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borsellino paolo c shobha 2di Aaron Pettinari e Miriam Cuccu
È iniziata oggi la requisitoria sulla strage di via d'Amelio

“Le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza sono state dirompenti, hanno consentito di aprire una nuova stagione giudiziaria e hanno sgretolato le certezze arrivate dai precedenti processi per l'attentato che avevano resistito a tre gradi di giudizio. A lui si deve la genesi di questo processo”. E’ con queste parole che il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci ha voluto aprire la requisitoria durante il processo Borsellino quater. Un contributo, quello dell’ex boss di Brancaccio, ritenuto di assoluto valore da parte dell’accusa, che ha permesso di ricostruire una nuova verità sull’attentato che nel luglio 1992 portò alla morte il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Una verità per anni condizionata da colossali depistaggi ed omissioni, resi evidenti dalle prove acquisite.
“Il depistaggio sulla strage di via d'Amelio è un dato che ormai possiamo considerare acquisito - ha aggiunto Paci - gli ex pentiti che avevano fornito false dichiarazioni hanno ammesso la loro colpa anche se a loro nulla si deve perché la confessione non è stata spontanea ed è arrivata quando era ormai certa l'esistenza del depistaggio… Vi sono stati dei falsi d’autore commessi in un contesto dove non mancarono forzature ed abusi di organi istituzionali che devono indurci ad interrogarci, a riflettere profondamente, su come sia stato possibile concepire un depistaggio a più voci, eludendo qualsiasi forma di controllo e mandando il sistema in corto circuito”.
Secondo il pm quel depistaggio non è stato però l’unico incontrato nel corso del tempo e, ricordando “l’impressionante numero di ‘non ricordo’ che si sono succeduti nel corso del dibattimento”, ha poi aggiunto: “Noi riteniamo che tanti vuoti di memoria non siano tutti riconducibili al naturale deperimento dei ricordi. E’ un paradosso che dopo tanti anni di discussione sia stato approvato in parlamento il reato di depistaggio. Se fosse stato già in vigore al tempo, con questa norma, sicuramente il lavoro svolto sarebbe stato più incisivo per l’accertamento di quei fatti”.

Madonia responsabile
La discussione è poi proseguita nell’esaminare la posizione di Salvo Madonia, imputato per strage assieme a Vittorio Tutino (a rispondere per il reato di calunnia sono invece i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci).
Dei Madonia, fedelissimi di Riina che vantavano “legami con settori deviati del mondo istituzionale”, ne parlò più di un collaboratore di giustizia – ha spiegato il pm – a cominciare da Francesco Onorato e Vito Galatolo. Proprio via d'Amelio di trova all'interno del mandamento di Resuttana, controllato dai Madonia e “luogo da anni presidiato da Cosa nostra”. E Salvatore Madonia, figlio di Francesco, compare di Totò u' curtu, è accusato di strage in quanto, reggente del mandamento dall'89 al '91, prese parte alla riunione plenaria di Cosa nostra del dicembre '91. Proprio in quella occasione, infatti, fu decisa l'eliminazione di Falcone e Borsellino nonché a strategia stragista per metterla in atto.
“Madonia era membro di quella commissione provinciale che decise le stragi” ha chiarito il pm, rifacendosi in merito alle dichiarazioni del pentito Nino “manuzza” Giuffrè.
Paci ha quindi ripercorso il contesto in cui maturò la decisione mettere in atto le stragi di Capaci e via d'Amelio, “al culmine di una situazione di oggettiva difficoltà in cui l'organizzazione mafiosa versava da tempo” in cui grazie “al loro coraggio e alla loro intelligenza ebbe inizio una nuova era nella conduzione delle indagini” culminata con l'istituzione del maxiprocesso. É in quell'occasione che Cosa nostra “si attiva con tutti i canali istituzionali possibili per arrivare all'aggiustamento finale della sentenza” ha proseguito Paci. “Per la prima vota Cosa nostra è abbandonata dai suoi referenti istituzionali. Esiste il convincimento di una situazione ormai persa ancora prima della sentenza della Cassazione, del gennaio '92” ha aggiunto il pm, facendo anche riferimento alle dichiarazioni dei collaboratori Vincenzo Sinacori, Gaspare Mutolo e Giovanni Brusca. Da qui la “famosa” riunione per gli auguri natalizi in cui “Riina gelò tutti i presenti” come racconta Giuffrè, le cui dichiarazioni sono seguite da quelle di Brusca e Totò Cancemi (deceduto nel 2011). “Tutti e tre concordano sul via libera che si diede alle stragi, anche se con toni assai diversi – ha precisato Paci – Giuffrè con il suo arresto nel marzo '92 va via di scena, cosa diversa per gli altri due, protagonisti della stagione stragista siciliana. Le loro dichiarazioni si integrano ma non si sovrappongono”. Madonia, così come gli altri capimafia, quel giorno del dicembre 1991 non si oppose alle direttive di Riina: “Fu un silenzio complice dietro al quale nessuno può nascondere le proprie responsabilità” è stato il commento del pm, evidenziando che “i membri della cupola di Cosa nostra con l'attentato a via d'Amelio” si proposero inoltre “il fine di spargere terrore e scatenare panico nella popolazione, creando così un diffuso allarme che piegasse la resistenza delle istituzioni già deboli al tempo, in quadro politico diviso, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da vinti al tavolo della trattativa”.

