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via damelio uomo ssdi Aaron Pettinari
“Non ci sono prove certe, solo congetture”

“La trattativa Stato-mafia? In questo processo non sono emersi elementi per sostenerne l'esistenza”. “Il depistaggio istituzionale? Non c'è prova”. “La Barbera appartenente ai Servizi? Fatto del tutto naturale”. “La nota del Sisde su Scarantino? Solo valore radiografico”. “Il procuratore capo Tinebra e l'avviso della Bocassini ignorato? La sua era mancata esperienza in materia di mafia e quelle indagini erano sopra le sue forze”. “L'operato di Mori e De Donno? Cercarono vie di aggnacio e di infiltrazione con Vito Ciancimino. Azioni molto e decisamente discutibili ma persino comprensibili data la situazione del momento storico con timori crescenti di delitti e di altre stragi”.
E' la teoria “giustificazionista”, in puro stile Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca, ad andare in scena al processo Borsellino quater. A parlare, però, è l'Avvocato dello Stato, Salvatore Faraci, che questa mattina ha tenuto la sua arringa in quanto legale di parte civile della presidenza del consiglio dei ministri, della presidenza della regione Sicilia e dei ministeri dell'interno e della giustizia. L'avvocato, evidenziando l'assoluta attendibilità del pentito Gaspare Spatuzza e sottolineando le responsabilità di Salvo Madonia e Vittorio Tutino nella strage del 19 luglio '92 e le falsità raccontate dagli ex collaboranti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci nella prima fase delle indagini sull'attentato di via d'Amelio, è di fatto intervenuto a gamba tesa anche su processi in corso in altra sede (a Palermo), dove la stessa Avvocatura dello Stato è presente come parte civile.

Capitolo trattativa
Nella sua arringa non sono mancati i soliti giudizi trancianti sulla figura di Massimo Ciancimino (“Le sue dichiarazioni, che dovevano rappresentare la prova regina si sono rivelate contraddittorie, inattendibili e manipolatorie”) di cui è stata ricordata la presenza di documenti contraffatti senza evidenziare invece l'attendibilità di altri che invece si evince dalle perizie effettuate dai consulenti. Riguardo alle dichiarazioni della dottoressa Liliana Ferraro, Claudio Martelli, Fernanda Coltri e Luciano Violante ha ammesso le lacunosità e le discordanze, ma si evidenzia come queste non contribuiscano a dare assoluta certezza se fu richiesta o meno copertura politica per quell'operato che il generale Mori stava portando avanti con Vito Ciancimino, come tramite di Cosa nostra, “né se e quali vertici fossero stati informati o perché non fosse stata informata la magistratura”. Così quell'operato dei carabinieri viene da una parte condannato e dall'altra giustificato a causa del clima che si respirava all'epoca.
Il legale ha inoltre offerto chiavi di lettura su temi che esulano completamente il dibattimento in corso di fronte alla corte d'Assise nissena. Basti pensare ai 41 bis revocati nel novembre 1993. Secondo l'Avvocatura dello Stato, infatti, è tutt'altro che chiaro se questo atto fu dovuto “alle pressioni di cosa nostra e dunque va letto come un messaggio accomodante a questa trattativa. O se sia dovuto alla discussione in atto tra le forze politiche ed i giuristi per quei rilievi già pervenuti in sede europea su quell'ordinamento del carcere duro. O se la causa fosse nella difficoltà motivazionali per giungere ad una proroga di quei 41 bis, in base a quanto stabilito dalla Corte costituzionale”. Del resto che importa se proprio la Procura di Palermo, interpellata all'epoca dal Dap, avesse dato un parere contrario alla revoca del regime carcerario “41 bis” per quei detenuti a cui sarebbe scaduto il 2 novembre. Secondo l'Avvocatura dello Stato, dunque, “non è provato processualmente che alla data della strage di via d'Amelio vi fosse una trattativa tra Cosa nostra ed apparati dello Stato se per trattativa intendiamo un'iniziativa di apparati dello Stato per raggiungere un accordo, uno scambio 'do ut des' per fermare le stragi”.

