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graviano giuseppedi Francesca Mondin e Miriam Cuccu
La requisitoria al Borsellino quater. Scartata la pista dei servizi al Castello Utveggio

“Il boss Giuseppe Graviano (in foto) azionò il telecomando per la bomba dietro un muretto in via d'Amelio, assieme a lui c'era anche Fifetto Cannella”. Così il pm Stefano Luciani, nel terzo atto della requisitoria al processo Borsellino quater, esclude dallo scenario della strage il Castello Utveggio, che dal Monte Pellegrino domina Palermo con una visuale perfetta su via d'Amelio. “Gli accertamenti processuali – chiarisce il pubblico ministero – portano, sulla base di quella che era la funzione originariamente associata all'Utveggio, ad escludere che da lì fosse stato azionato il telecomando”.
La presenza di Graviano in via d'Amelio, prosegue il pm, è corroborata “dalle dichiarazioni del pentito Fabio Tranchina che riportò di quando il boss di Brancaccio gli disse “che si sarebbe messo comodo nel giardino”. Conferma la sua versione il collaboratore Giovanbattista Ferrante, il quale riferisce di come il boss Salvatore Biondino gli disse che il muretto posto alla fine di via d'Amelio “sarebbe potuto cadere addosso a chi avrebbe premuto il telecomando”. Circostanza che si aggiunge, considera Luciani, “al fatto che Biondino disse a Cancemi (capomafia deceduto nel 2011, ndr) che avrebbe potuto usare meno esplosivo” considerando gli effetti devastanti dell'autobomba. “Abbiamo inoltre il racconto di Antonio Vullo (agente di scorta di Borsellino, sopravvissuto alla strage, ndr) che stava spostando una delle auto di scorta e nel fare manovra per girare la vettura possiamo dire aveva ostruito la visuale del killer. Tanto che la deflagrazione arrivò dopo” quando Borsellino, spiega il pm, una volta superato il cancelletto dell'abitazione dei familiari risultava più distante dall'autobomba. A questo, continua Luciani, si sommano i rilievi che hanno individuato “tracce di sgommata, impronte di scarpe e frammenti di calzature” e “la recinzione metallica in fondo a via d'Amelio, che consentiva l'accesso al giardino, divelta in un punto”.

Riina e l'autobomba collegata al citofono: “Nessun elemento”
Nessun elemento, dichiara ancora Luciani, per sostenere che il congegno necessario per la detonazione dell'esplosivo “potesse essere stato installato nel citofono dell'abitazione dei familiari del dottor Borsellino”, tesi esternata da Riina in carcere in una delle conversazioni con Lorusso. “Non c'è un elemento a sostegno – assicura il pm – lo hanno escluso le perizie e anche la deposizione dell'agente Vullo, che vede Borsellino suonare il citofono e poi attraversare il cancelletto d'ingresso”. Sarebbe inoltre “complicatissimo installare un congegno di quel tipo in un citofono, che ha all'interno parecchi cavi, con il rischio di essere scoperti facilmente”.
Per quanto riguarda poi il palazzo in costruzione in via d'Amelio e riconducibile ai Graziano, imprenditori ritenuti vicini alla famiglia mafiosa dei Madonia “poteva essere un'altra buona base logistica, avendo una buona visuale della strada” considera la pubblica accusa, anche se “quelle indagini iniziali hanno presentato delle lacune” e “potevano essere fatti ulteriori approfondimenti”, come ad esempio su quella terrazza in cui furono ritrovati dei mozziconi di sigarette mai repertati.

Esclusa la pista del Sisde all'Utveggio
Per quanto riguarda il Castello Utveggio, prosegue la pubblica accusa, “abbiamo analizzato con scrupolo ogni pista, ma non abbiamo raccolto elementi per sostenere che negli uffici del Cerisdi, un ente realmente esistente e non fittizio” con sede nel palazzo di Monte Pellegrino “ci fossero alcuni degli appartenenti al Sisde indicati dal dottor Gioacchino Genchi”. Al suo interno, precisa Luciani, non è stata accertata la presenza di soggetti estranei al Cerisdi, quanto piuttosto quella accertata “di personale della Polizia di Stato per la manutenzione di apparecchi radio custoditi all'interno”. Ridimensionato inoltre il collegamento con il boss Gaetano Scotto e il fratello Pietro: “Come elemento – spiega il pm – c'è solo una telefonata di Gaetano Scotto del 19 luglio '92 all'utenza fissa del Cerisdi. Abbiamo poi appreso che cercava un tale Vincenzo Paradiso che però, quando ha deposto in questo processo, ha detto di non ricordare nulla”.
Considerate poi “non spendibili in questo processo” le dichiarazioni del pentito calabrese Nino Lo Giudice, il quale aveva dichiarato che nelle stragi del '92 fosse coinvolto anche un ex agente dei servizi dal volto sfregiato, conosciuto come “faccia da mostro”.