Moventi esterni e accelerazioni
Altro tema affrontato nel corso della requisitoria è stato poi la possibile esistenza di un “movente esterno” che possa aver determinato un’accelerazione dell’esecuzione della strage di via d’Amelio, “incrociando” di fatto la volontà dell’organizzazione mafiosa.
Già le sentenze d’appello bis e quella del processo ter, avevano affrontato questa ipotesi che, nel corso del dibattimento, ha visto più di un approfondimento. “In base alla congruenza degli elementi raccolti, - ha detto rivolgendosi alla corte il sostituto procuratore Stefano Luciani - è un dato indubitabile, che emerge dalle sentenze, che vi fu questa accelerazione della fase esecutiva. Un dato che emergeva nelle dichiarazioni di Cancemi e di Brusca. Il primo ha ricordato le timide obiezioni di Raffaele Ganci a Riina e le risposte di quest’ultimo (“la responsabilità è mia, bisogna farlo e farlo in fretta”). Il secondo ha ricordato il fermo imposto all’esecuzione di un attentato nei confronti di Mannino. Un incarico che lo stesso Riina gli aveva affidato dopo Capaci”. Tra i fattori che avrebbero potuto portare ad un’accelerazione della strage di via d’Amelio, il Borsellino ter aveva individuato i contatti tra gli appartenenti del Ros, Mori e De Donno, e Vito Ciancimino. Nella sentenza d’appello del Borsellino bis, invece, si parla di ulteriori fattori, ovvero l’intervista in cui il giudice parla di Dell’Utri come possibile testa di ponte delle organizzazioni mafiose nel nord Italia e la nota candidatura pubblica di Paolo Borsellino alla Procura nazionale antimafia.
Luciani si è dunque soffermato sui contatti tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino per tramite del figlio Massimo, incontri che avrebbero aperto la trattativa a cavallo delle stragi.

Le parole di Brusca
Tra chi ha fornito un contributo nella ricostruzione di quella vicenda vi è Giovanni Brusca, le cui parole erano già confluite nel processo per le stragi del '93 a Firenze e nel Borsellino bis e ter. “Brusca racconta più step nei quali interloquisce con Riina – ha spiegato il pm Stefano Luciani – quando apprende di alcuni politici che si proposero per ereditare il pacchetto di voti lasciato da Lima, ucciso nel marzo '92; quando Riina disse che 'si erano fatti sotto', parlando del papello; quando Brusca si sentì dire che le richieste avanzate erano 'irricevibili'; infine quando per tramite di Salvatore Biondino seppe che occorreva un altro 'colpetto'” inteso come l'attentato mai messo in atto ai danni di Pietro Grasso. “Nel 1998, al processo di Firenze, Brusca colloca questi accadimenti, pur non potendo escludere che il tutto fosse avvenuto prima, dopo la strage di via d'Amelio – ha continuato il pm – successivamente ha formulato deduzioni basate su circostanze oggettive, collegando i contatti intercorsi tra i Carabinieri e Ciancimino e quanto appreso da Riina”. Il pentito di San Giuseppe Jato si riferiva ad alcuni eventi: il fatto che Riina si interessasse di appalti pubblici “una penetrazione del circuito economico legale – ha precisato il pm – per agganciare nuovi politici in sostituzione di coloro che si erano dimostrati inaffidabili”, collegato alle dichiarazioni del capitano de Donno sul “progetto di Ciancimino di infiltrarsi negli appalti pubblici”. Ancora, ha proseguito Luciani, Brusca raccontava di quando “Bagarella disse dopo l'arresto di Riina che bisognava 'rompere le corna a Massimo Ciancimino'” quando don Vito veniva sempre portato “su un palmo di mano dai corleonesi”. Il collaboratore di giustizia collegava questi eventi “ al tradimento dei Ciancimino e al fatto che con la loro iniziativa non avessero tutelato gli interessi dell'associazione mafiosa”.
L'assimilazione tra i contatti del Ros con Ciancimino e le circostanze riportate da Brusca, ha chiarito il pubblico ministero, “secondo la sentenza di Firenze potevano avvenire solo ipotizzando che Vito Ciancimino non riportasse fedelmente a ciascuna delle parti la natura di quei contatti”. Mentre secondo il Borsellino ter “si tratta di due fatti distinti senza alcuna prova di collegamento” al di fuori “della coincidenza temporale”.

