All'audizione di oggi ascoltati anche Malvagna e Grazioso
di Aaron Pettinari e Miriam Cuccu - 29 maggio 2014 - Audio
L'ultima udienza della trasferta romana per il Borsellino quater si è aperta con l'audizione del collaboratore di giustizia Ciro Vara, ex uomo d'onore fedelissimo al boss Piddu Madonia “personaggio che mi ha portato in Cosa nostra, con il quale ho avuto una grande amicizia” poi arrestato nel settembre del '92. Durante la sua latitanza, ha spiegato Vara, “Madonia si spostava nella zona di Enna, nelle campagne di Calascibetta, a Villa Rosa” ma anche “a Milano per grossi traffici di droga”. Questo, ha ricordato, “soprattutto durante le vacanze di Natale”. In un'occasione però, afferma il pentito, Madonia non si recò a Milano: “Era il 23 dicembre del '91... mi aveva fatto chiamare a Bagheria”. Madonia gli disse che non sarebbe andato a Milano perchè aveva “degli impegni importanti” riferendosi alla sentenza del maxiprocesso, che sarebbe stata emessa a gennaio del '92 e fu secondo Vara “il motivo scatenante della strategia stragista dei corleonesi”. Nei confronti del maxi, ha dichiarato ancora il collaboratore, “Cosa nostra aveva un'attenzione particolare” soprattutto “per contattare i giudici popolari, qualche magistrato che ha partecipato a quel processo è stato avvicinato e qualcuno era anche disponibile ad andare incontro alle esigenze dell'organizzazione”. Un nome su tutti? “Il dottor Signorino” che Vara sentì nominare da Piddu Madonia: “Mi aveva detto che il dottor Signorino avrebbe fatto sapere che avrebbe fatto la sua parte, per quello che era possibile, cercando nelle sue requisitorie di dare condanne un po' più leggere”. In riferimento ad Ayala, invece, Madonia, che “sapeva tutto di tutti nel palermitano” mi diceva che “era chiacchierato, aveva il vizio delle carte” ma niente di più.
Cosa nostra non puntava solo alla magistratura per una revisione del maxiprocesso, ha precisato Vara, “ma soprattutto all'imprenditoria e alla politica”, in particolare “i cugini Salvo, Lima, Andreotti”.
Riina in particolare aveva “un rapporto con Mario D'Acquisto, che Madonia mi disse essere uomo d'onore riservato dei corleonesi”. Sempre in riferimento ai legami tra mafia e politica Vara ha ricordato che Madonia gli disse che “c'è chi parla con Berlusconi, e Berlusconi parla con Craxi”, cioè “c'era un canale privilegiato anche con Craxi”, e le dichiarazioni che faceva contro la mafia “erano solo di facciata” perchè tanto “le faceva anche Andreotti”, e nella Dc “quasi tutte le correnti politiche erano vicine a Cosa nostra”. Molto probabilmente, ha riflettuto il pentito, il personaggio che parlava con Berlusconi “era Dell'Utri, ma si tratta di una mia deduzione”. Per mettere i bastoni tra le ruote al maxiprocesso “si cercava anche di far allontanare Falcone da Palermo con un incarico di prestigio a Vienna per cose di droga a livello internazionale”.
Quando invece si stava decidendo di pianificare la strage di via D'Amelio per uccidere Paolo Borsellino “ombra e braccio destro di Falcone”, “Giuseppe Napoli mi ha raccontato che Cosa nostra” tramite un certo Tombaretto “dopo la strage di Capaci ha cercato di avvicinare il presidente Piraino Leto, suocero di Borsellino” per dirgli che suo genero “doveva mettersi da parte”, ma Piraino Leto “l'ha mandato a quel paese e non l'ha neanche fatto finire di parlare”. “solo dopo – ha continuato – ho capito che l'espressione di Giovanni Napoli era riferita a questa vicenda della trattativa”, per “il contesto in cui c'è stato il discorso”. Napoli era “fedelissimo di Bernardo Provenzano” e “ha custodito la sua latitanza” quando “è stato arrestato Benedetto Spera” e Provenzano “era nei pressi di quel covo e ha visto tutto”. “Già a novembre 93, dopo le stragi” ha poi proseguito il collaboratore “Provenzano stava adottando un'altra strategia... stava cercando di avere contatti anche attraverso la Chiesa” per “cercare di ammorbidire questa repressione dello Stato”.
Vara ha ricordato che cercò di corrompere un giudice popolare nel processo “per l'omicidio Basile, perchè era coinvolto Piddu Madonia... mi stavo interessando tramite l'ingegnere Mancuso, professore universitario e uomo d'onore”. Questa azione andò a buon fine: “Disse che non c'erano problemi, si era mostrato disponibile”.
Il collaboratore è poi passato a parlare dei legami tra mafia e massoneria: “Piddu Madonia mi disse che in ogni provincia dovevano esserci due soggetti che facessero parte della massoneria, mi aveva chiesto di farne parte ma io stupidamente rifiutai, altrimenti ora chissà quante cose belle avrei potuto dire”.
