e di tutte le persone poi condannate all’ergastolo”. “Quando Riina ha finito di parlare – ha poi proseguito – io stavo cercando di dire… volevo delucidazioni… se era un bene o un male andare a fare questo… ma Raffaele Ganci (boss del quartiere Noce, ndr) che era accanto a me, da sotto il tavolo mi dà un colpo di ginocchio e non ho più parlato. Non ha parlato nessuno, questo è poco ma sicuro”. Per evitare gli ergastoli durante il maxiprocesso, ha continuato Giuffrè, Totò Riina e tutta Cosa nostra facevano affidamento su un ”ammorbidimento presso gli ambienti politici tramite canali della Democrazia Cristiana. Noi avevamo Salvo Lima, che era in stretto rapporto con Roma e quando dico Roma intendo Andreotti”.

Obiettivo Falcone: d’accordo anche la massoneria
“Anche la massoneria voleva fermare Falcone. Probabilmente anche la famosa P2 di Gelli" ha rivelato Giuffrè, chiarendo che “contro Falcone ci fu un adoperarsi a più livelli perché con le inchieste andava a ledere rapporti professionali ed economici importanti, andava a colpire l'intrigo che c'era tra mafia ed organi esterni. Così iniziò una campagna di delegittimazione sia da parte di Cosa nostra, che dal mondo dell'imprenditoria che da quello politico. Anche la massoneria. C'erano contatti di Provenzano e Riina con la massoneria deviata. Potevano esserci anche rapporti tra Cosa nostra e la P2. Ricordo che Sindona stesso fosse legato a qualche massoneria deviata di questo genere".
Il giudice Falcone, ha poi proseguito il collaboratore, "con le sue inchieste stava scavando sui grandi affari. A quel tempo c'erano i soldi che arrivavano a fiumi dall'America. Non si colpiva solo la mafia ma anche tutto quell'entourage vicino a Cosa nostra nel discorso del riciclaggio e degli appalti. Eliminare Falcone e Borsellino era necessario per disinnescare quell'ordigno esplosivo che metteva a rischio Cosa nostra e che si era acceso con le inchieste dei due giudici. Da tempo si parlava di fermarli. Con Falcone ci provammo anche all'Addaura ma poi non vi fu esito". Il fastidio nei confronti di Falcone proveniva anche da oltreoceano, tanto è vero che “attorno al ’90 arrivò a Palermo uno dei legali dei Gambino per attingere notizie utili a delegittimare Buscetta” e che “a sua volta aveva parlato con le famiglie mafiose americane, che lo avevano autorizzato ad andare a Palermo”.
Giuffrè ha poi ribadito che si discusse nuovamente dei progetti di morte nei confronti di Falcone e Borsellino nella riunione della Commissione provinciale tra novembre e dicembre 1991: "Si era già capito che il maxi sarebbe andato male quando non venne assegnato al giudice Carnevale”.
Giovanni Falcone, ha detto ancora il pentito, fu ''isolato e poi ucciso'' e la delegettimazione avvenne “non dico in tutta la magistratura, perché direi una sciocchezza, ma anche in parte di questa, a Palermo”, ricordando in particolare un “rapporto di tensione tra l'allora Procuratore della Repubblica (Pietro Giammanco, ndr) e Falcone stesso”.

Quei contatti tra i boss Graviano e i Servizi segreti
Poi Falcone fu ucciso con 500 kg di tritolo e, dopo 57 giorni, fu la volta di Paolo Borsellino. Giuffrè – arrestato nel marzo ’92 poco prima dell’omicidio Lima – ha però replicato di non sapere il motivo che spinse Riina a condannare a morte i due giudici più odiati dai boss a così breve distanza uno dall’altro. Così come del fatto che allo svincolo di Capaci il 23 maggio ’92 – secondo gli ultimi sviluppi delle indagini – erano appostati anche uomini esterni a Cosa nostra. Ma sui contatti tra mafia e Servizi deviati l’ex fidatissimo di Bernardo Provenzano ha le idee chiare: “Li avevano i Graviano, erano discorsi che si facevano, non mi ricordo se me lo disse Aglieri o Carlo Greco”. Se così fosse ecco che si aprirebbero inquietanti presupposti proprio riguardo alle stragi che hanno visto un coinvolgimento diretto della famiglia mafiosa di Brancaccio anche perché, come ha specificato poi Giuffrè, “Per regola funziona che se si deve fare un omicidio ad esempio nel mio mandamento non ci deve venire nessuno in condizioni normali, ma ci possono essere eccezioni in base all'entità del danno che si deve fare. Così possono partecipare anche altre famiglie ed anche altri soggetti. Personalmente il dubbio mi è venuto con l'omicidio Mattarella. Io sapevo che erano stati Scarpuzzedda e Prestifilippo e altri della famiglia di Ciaculli, ma il dubbio mi venne quando si era parlato che l'omicidio poteva essere stato fatto da un estremista di destra”.

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