Così ti spiego la falsa pista
L'avvocato Faraci ha parlato anche della necessità di guardare al contesto storico del tempo, ricordando che “con la morte di Falcone e Borsellino un'approfondita competenza in materia di mafia fosse in quel momento andata irrimediabilmente persa”. Così è stata ricordata la non competenza in materia del procuratore capo di allora Giovanni Tinebra, è stata in qualche maniera giustificata la via perseguita dagli investigatori dell'epoca ricordando lo stato d'animo della gente, le frustrazioni del Paese, la rabbia in particolare all'interno della Polizia di Stato che aveva perso diversi uomini nelle stragi di Capaci e via d'Amelio, le pressioni dell'opinione pubblica, della stampa, la diffidenza contro le istituzioni. Secondo l'Avvocatura dello Stato, dunque, quella necessità pressante di dare una risposta forte, avrebbe portato agli investigatori a seguire quella pista commettendo quegli errori “aggravati dalle esigenze di carriera, compresa quella di La Barbera”. Nel dire ciò il legale, che ha dichiarato apertamente che “l'ipotesi di depistaggio con le dichiarazioni dei falsi pentiti eterodirette da apparati dello Stato va scartata”, condividendo l'analisi dei pm, anche se proprio l'accusa aveva messo in evidenza le gravi “zone d'ombra inquietanti” e le “pressioni” che gli stessi falsi pentiti, oggi imputati, avevano subito nel corso del tempo.
L'immagine di uno Stato “puro” (con tanto di spiegazione circostanziata sulla divisione di competenze tra Sismi, Sisde e Cerisdi) è stata data anche di fronte all'eventuale ruolo dei Servizi segreti nella strage e nelle indagini. E se da una parte è stata ricordata la nota del Sisde dell'ottobre 1992, bollandola come una semplice nota informativa mentre i pm avevano sottolineato in requisitoria come questa fosse un po' “spinta” volta ad “indicare in tutti i modi la vicinanza di Scarantino con ambienti mafiosi”, dall'altra nulla si dice della nota dell'agosto dello stesso anno. In quella nota diversamente, si fa riferimento al luogo dove era custodita la Fiat 126. Come erano riusciti i Servizi a giungere a quell'informazione? Qual'è la fonte?
E cosa dire dell'uomo “non appartnente a Cosa nostra” di cui Gaspare Spatuzza, ovvero il pentito di cui si è continuamente elogiata l'assoluta attendibilità, ha parlato inserendolo tra i presenti nel garage di Villasevallos (il luogo in cui fu caricata di esplosivo l'automobile)?
E poco importa se poi, tra le domande poste, vi sono anche alcune importanti. “Che fine ha fatto l'agenda rossa di Paolo Borsellino? - si è chiesto il legale - Perché non è stato convocato immediatamente in Procura dopo la strage di Capaci per essere sentito in merito? Chi è l'amico che lo ha tradito? A chi o a cosa alludeva quando diceva 'sto vedendo la mafia in diretta'?”. E poi ha continuato: “Purtroppo i molti non ricordo di esponenti istituzionali e anche di ufficiali impegnati in indagini del tempo, anche volendo considerare il lungo tempo trascorso, sono stati imbarazzanti e biasimevoli”. Altrettanto imbarazzante è però il silenzio di chi ha deciso di tacere senza neanche sedere sul banco dei testimoni. E' il caso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

La “regolare” mancata audizione di Napolitano
“Se qualche documento non è stato ammesso - ha giustificato - è perché, oltre che essere irrilevante, ne rendeva vietata l'acqisizione e se qualche teste è stato revocato dopo la precedente ammissione è perché l'escussione è stata ritenuta inutile e superflua. Se di qualche teste non è stata disposta l'ammissibilità testimoniale è perché la legge non consentiva la testimonianza. Per il resto nulla è stato lasciato intentato e trascurato e il vaglio dibattimentale è stato completo ed assoluto”. Evidente la frecciata contro chi, diversamente, come l'avvocato Fabio Repici (legale di Salvatore Borsellino), aveva chiesto a gran voce l'audizione dell'ex Capo dello Stato. Quest'ultimo si era rifiutato con tanto di lettera inviata alla Corte d'assise, perché a suo dire la sua deposizione sarebbe stata “irrilevante” e “ripetitiva” in quanto aveva già deposto al processo trattativa Stato-mafia. La Corte diede torto Repici revocando la prova testimoniale inizialmente ammessa.
Eppure, proprio al processo trattativa Napolitano aveva confermato che dopo le bombe del '93 ai livelli più alti delle istituzioni di allora si ebbe immediatamente la consapevolezza, “di un aut-aut nei confronti dello Stato da parte della mafia corleonese per alleggerire la pressione detentiva o, in caso contrario, proseguire nella strategia destabilizzante dello Stato”. Parole che ben fanno comprendere il clima teso dell’epoca, nel quale si sono consumate le stragi del ’92 e ‘93. Così venne sottratto un importante contributo alla ricerca della verità sul come e il perché Paolo Borsellino venne ucciso.

Risarcimenti da 120 milioni
L'avvocato dello Stato ha chiesto poi un risarcimento danni complessivo per 120 milioni di euro a carico dei cinque imputati. Nello specifico ha chiesto che Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati di strage, versino nelle casse dello Stato 10 milioni di euro a testa, mentre i restanti 100 milioni dovranno essere versati complessivamente, sulla base della richiesta della parte civile, dai falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, che rispondono di calunnia. Il processo è stato quindi rinviato a dopodomani quando proseguiranno gli interventi dei legali di parte civile.

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