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scarantino-la7-effdi Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 27 maggio 2015
“Dopo tanti colloqui investigativi si entra in un rapporto più diretto con La Barbera. Mi spiegava le sue indagini come per Gaetano Murana, io glielo dicevo: ‘Murana non c’entra nulla, era un lavoratore’. Lui mi diceva che era nelle sue indagini. Poi si parlava di Riina, di Aglieri per assumere quello che io dovevo memorizzare”. E’ così che Vincenzo Scarantino ha spiegato il “modus operandi” con cui l’allora Questore, assieme ad altri membri del gruppo Falcone e Borsellino, lo avrebbero indotto a mentire sulla strage di via d’Amelio. “In un primo momento io dissi: ‘Se volete che io mi accuso della macchina io mi accuso ma La Barbera mi dice: ‘No della macchina lo sappiamo’. Io mi dichiaro anche disponibile a collaborare per la vicenda della droga ma niente, a loro non interessava. Vengo anche accusato di cose non vere”. In merito alle sue dichiarazioni sulla riunione avvenuta nella villa di Giuseppe Calascibetta durante la quale sarebbero state prese decisioni riguardo la Strage di Via d'Amelio il picciotto della Guadagna ha spiegato che loro (riferito a La Barbera, Bo, ed altri, ndr) mi dicevano che pià nomi facevo e più importante ero. Io parlavo con Gampiero e questi diceva che ‘Il dottor Falcone è morto di una cosa mostruosa e io da poliziotto dico che era cattivo’. Mi mostrano gli album delle fotografie. C’era anche Profeta. Io dissi che mio cognato era innocente ma La Barbera insisteva: ‘No è colpevole e quello sarà la tua patente della collaborazione’. Poi mi hanno fatto vedere le fotografie della strage della ragazza che era nell’albero… tutte queste cose… e questo mi ha toccato…”. Tornando al summit a casa di Calascibetta il falso pentito ha aggiunto: “Io leggevo qualche giornale, si parlava dell’esplosivo, sono andato nel carcere di Termini Imerese. Su Rai3 si parlava delle riunione per fare le stragi, io ascoltando queste cose e quando il dottor La Barbera mi chiede dove era stata fatta la riunione io indicai Calascibetta che era latitante. Così lui mi fa vedere l’album chiedendomi chi c’era a quella riunione. E io rispondevo. Come sono infame per uno sono infame per 20 e io li ho accusati. Queste persone erano nelle sue indagini e lui me lo faceva capire”. A quel punto i pm Paci e Luciani hanno chiesto come faceva a conoscere alcune figure come Giuseppe Barranca o Renzino Tinnirello. E Scarantino ha risposto: “Io come conoscenza sapevo chi erano Aglieri, Profeta, Murana, Tinnirello, Barranca, queste persone le conosco, ma non come amici”.
Scarantino ha anche ricordato il confronto avuto con il pentito Salvatore Cancemi. “Mi ha fatto nero - ha ricordato alla Corte - Mi diceva: ‘Ma chi ti ha detto queste cose?’ Io guardavo il dottor La Barbera, ma non mi chiese se poi era stato lui a dirmi tutto. Poi accusavo Giovanni Brusca e Santino Di Matteo”. Alla domanda su chi gli avesse detto di accusare i pentiti Scarantino ha risposto: “Non è che mi dicevano di accusare, si parlava, si dialogava… quando c’era l’album fotografico… era come dire facciamo questo o facciamo quello…. Con certi verbali sono andato in confusione… Aderivo a questa forzatura, si scendeva a un compromesso, si dialogava. Poi ricordo che quando non riconoscevo qualcuno nell’album alla fine loro leggevano i nomi ed io alla volta successiva non mi sbagliavo. Queste cose me le faceva La Barbera, io per lui ero una creatura importante”.
Il processo è stato poi rinviato a domani quando, a partire dalle ore 9, potrà proseguire l’esame dei pm.