via damelio web1

Non ci fu l'intercettazione abusiva al telefono in via d'Amelio
Oltre a ridimensionare il collegamento tra il Castello Utveggio e Gaetano Scotto, che secondo alcuni pentiti (ritenuti dalla pubblica accusa non attendibili) sarebbe stato il ponte con i servizi segreti e Cosa nostra, il pm Luciani elimina l'ipotesi che vedeva il fratello Pietro Scotto coinvolto nelle fasi di preparazione della strage. Nello specifico nell'operazione di attivare un'intercettazione abusiva nel telefono di via d'Amelio utilizzato dalla madre di Borsellino per comunicare con il figlio. Operazioni che secondo la sentenza di appello del Borsellino bis sarebbe dovuta servire a monitorare quando il giudice Borsellino andava in via d'Amelio.
“Nei processi precedenti si ipotizzavano delle intercettazioni abusive” basandosi sulle “dichiarazioni dei famigliari del dottor Borsellino, che avevano notato delle anomalie sul telefono mesi prima della strage”, spiega il pm Luciani ricostruendo gli elementi emersi precedentemente. A questi si aggiungevano le dichiarazioni di alcuni testimoni che dicevano di “aver notato nel pianerottolo dell'abitazione dei soggetti”. Dagli elementi raccolti “emergeva anche l'intervento ufficiale di due tecnici per installare un impianto telefonico nell'edificio nel pomeriggio del 13 luglio – continua Luciani – quindi si sosteneva che il 14 o il 16 luglio i testimoni avevano visto e riconosciuto Pietro Scotto nel pianerottolo dell'abitazione”. Il magistrato sostiene invece la tesi espressa nella sentenza di appello del Borsellino uno, che “escludeva l'intercettazione abusiva perché i testi avevano confuso i loro ricordi in quanto i movimenti visti erano quelli dei tecnici reali, e confutavano il riconoscimento di Scotto” perché “possibile errore” dato dal tempo e anche dalle “modalità di riconoscimento fotografico dove tre foto su sei erano di Pietro Scotto”.
Altro punto sottolineato con forza dal pm Stefano Luciani riguarda soprattuto “la compatibilità tra le informazioni di chi avrebbe ascoltato le telefonate e l'esecuzione della strage”. Nel ricostruire quanto emerso dai tabulati telefonici del telefono su cui si ipotizzava l'intercettazione abusiva il magistrato nisseno sottolinea: “Chi era in ascolto apprendeva che sabato pomeriggio Borsellino andava in via d’Amelio (per accompagnare la madre dal cardiologo, sennonché la visita fu rimandata al giorno dopo, ndr) e quindi è ragionevole che non torni domenica”. Perciò secondo il pm la strage “si sarebbe dovuta organizzare per sabato pomeriggio o almeno ci doveva essere stato un momento di fibrillazione” per la variazione di programma di Borsellino che, dalla strage di Capaci in poi, andava a trovare la madre ogni domenica. Invece dalle testimonianze dei collaboratori di giustizia “nessuno dei soggetti ci dice questo”.

Il magistrato nisseno, nello scartare la possibilità dell'intercettazione abusiva e del ruolo di Pietro Scotto, sottolinea invece il “ruolo avuto da Salvatore Vitale nella strage”, un mafioso che aveva un appartamento nel palazzo di via d'Amelio. “Un ruolo – evidenzia Luciani - che può surrogare la funzione che era stata attribuita all'intercettazione abusiva”. Cioé verificare i movimenti di Borsellino in via d’Amelio. A sostegno di questa tesi Luciani porta le dichiarazioni di pentiti del calibro di Spatuzza, Grigoli e Brusca, che coincidevano sul fatto che “l’organizzazione decide di eliminare Salvatore Vitale e il fratello Nicola perché temevano delle confidenze”. La requisitoria proseguirà nelle udienze del 12, 13 e 14 dicembre.

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