di Miriam Cuccu
L'ex funzionario di Polizia in sede di controesame
E’ un’udienza fiume il controesame di Vincenzo Ricciardi, ex funzionario di Polizia e tra i componenti del gruppo investigativo Falcone e Borsellino che si occupò delle indagini sulla strage di via d’Amelio. Ma che lascia ancora parecchie zone d’ombra sulla gestione dei pentiti poi giudicati inattendibili che portarono alle condanne di persone innocenti grazie ad un colossale depistaggio.
Ricciardi racconta, al processo Borsellino quater, di essere stato aggregato alla Squadra Mobile di Palermo prima, e al gruppo Falcone Borsellino poi, entrambi diretti da Arnaldo La Barbera (oggi deceduto). “Credo per volontà del prefetto Rossi” dice il teste, aggiungendo poi di non avere avuto esperienze pregresse di “delinquenza palermitana”. Cosa che verrà ripetuta più volte nel corso dell’udienza, insieme all’impossibilità di ricordare molti dei fatti che riguardarono le primissime indagini sulla bomba del 19 luglio '92.
Come nel momento in cui l’avvocato Di Gregorio chiede maggiori delucidazioni sui criteri con cui si svolgevano gli accertamenti investigativi: “Come posso ricordare? Ero l’ultima persona indicata per le indagini, non conoscendo la città di Palermo e i personaggi”, spiega Ricciardi, quando gli viene chiesto come si arrivò al nome di Salvatore Candura (falso pentito che si autoaccusò del furto della 126 imbottita di tritolo). E sul perché Candura venne portato proprio al commissariato Liberà per essere interrogato, seppur con l’iniziale pretesto del reato di violenza carnale: “Non lo portammo alla Squadra mobile perché gli uffici erano occupati da centinaia di poliziotti e presidiati dai mass media. Temevamo una fuga di notizie. Chi lo ha deciso? Non lo so, mi chiedete troppo! A me non me l’ha detto nessuno, o può darsi di sì ma non mi ricordo. Se lo sapevano i magistrati? Credo di sì, però non avevo io i contatti”. Poi la fuga di notizie ci fu lo stesso. Come è dimostrato da una relazione di servizio datata 6 settembre '92 (due giorni dopo l’arresto di Candura) motivata dal fatto di aver appreso del coinvolgimento del falso pentito nella strage di via d’Amelio da organi di stampa. “Il paradosso – commenta l’avvocato Repici durante il controesame – è che se non ci fosse stata fuga di notizie quella relazione non sarebbe mai stata scritta”.
Quel che rimase degli oggetti di Borsellino
Durissimo, il funzionario di Polizia, sul ritrovamento degli oggetti appartenuti al giudice Borsellino dopo la strage. Il teste confonde anche le date, indicando il 21 luglio come il giorno in cui scoppiò la bomba che uccise il magistrato e i cinque agenti di scorta.
La borsa e l’agenda marrone di Borsellino che il magistrato Fausto Cardella vide sulla poltrona del capo della Mobile Arnaldo La Barbera? “Mai sentito parlare” risponde il teste, che non lesse un solo verbale in merito, o seppe della consegna del verbale di sequestro e della consegna ai familiari. Figurarsi dell’agenda rossa, o della misteriosa intrusione nel villino di Villagrazia, residenza estiva della famiglia Borsellino. “Né io né il personale che stava con me ha mai parlato di questo. Sono andato per un altro tipo di indagine”. Indagine che, però, parte anche dal sequestro e dalla repertazione degli effetti personali di Borsellino.