Borsellino quater, Scarantino: “La Barbera diceva che dovevo essere il clone di Buscetta”
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 27 maggio 2015
“Io dovevo essere il clone di Buscetta, questo lo diceva La Barbera e tutti quanti”. E’ una deposizione fiume quella dell’imputato Vincenzo Scarantino, ascoltato oggi a Caltanissetta nell’ambito del processo Borsellino quater dove è accusato di falsa testimonianza. Scarantino ha detto di aver avuto rapporti, prima dell’inizio della sua collaborazione, “sia con il dottor Bo che con il dottor La Barbera, nel carcere di Pianosa”. “All’inizio - ha aggiunto - quando iniziai a fare i colloqui investigativi il primo a venire fu La Barbera, io dicevo che Andriotta diceva falsità, gli dicevo che lui mi aveva detto che loro mi impiccavano e La Barbera annuiva con la testa. Poi mi ha chiesto se mio padre, mia madre e mia sorella stessero alla Guadagna facendomi capire che avrebbe arrestato mio padre. Avevano arrestato già i miei fratelli e lui mi disse ti arresto tuo padre, tua madre, tua sorella, mi è sembrata una intimidazione. non mi sembrava di parlare con un esponente dello Stato, tutt’altro. Io ho fatto sciopero della fame a Pianosa per poter parlare con i magistrati. Mi hanno abbattuto come uno scemo… Io mai ho chiesto alla guardia per dirgli che io volevo collaborare. Parlando con questi investigatori per dare la dimostrazione che non c’era omertà ho detto: se volete che mi accuso della macchina io mi accuso, e La Barbera mi ha detto che ‘della macchina già lo sappiamo, che l’hai portata tu ma devi dire altri nomi di chi ha fatto la strage’”. A quel punto il racconto si è fatto sempre più drammatico: “Io non ce la facevo più… mi mettevano i vermi, i peli nel cibo… facevano la pipì nella minestra”. Parlando di Andriotta, rivolgendosi alla Corte, Scarantino ha aggiunto che “in una cella di fronte a me c’era un turco. Si chiamava Nadir. Con certi gesti mi diceva che Andriotta si era fatto spione che era un collaboratore di giustizia della polizia”.


Borsellino quater, Scarantino: “L’arrivo di Spatuzza è stato come cancellare un floppy nella mia testa”
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 27 maggio 2015

L’arrivo di Spatuzza, nel 2009, e il nuovo interrogatorio da parte della Procura di Caltanissetta è stato come “cancellare un floppy che era nella mia testa”. E’ così che l’imputato Vincenzo Scarantino, ha risposto alle domande dei pm al Borsellino quater, parla dell’ultima ritrattazione nel 2009. “Questo fatto - ha detto il picciotto della Guadagna - mi ha portato tanta sofferenza. Io non mi ricordavo più niente. Io ero innocente. Ma mi ero convinto di tante cose. Come i rapporti con i mafiosi. Ero arrivato ad un punto che non sapevo più cosa era verità e cosa bugia. Per questo dissi anche che avevo lavorato con Pietro Aglieri ma io non lavoravo con lui. Ci lavorava mio fratello. Io sapevo chi era come conoscevo Greco ma non di più”. Parlando delle accuse a lui fatte da Candura nel ’92 ha aggiunto: “Mi hanno coinvolto in questo fatto. Ai primi di settembre del ’92 abbiamo fatto la festa alla Guadagna… ho fatto venire il cantante Enzo Di Domenico, Candura mi ha fatto il filmino e le foto con Enzo Di Domenico… poi viene arrestato Candura e trovano questo filmino e queste fotografie… saranno state tre le volte che ho avuto rapporti con Candura. Una volta tramite mia zia Pietrina, poi un’altra volta e poi quando mi fece il filmino. Io a Candura non lo conosco, non l’ho mai utilizzato per vendere sostanze stupefacenti. Io stavo sempre alla Guadagna, più di là non mi muovevo. Io a Valenti non lo conosco. So che ha una famiglia con forti problemi psicologici, se ne parlava alla Guadagna. Ma mai ho avuto rapporti con loro”. Durante la deposizione il “falso pentito” della strage di via d’Amelio ha anche parlato del periodo di detenzione in carcere con Vincenzo Pipino, noto ladro d’arte italiano: “A Venezia ho iniziato lo sciopero della fame perché volevo parlare con i magistrati. Una sera entra nella mia cella Pipino Vincenzo con una busta piena di cioccolate, biscotti… io era tanto che non mangiavo… e lui mi diceva di mangiare… erano un paio di settimane che stavamo assieme in cella… Pipino ha tentato di convincermi a mangiare e io ho ceduto e ho mangiato qualche cioccolato, Pipino era una brava persona in apparenza… mi chiese perché ero in carcere… e io dissi della strage di via D’Amelio… io ero troppo legato alla mia famiglia e piangevo disperato per dire che ero innocente… e lui mi ha detto: stai attento, quando ti chiedono basta che dici che sei colpevole di essere innocente… e in effetti è vero… Io piangevo e gli ho detto che ero innocente, e che mi hanno accusato ingiustamente… Pipino mi diceva di non parlare con nessuno…”. Scaranitno ha confermato anche che Pipino gli parlava della presenza di cimici in carcere ed inoltre aggiunge che secondo lui quest’ultimo era stato messo in carcere per stimolarlo a parlare e che a suo parere era un confidente della polizia: “Lui mi raccontava che era Arsenio Lupin di Venezia e che conosceva molto bene La Barbera, lui era un ladruncolo di cose d’arte. A me mi ha arrestato LA Barbera e mi porta a Venezia… Di queste cose ho parlato con i poliziotti del gruppo Falcone e Borsellino e ci ridevamo su, io raccontavo le cose e loro mi confermavano… ricordo di Giampiero che era forse il caposcorta di La Barbera e faceva la scorta alla dott.ssa Boccassini…”. Quindi ha aggiunto quanto dichiarato in precedenti dichiarazioni “Giampiero mi aveva detto che Pipino era un confidente del dott. La Barbera”. Alla Corte presieduta da Antonio Balsamo Scarantino ha raccontato anche del primo interrogatorio del 6 maggio 1993: “Eravamo a Busto Arsizio, c’era La Barbera, Cardella ed io ricordo anche la Boccassini (anche se il sottolinea come quest’ultimo dato non risulti, ndr). Mi dissero che c’erano pentiti che mi accusavano, mi dissero che per la droga mi avrebbero rovinato. Io dissi fate quello che volete ma io sono innocente su via D’Amelio. Poi La Barbera lo vidi tante volte a Pianosa prima della mia collaborazione”. Scarantino ha poi parlato del suo rapporto con l’altro falso pentito Andriotta: “Era nella cella accanto alla mia a Busto Arsizio. Mai ho concordato delle dichiarazioni. C’era una guardia di fronte a me che non mi lasciava mai solo… c’erano cose di cui parlavo con la guardia. Non ho ricordo di aver dato fogli di ordinanze o altro a lui”. E poi ancora: “Andriotta mi parlava di Gioè di questa persona… ammazzato in carcere, si parlava di questo. Andriotta mi diceva che Gioè era stato impiccato dalla polizia e che dovevo stare attento. Gli dissi che se a me mi devono impiccare mi devono acchiappare e poi rimangono i lividi. Andriotta mi disse che dopo mi avrebbero messo nel congelatore e non si sarebbe più visto l’ematoma”.