Contraddizione Ciancimino
Per superare quella divergenza, un elemento di prova importante sarebbero potute essere le dichiarazioni di Ciancimino jr che, nel 2008, ha iniziato a raccontare una serie di fatti riferiti a quel particolare periodo storico proprio alla procura nissena. Un contributo, quello del figlio di don Vito, che secondo la Procura nissena presenta numerose contraddizioni. “Massimo Ciancimino - ha detto Luciani nella sua esposizione - non rispondendo in questo processo, ha tolto qualcosa al compendio probatorio che avremmo potuto analizzare nel contraddittorio delle parti. Si è trattato però di una sua scelta legittima visto che è un imputato di reato connesso”.
Luciani ha evidenziato l’importanza delle dichiarazioni fatte da Ciancimino “perché in astratto avrebbe potuto riempire i vuoti tra le parole degli ufficiali del Ros e quelle di Brusca, portandoci al dato che la trattativa sia causa di accelerazione per la strage di via d’Amelio. Nelle sue dichiarazioni, però continuamente vi sono continui arricchimenti di particolari e dettagli. Luciani, dunque, affronta anche il tema dei documenti che lo stesso figlio di don Vito ha consegnato agli inquirenti: “L'unico documento che possiamo considerare utilizzabile è il cosiddetto contro-papello (elenco scritto da Vito Ciancimino in cui riprendeva le richieste contenute nel papello, cioè le richieste allo Stato fatte da Totò Riina perché la mafia fermasse la strategia stragista). Nell’ordinanza noi spieghiamo che i documenti da lui consegnati sono utilizzabili quando la paternità è certa e quando vi è conferma, dalle analisi, della datazione del documento che viene consegnato. Non abbiamo nulla da dire sulla datazione delle fotocopie presentate del papello, del contro-papello e del post-it. Se degli ultimi due sappiamo che la scrittura è del padre Vito, del papello, ad oggi, non abbiamo alcuna paternità quindi non ha, a nostro parere, valore probatorio. Anche rispetto all’analisi del contenuto dei due documenti in quanto le coincidenze sono minime”. Il pm ha poi sollevati dubbi sulla paternità dei pizzini che, a detta di Ciancimino jr, Provenzano avrebbe fatto avere al padre. “Questi pizzini non sono stati scritti da nessuna delle macchine da scrivere utilizzate da Provenzano - ha detto il pm- Poi c’è un pizzico che a detta di Massimo Ciancimino sarebbe redatto nel 2000-2001 quando la carta è di vent’anni dopo. Poi, leggendone il contenuto, anche un pentito come Giuffré, che con Provenzano aveva rapporti stretti, ha messo in dubbio quella paternità”.
Secondo i pm, inoltre, altre contraddizioni hanno riguardato le dichiarazioni sull’identificazione del fantomatico agente dei servizi segreti, il signor "Carlo Franco”.
Nel momento in cui il pm stava analizzando il documento “falso”, in cui viene associato il nome del signor Franco a quello di Gianni De Gennaro (tanto che è imputato con l’accusa di calunnia sia a Palermo che a Caltanissetta), nel tribunale nisseno è saltata la corrente. A causa dello scollegamento generale il presidente Balsamo non ha potuto far altro che rinviare a domani l’udienza per la seconda parte della requisitoria.

Foto © Shobha

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