di Miriam Cuccu - 26 febbraio 2014
A distanza di quasi 22 anni per accertare la verità sulla strage di Capaci avrà inizio un nuovo processo. I pubblici ministeri di Caltanissetta hanno inviato nove avvisi di conclusione d’indagine. Oltre a Gaspare Spatuzza, il pentito di Brancaccio grazie alle cui rivelazioni venne smascherato il clamoroso depistaggio costruito attorno all’eccidio di via D’Amelio, e a Salvino Madonia, gli altri soggetti che figurano nell’indagine sono stati arrestati a maggio 2013: si tratta di Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino, Lorenzo Tinnirello e Cosimo D’Amato, mai coInvolti nelle precedenti inchieste sulla strage del 23 maggio ‘92. L’operazione era stata possibile proprio grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Spatuzza e Fabio Tranchina, che avevano messo in luce l’importante ruolo svolto dalla famiglia mafiosa di Brancaccio, e in particolare dei boss Filippo e Giuseppe Graviano, nella progettazione dell’attentato in cui persero la vita il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta.
Secondo l’accusa sulla quale si baserà il nuovo processo il tritolo posto sotto l’autostrada all’altezza dello svincolo di Capaci fu ordinato da Totò Riina di concerto con la cupola di Cosa nostra per eliminare Falcone – sulla lista nera dai tempi del maxiprocesso – ma anche con l’obiettivo di attaccare lo Stato. Un attacco frontale e violentissimo la cui strategia comprende anche la strage che seguì a soli 57 giorni in via D’Amelio per uccidere Paolo Borsellino, oltre ad aprire un dialogo a suon di bombe con esponenti delle istituzioni e del Ros dei Carabinieri. Dialogo sul quale si concentrano le indagini del processo per la trattativa Stato-mafia in corso a Palermo.
Cosimo D’Amato, pescatore di Santa Flavia (Palermo), era precedentemente stato indagato dai pm di Firenze che si occupano delle stragi del ’93 e accusato di aver fornito l’esplosivo anche per gli attentati a Firenze, Roma e Milano. Secondo i pubblici ministeri nisseni sarebbe stato lui a procurare i duecento chili di tritolo utilizzato a Capaci, recuperato da alcuni residuati bellici che si trovavano in mare, successivamente aggiunti agli altri duecento di esplosivo per le cave (Euranfo 70) procurati da Giovanni Brusca. “Ricordo che un mese e mezzo prima della strage di Capaci, Fifetto Cannella mi chiese di procurargli una macchina voluminosa, per recuperare delle cose - racconta Spatuzza - Ci recammo pertanto con l'autovettura di mio fratello nella piazza Sant'Erasmo di Palermo, dove incontrammo Peppe Barranca e Cosimo Lo Nigro, e dove avremmo dovuto incontrare Renzino Tinnirello, il quale però tardò ad arrivare. Ci recammo quindi a Porticello, ove trovammo un certo Cosimo, ed assieme a lui ci recammo su un peschereccio attraccato al molo, da dove recuperammo dei cilindri delle dimensioni di 50 centimetri per un metro legati con delle funi sulle paratie della barca. Al loro interno vi erano delle bombe”. Solo che, prosegue il pentito “L'esplosivo non bastò. Ci recammo a prelevare altri due bidoni alla Cala, sempre legati a un peschereccio”. In totale furono cinquecento i chili di esplosivo calati sotto un tratto di autostrada che alle 17.58 già non esisteva più. Un attentato eclatante ordito dallo stesso Riina, che all’ultimo momento rinunciò a pianificare l’uccisione del giudice a Roma, dove era risaputo che Falcone godeva di ben più blande misure di sicurezza. Perché? Forse a causa di quella convergenza di interessi dal raggio più ampio rispetto all’odio smisurato che i boss mafiosi, condannati per la prima volta all’ergastolo a seguito del maxiprocesso, nutrivano nei confronti del magistrato. Un “gioco grande” che Falcone aveva intuito già all’indomani del fallito attentato all’Addaura nell’estate dell’89, e che ancora attende di essere svelato.
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