Borsellino quater, Scarantino: “Terrorismo psicologico contro di me per indurmi a collaborare”
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 27 maggio 2015
“Questa collaborazione non era frutto mio. C’è stato tanto dolore, io non ho subito solo il pestaggio, ma soprattutto un terrorismo psicologico. E’ soprattutto questo ad indurmi a collaborare”. E’ così che il “falso pentito” Vincenzo Scarantino ha iniziato la sua deposizione al processo Borsellino quater, in corso davanti alla corte d’Assise di Caltanissetta. Rispondendo alle domande del pm Paci Scarantino sta spiegando i motivi per cui dopo l’arresto, nel settembre 1992, è arrivato ad accusare se stesso ed altri di aver preso parte all’esecuzione dell’attentato di via d’Amelio. “Venni arrestato nel 1992 - ha detto - mi accusavano Candura e Valenti ed arrestarono me e mio cognato Salvatore Profeta. La Barbera arriva e mi contesta l’accusa di strage. Io sono caduto dalle nuvole, tutto mi potevo aspettare… mi sentivo morire. Io ero detenuto a Pianosa, sono stato un anno e sette mesi in isolamento. Poi iniziai a collaborare ma già nel ’95, durante alcuni accertamenti dissi che non ero stato io”.
Scarantino ha poi ricordato i motivi che lo indussero nuovamente a ritrattare nel 2002, confermando la prima versione: “Nel’99/2000 c’era Vito Lo Forte nel carcere di Velletri, quando mi vede dice delle cose, chiede chi mi aveva portato a ritrattare dicendo che questi appena uscivano ammazzano i miei figli, i miei fratelli, Profeta stesso, la mia famiglia… e poi a me, ‘ma chi cavolo te lo fa fare? Ma questo Scotto se li mangia i tuoi figli… tu ascolta me… mi ha raccontato il fatto che i due mafiosi avevano preso Francesco Andriotta… con Lo Forte siamo entrati in confidenza… mi ha fatto esaurire… lui era uno spione dei carceri e l’hanno mandato da me… lui pure mi ha detto dov’era via D’Amelio… io non sapevo dov’era via D’Amelio… lo incontro nel 2000 e poi è tornato un’altra volta. Nel ’99 poi incontro anche Pippo Ferone (un altro pentito, ndr) che mi parla che gli hanno ammazzato un figlio. Anche lui diceva che ero un pazzo perché avevo detto la verità…”.


