di Miriam Cuccu
Il pentito al processo Borsellino quater
"Faccia da mostro" e le stragi di Capaci e via d'Amelio. Se n'è tornato a parlare al processo Borsellino quater, giunto ormai ai suoi capitoli finali, con la testimonianza del pentito calabrese Consolato Villani.
Già l'udienza di ieri, con l'escussione di Nino "il Nano" Lo Giudice, altro pentito nonché cugino di Villani, si è concentrata sull'uomo dal volto sfregiato considerato da diversi collaboratori di giustizia esponente dei servizi segreti deviati e avente un ruolo in molti omicidi eccellenti. E proprio delle confidenze ricevute da Lo Giudice ha parlato oggi il teste, ripercorrendo davanti alla Procura di Caltanissetta l'occasione in cui vide quell'uomo per la prima volta.
Il personaggio dal volto butterato, ha detto Villani, si trovava insieme ad un "gruppetto di persone, Nino e Luciano Lo Giudice, una donna e poi quest'uomo" che aveva "una malformazione terribile alla parte destra del volto, un rigonfiamento della pelle come di un grave incidente, così" ha mimato il pentito, facendo un gesto dall'attaccatura dei capelli accanto all'orecchio fino al mento. "Altezza media, una cinquantina d'anni, capelli neri e folti" completano il profilo descritto dall'ex mafioso, che lo vide "per qualche minuto" all'interno della profumeria di proprietà di Antonio Cortese dove Villani, sottoposto di Lo Giudice, accompagnò il cugino per un appuntamento tra il 2006 e il 2007. Villani ha precisato che in quell'occasione entrò "spinto dalla curiosità perché Lo Giudice mi teneva fuori. Ed io diffidavo in parte di lui".
Solo successivamente, ha specificato Villani, capì che quell'uomo dal volto sfregiato e la donna erano gli stessi di cui tempo prima gli parlò "il Nano" descrivendoli come appartenenti ai servizi segreti deviati. Al termine dell'appuntamento, infatti, Lo Giudice non diede alcuna spiegazione al cugino, né quest'ultimo chiese alcunché. "Essendo che avevo raggiunto il vertice della cosca (con il grado di santista, ndr) volevo spiegazioni - si è giustificato Villani - del perché si stava proseguendo su questa strada" dei "contatti con elementi dello Stato", ma "mi guardavo bene da Nino e Luciano Lo Giudice, cercavo di indagare a loro insaputa per non fare scattare un campanello d'allarme e riguardare la mia incolumità". "Fui quasi certo" dell'identità dei due soggetti, ha aggiunto, "con le lamentele di Cortese", il quale esternò all'ex boss che i due Lo Giudice "prendevano un sacco di merce dalla profumeria, 8 o 10mila euro di articoli, per regalarla a questi due personaggi" oltre al fatto che il proprietario della profumeria "andava a fare dei pedinamenti nel Basso Ionio Catanzarese su incarico di Nino e Luciano, a tenere d'occhio questo personaggio (dal volto sfregiato, ndr) che, presumibilmente, abitava in quelle zone". Cortese, ha aggiunto Villani "procurò anche qualche partita di droga, piccole dosi di cocaina per uso personale" all'uomo e alla donna descritti da Lo Giudice come "legati al clan catanese dei Laudani, ma che operavano anche in autonomia per conto delle varie organizzazioni quando c'era qualcosa da fare per portare instabilità a livello di Stato". Erano, ha specificato il pentito, "anello di congiunzione tra le varie organizzazioni criminali, Cosa nostra, 'Ndrangheta e Camorra" per "fare un attentato, una strage o reperire armi".
In più, ha affermato Villani rispondendo al pm Paci, il collaboratore avrebbe appreso dal cugino di un ruolo ricoperto dai due personaggi nella strage di via d'Amelio. Un ruolo "di partecipazione alla strage, esecutiva e di organizzazione, non so precisamente e Lo Giudice non lo approfondì. Mi disse che erano presenti sul luogo", così come "il Nano" parlò di una qualche partecipazione nella strage di Capaci.
Secondo Villani l'esplosivo usato per quelle stragi sarebbe provenuto proprio dalla Calabria. Ma, ha aggiunto, "io parlo di ciò che ho sentito in giro, da Lo Giudice, dalla mia famiglia e anche all'esterno". "Il Nano", ha spiegato, "mi disse intorno al 2002 o 2003" che "avevano partecipato anche i calabresi a questa decisione di attaccare lo Stato". Anche se "una parte delle cosche non aveva aderito", ha proseguito Villani, "i De Stefano avevano avuto un ruolo di appoggio e benestare" oltre a "mettersi a disposizione in quanto disponevano di un grande potenziale di armi. Questi erano i discorsi che si facevano". Secondo Villani, nonostante i più che consolidati rapporti tra Cosa nostra e 'Ndrangheta, l'uomo e la donna di cui parlava Lo Giudice venivano usati per "colpire lo Stato" proprio per il disaccordo esistente in merito tra le cosche. "Per l'esplosivo si parlava di stragi - ha precisato ancora il collaboratore - poi mi è stato fatto il riferimento da Lo Giudice a quella di Capaci", mentre "si parlava in generale di partecipazione alle stragi" riferendosi all'uomo e alla donna considerati parte dei servizi segreti deviati. Le stragi stesse, ha aggiunto in un secondo momento, erano state fatte "per portare instabilità a livello di Stato" in quanto "all'epoca magistrati di Palermo avevano intrapreso una strada che andava a toccare alti personaggi a Roma. Fu per evitarlo che avvennero".
Perché però Villani parlò di quell'uomo dal volto butterato solo due anni dopo l'inizio della sua collaborazione? "Non ne ero totalmente sicuro, non sapevo se fosse importante o no. E avevo paura" è stata la risposta del pentito. Villani ha quindi chiarito che il nome di Giovanni Aiello non lo sentì mai. Si tratta di uno dei maggiori motivi di contrasto con Lo Giudice: quest'ultimo infatti ha sostenuto che il cugino fosse a conoscenza del cognome "Aiello", così come dei colloqui all'Asinara tra "il Nano" e Pietro Scotto durante i quali, ha riferito ieri Lo Giudice, "Scotto diede la colpa ad un certo Aiello", affermando poi di aver riferito di quei dialoghi a Villani. Che, da parte sua, sostiene di esserne sempre stato all'oscuro.
Il processo è stato quindi rinviato al 25 per l'escussione di Giovanni Aiello, Pietro Scotto, e Gaetano Scotto, le cui deposizioni sono state ammesse dalla Corte. Non sono invece "apparse necessarie" le testimonianze di Antonio Cortese, del comandante della polizia penitenziaria e del direttore del carcere dell'Asinara.
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