Pista Scarantino: "Ero il suo agente immobiliare"
Fu proprio il gruppo Falcone e Borsellino ad interessarsi della tutela di Vincenzo Scarantino, altro falso pentito il cui nome fu fatto proprio da Candura. Inizialmente i poliziotti intervennero su disposizione del gip di Caltanissetta, come da consuetudine. Ma quando l’ex collaboratore entrò ufficialmente nel programma di protezione? “Scarantino mise come condizione per la sua collaborazione che voleva avere qualcuno di Palermo che stesse con lui” risponde Ricciardi. In virtù di quale autorizzazione non è dato sapere, visto che per tutti i collaboratori è lo stesso Servizio centrale di protezione, insieme alla polizia territoriale del luogo, ad occuparsi della sua tutela. “Non lo so, io mi occupavo esclusivamente del suo trasferimento. In quel periodo (da giugno a dicembre ’94, quando termina il periodo di aggregazione al gruppo investigativo, ndr) mi sentivo il suo agente immobiliare, Scarantino cambiava casa cinque o sei volte perché non si sentiva sicuro”. Di questa “sovrapposizione di ruoli”, però, non si trova alcuna traccia scritta, nonostante tre o quattro uomini si recassero continuamente nel luogo in cui di volta in volta risiedeva il falso pentito della Guadagna insieme alla famiglia. “Posso dire che se Scarantino fosse stato tutelato dalla territoriale - riflette il teste - secondo me la sua collaborazione sarebbe durata due giorni, per i suoi capricci. Oltre a un’auto di vigilanza davanti casa non credo avrebbero fatto altro. Ogni tanto Scarantino dava in escandescenze e il Ministero diceva di cercare di farlo stare sereno”.
Indagini e interrogatori fantasma
“Nelle indagini non c’è quasi mai stata un’attività d’iniziativa – racconta Ricciardi – si è trattato sempre di deleghe”, parlando anche delle attività di riscontro alle dichiarazioni rese da Scarantino. “Nei suoi confronti ero prevenuto, non mi piaceva” poi però si affretta a precisare che si trattava unicamente di “perplessità” non corroborate da alcun elemento. “Se ne parlai con qualcuno? Può darsi… sicuro con il dottor La Barbera e la dottoressa Boccassini, separatamente. Lui mi ha fatto capire che la pista era buona e genuina. Lei era una sfinge, non ebbe alcuna reazione”.
In uno degli interrogatori di Scarantino, in cui Ricciardi era presente insieme a La Barbera “per esigenze investigative”, il teste ricorda che il falso pentito parlò dell’apertura della carrozzeria di Orofino (indicata dal pentito Gaspare Spatuzza come il luogo in cui sarebbero state prelevate le targhe da sostituire a quella della Fiat 126, mentre per Scarantino era il posto in cui la stessa auto fu imbottita di esplosivo, ndr) mimando un gesto che non corrispondeva alla reale apertura della saracinesca, precedentemente verificata da Ricciardi durante un sopralluogo. Eppure di questa contraddizione non c’è alcuna traccia nel verbale. “Non ricordo se presi appunti – dice Ricciardi – non ricordo nemmeno l’interrogatorio. Però se c’è la mia firma…”. Insomma, l’episodio non destò particolare clamore: “Non era la prima volta che Scarantino era impreciso ed entrava in contraddizione – spiega il funzionario – noi, comunque, non siamo mai intervenuti”. “Scarantino parla di una lite con lei sul punto” ribatte l’avvocato Scozzola. “Assolutamente no”, replica Ricciardi.
Misteri. Come per i sopralluoghi a Boccadifalco con Scarantino. “Credo di aver fatto dei riscontri” dice Ricciardi. Ma agli atti non esiste neppure un verbale.
O come sul motivo per cui La Barbera, anche quando fu promosso questore di Palermo, continuò ad interessarsi alle indagini sulla strage di via d’Amelio nonostante l’incompatibilità dei compiti. “Anziché andare nell’ufficio al secondo piano della Criminalpol - dice Ricciardi - si andava a riferire nell’ufficio del questore”.
Sugli omicidi dei quali Scarantino si è autoaccusato, continua il teste, “ci abbiamo lavorato, ci sarà una delega da parte dell’autorità giudiziaria. Io cosa ho risposto in quella delega non lo so dire”. “Lei si ricorda che altri collaboratori di giustizia ne parlavano in maniera contrastante? Sul punto alla Procura di Caltanissetta non è arrivato nulla da parte del gruppo Falcone e Borsellino – replica Scozzola – è possibile che tra voi colleghi non ne abbiate parlato?”. La risposta è sempre la stessa: “Certe cose non le ricordo. Non so che dire”, nonostante Ricciardi parli di “un continuo scambio di informazioni su tutto” con gli altri componenti del gruppo investigativo. E sul racconto folkloristico reso da Scarantino della presunta “combinazione” come uomo d’onore: “Non ricordo perplessità. Se non è parso strano ai miei colleghi non lo fu neanche a me". "Io - dice in seguito - non lo sapevo prima e non lo so neanche adesso cosa sia un uomo d’onore”.
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