La riunione di Enna
Imparentato con i Santapaola-Pulvirenti di Catania, il pentito Filippo Malvagna ha raccontato della storica riunione svoltasi nella zona di Enna alla fine del '91: “La circostanza mi è stata raccontata da Giuseppe Pulvirenti, detto il Malpassoto, che lo seppe da Benedetto Santapaola... partecipò la commissione regionale... Riina aveva avanzato delle proposte che si dovevano essere messe in atto in quanto l'organizzazione veniva particolarmente colpita da interventi delle forze dell'ordine, e il maxiprocesso non si era potuto sistemare”, “bisognava mettere in atto delle azioni per trovare nuovi referenti politici, un punto d'aggancio per ottenere benefici... azioni eclatanti”, una “tipologia di pressione anche nei confronti della popolazione che così si sarebbe ribellata e lo Stato sarebbe dovuto scendere a patti”. “Riina disse in particolare 'bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace' questo me lo riferì Pulvirenti”. “Si parlava di organizzare e reclutare persone possibilmente incensurate, stipendiarle per acquisire informazioni sugli usi e sui luoghi frequentati da alcuni esponenti della politica e delle istituzioni”, “si doveva procedere a fare atti intimidatori o attentati”.
“Mi fu anche detto – ha proseguito il pentito – che queste cose dovevano essere fatte in modo particolare, non dovevano essere ricondotte all'organizzazione mafiosa ma bisognava confondere un po' le idee usando la rivendicazione terroristica con la sigla Falange Armata”.
“Il gruppo Santapaola si attivò poi per segnalare una falsa autobomba alla caserma dei Carabinieri di Catania in piazza Giovanni Verga”, ma “nel 1992 cominciammo ad avere problemi nell'organizzazione, le prime collaborazioni con la giustizia, gli ordini di carcerazione, e a novembre del '92 siamo diventati latitanti”. Si è quindi “un po' allentata l'attuazione di questo programma”. In seguito, “Nel '93 dopo l'arresto di Riina vengono a Catania Gioè e La Barbera insieme ad un personaggio di Palermo strettamente collegato a Giovanni Brusca, Angelo Romano. Vengono a dirci che bisognava fare un attentato a Roma nei confronti del giornalista Maurizio Costanzo”. “Dovevamo partire e unirci ai palermitani – ha ricordato Malvagna – però Malpassoto specificò che noi con le autobombe non eravamo capaci, lo avremmo fatto nel modo tradzionale”. Successivamente, però, “ho dovuto abbandonare il progetto perchè il 25 marzo '93 sono stato arrestato”.
In riferimento agli attentati ai danni dei magazzini Standa Malvagna ha dichiarato che “la maggior parte è stata fatta in provincia di Catania... ma l'azione era dei catanesi insieme ai palermitani di Riina. Dopo c'è stata una mediazione e un accordo”.
I telecomandi da Catania a Palermo
Ultimo teste a ad essere ascoltato dalla Corte è stato Giuseppe Grazioso, collaboratore di giustizia del gruppo di “Malpassotu”. “Avevamo rapporti con altre organizzazioni criminali e nel catanese eravamo praticamente uniti ai Santapaola – ha detto rispondendo alle domande del pm Luciani – Quello che era nostro era loro e quello che era loro era nostro. Alcuni di noi erano anche uomini d'onore tra cui Pulvirenti”.
Grazioso ha riferito in merito ad una richiesta che era giunta da Cosa nostra per il reperimento di alcuni telecomandi: “Mio cugino Piero Puglisi mi chiede se era possibile trovare dei telecomandi per fare bella figura con i palermitani. Io avevo delle conoscenze così mi recai da Giuseppe Di Stefano che con i fratelli aveva una ditta per impianti di allarme ed aria condizionata. Diedi a lui il bigliettino con la richiesta e tempo dopo mi disse che si potevano ordinare e far venire da Milano. Arrivarono in due momenti diversi. Questi telecomandi li abbiamo poi dati ai palermitani. Una volta scesero proprio loro direttamente. Solo tempo dopo seppi da Gioacchino La Barbera che i palermitani venuti a prendere i telecomandi erano lui e Antonino Gioé. I corleonesi volevano far succedere la fine del mondo. C'era anche un'idea, o almeno si parlava, di fare qualcosa anche a Catania ad esempio contro il giudice Nicolò Marino”. Grazioso ha anche detto di aver saputo che Cosa nostra “voleva uccidere Maurizio Costanzo perché parlava male di qualcuno nelle sue trasmissioni”.
Infine Grazioso ha ricordato un colloquio avuto con Antonino Gioé, nel carcere di Rebibbia, proprio il giorno prima della sua morte. “Ricordo che eravamo io ed un altro, Simone Bevinati. Gioé ci chiama dalla finestra ed era molto agitato. Ci diceva che aveva avuto dei colloqui con delle persone che volevano si pentisse, che collaborasse per Riina. Parlammo anche di Capaci, disse che erano stati loro e che invece su Borsellino non sapeva nulla. Era arrabbiato. E poi la notte si è impiccato”.
Il processo si è quindi concluso ed è stao rinviato al 17 giugno quando si riprenderà presso l'aula D del tribunale di Caltanissetta.
AUDIO by Radio Radicale
Processo Borsellino quater (Strage di via d’Amelio)
Roma 29 maggio 2014 - 5h 5' 29"
Foto originale © Matias Nieto - Cover/Getty Images
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