Al Borsellino quater è il giorno di Scarantino
di Aaron Pettinari - 27 maggio 2015

“Pupo vestito”, si era autodefinito Vincenzo Scarantino. Falso pentito è stato chiamato assieme a Salvatore Candura, Calogero Pulci e Francesco Andriotta, da quando l'ex boss di Brancaccio, Gaspare Spatuzza, ha riscritto parte della storia della strage di via d'Amelio. Oggi Scarantino, salirà sul pretorio dei testimoni al processo Borsellino quater, dove si trova imputato assieme a Salvatore Madonia, Vittorio Tutino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Ancora una volta, così come aveva fatto il giorno della sua “ritrattazione pubblica”, il 15 settembre '98 nell'aula bunker di Como, tornerà a raccontare il dramma vissuto in carcere che lo portò ad auto accusarsi di aver rubato la Fiat 126 usata per l'attentato, di averla riempita di esplosivo e collocata davanti la casa della madre di Borsellino. Una lunga serie di vessazioni e costrizioni indotte dagli uomini di Arnaldo La Barbera, il super poliziotto, collaboratore dei Servizi Segreti con il nome in codice Rutilius, che aveva il compito di guidare la squadra speciale Falcone e Borsellino, nata proprio per indagare sulle due stragi.
Di fronte alla Corte allora disse: “A Pianosa ho passato quaranta giorni indimenticabili. Scrivevo sui muri del bagno che se io facevo il bugiardo era perché mi volevano ammazzare. La Barbera mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato 200 milioni. A me non interessavano i 'piccioli' (soldi, nda). Tutte bugie. Ho inventato tutto io, assieme alla polizia e insieme ai giornali. L'unica cosa vera, è la droga, che io lavoravo con la droga. Io con chiunque ho parlato, con i pm, che Dio mi perdoni, ho giurato falsamente”. Lo stesso aveva ribadito successivamente, all'aula bunker di Roma: “Io di mafia non so niente. Sulla strage Borsellino ho inventato tutto. Ad esempio, avevo descritto il percorso fatto per portare la 126 a via d'Amelio, ma nemmeno sapevo dove era questa strada e infatti il dottor La Barbera, mi fece notare che non andava bene e così io corressi il percorso”. Nonostante quelle ritrattazioni i processi proseguono. Del resto c'era già stata la sentenza di primo grado (27 gennaio 1996, ndr) dove la Corte d'Assise di Caltanissetta condanna all'ergastolo Giuseppe Orofino, Pietro Scotto e Salvatore Profeta. Vincenzo Scarantino riceve una condanna a 18 anni di reclusione (la stessa non viene appellata dall'imputato diventando così definitiva). In appello (1999) ad Orofino la pena viene ridotta a 9 anni, mentre Scotto viene addirittura assolto per non aver commesso il fatto. L'anno successivo la sentenza viene confermata dalla Cassazione. Sempre in quegli anni vengono istruiti i filoni paralleli del processo per la strage di via d'Amelio denominati “bis” e “ter”. Ed anche nelle sentenze di questi due processi non mancano riferimenti alla schizofrenica “collaborazione” di Vincenzo Scarantino con il “Borsellino-bis” che si limita a ritenere credibili solo alcune delle sue dichiarazioni mentre nel “Borsellino-ter” i giudici di primo grado mettono nero su bianco che Scarantino “non aveva titolo a venire coinvolto, con piena cognizione di causa, nella fase preparatoria di un’operazione delicata, dal punto di vista criminale, come l’uccisione di Paolo Borsellino”. La Corte di Assise di Caltanissetta scrive il 9 dicembre '99 che delle dichiarazioni rese da Vincenzo Scarantino “non si debba tenere alcun conto per la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle responsabilità in ordine alla strage di via D’Amelio”.
In mezzo a tanti dubbi che hanno percorso tre gradi di giudizio, e la nuova ricostruzione che nell'ottobre 2011 ha portato l'allora procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, ad avanzare alla Corte di Appello di Catania l'istanza di revisione dei processi per la strage di via D'Amelio “Borsellino I” e “Borsellino bis”, restano tanti lati oscuri per districare il mistero del “pentito fantoccio”. Perché nelle dichiarazioni del picciotto della Guadagna sono presenti anche delle verità? La Barbera ed i suoi uomini erano al corrente anche di elementi giusti?
Domande legittime che forse possono aprire ad ulteriori scenari d'indagine su un depistaggio notevolmente complesso e che, forse, potrebbe andare oltre alle semplici dichiarazioni false di Scarantino. Un'amara realtà che diventa dramma nel racconto di un uomo che dopo anni di torture, fisiche e psicologiche, ha trovato la forza di parlare, ancora una volta, anche a costo di subire una nuova condanna.

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