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strage-via-damelio-big1di Miriam Cuccu - 1° aprile 2014
Davanti ai pm di Caltanissetta si celebra una nuova udienza del processo per la strage di via D’Amelio, il quater. Sull’uccisione del giudice Borsellino e degli agenti della scorta venne costruito ad arte, all’indomani della bomba, un clamoroso depistaggio sulla base delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Dopo essere stato successivamente smentito, Scarantino è imputato al processo insieme a Salvatore Madonia, Vittorio Tutino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci.
Oggi, a margine delle deposizioni dei teste, ha voluto chiedere scusa “ai familiari delle vittime e alle persone offese. Tante volte ho cercato di dire la verità. Ho detto che quelli che mi hanno condotto a mentire sono stati La Barbera, Bo, Giampiero Valenti e Mimmo Militello e mi spiace perché ogni volta devo essere giudicato come il carnefice”. I nomi fatti da Scarantino appartenevano al primo gruppo investigativo sulla strage di via D’Amelio. “Ho sempre detto che della strage non so niente – ha concluso il falso collaboratore - sono chiuso in isolamento e spero in Dio che esca la verità”.

Liliana Ferraro: “De Donno prese contatti con Ciancimino per fermare lo stragismo”
“All'inizio degli anni '80 negli uffici giudiziari di Palermo la situazione era insostenibile. Falcone aveva una stanza con due sedie senza zampe che venivano sostenute da faldoni”. A ricordare gli anni vissuti insieme a Giovanni Falcone in via Arenula l’ex vicedirettore degli Affari Penali del ministero della Giustizia Liliana Ferraro, davanti ai pm di Caltanissetta. “Conobbi poi Borsellino a Palermo, a presentarmelo fu Falcone – ha poi continuato la Ferraro – Parlammo di sicurezza dei magistrati e funzionalità dell'ufficio”. “Per farmi capire in che condizioni lavoravano - ha aggiunto - mi portarono in una stanza piena di fascicoli. Arrivavano fino al soffitto, per prenderli bisognava salire sulle sedie. Quello era l'archivio di Falcone”.
Vicedirettore degli Affari Penali al tempo in cui Giovanni Falcone dirigeva la sezione del ministero, Liliana Ferraro ha ricordato il suo incontro con l’ex capitano De Donno, imputato al processo trattativa Stato-mafia per essere stato tra gli esponenti del Ros (insieme ai generali Mori e Subranni, ugualmente sotto processo) ad aver aperto un canale di dialogo con Cosa nostra: “Il capitano Giuseppe De Donno, dopo la morte di Giovanni Falcone, prese contatti con Massimo Ciancimino, figlio di Vito, affinchè convincesse il padre a collaborare con la giustizia. L'obiettivo era fermare questo stragismo, bisognava trovare gli assassini del giudice. Noi vogliamo fare il possibile, disse”. De Donno avrebbe chiesto alla Ferraro di parlarne con l’allora Guardasigilli Claudio Martelli sostenendo che a suo avviso era necessario un avallo politico all’operazione. “Io risposi che l’avrei informato anche se non ritenevo che ci volesse il conforto del ministro, ma precisai che era necessario avvertire la magistratura e che l’avrei fatto io visto che avevamo la fortuna di avere un referente come Borsellino”. Con il giudice “ci incontrammo a Fiumicino, alla fine di giugno del ‘92. Borsellino mi disse: va bene, ho capito. Ci penso io”. Martelli, invece, “era molto irritato perché sosteneva che non avessero alcuna competenza per fare una cosa simile ritenendo che la cosa casomai spettasse alla Dia”. Con Borsellino, durante l’ultimo incontro, “parlammo invece di un rapporto, denominato 'Mafia e appalti' che era stato consegnato alla Procura di Palermo. Un rapporto in cui si era concentrato molto anche Giovanni Falcone. Un rapporto che venne consegnato anche a me, ma mi limitai solo a sfogliarlo perchè ricevetti una telefonata da Falcone il quale mi pregò di chiuderlo e mi invitò a scrivere due lettere. Poi mi disse: questi qui (Falcone si riferiva alla Procura di Palermo) cosa vogliono ottenere?” Le lettere erano destinate alla Procura di Palermo e al Csm perchè non era chiaro perchè il fascicolo fosse stato consegnato al ministero.
All’indomani dell’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, ha ricordato la Ferraro, “Giovanni Falcone riteneva che ci sarebbe stata una escalation”, una serie di attentati contro la classe politica. “Disse ‘per il momento devono ammazzare almeno un altro politico, dopo toccherà a me’. Dopo la sua morte – ha concluso – parlando con Paolo dissi che forse Giovanni non aveva pensato che era diventato lui il politico”.

Antonio Ingroia: “Mai avremmo pensato ad una trattativa in cui si incontravano le due parti”
Antonio Ingroia era uno dei magistrati – attualmente ha abbandonato la toga ed è il leader del movimento Azione Civile – che ha iniziato la sua carriera fianco a fianco al giudice Borsellino, prima a Marsala, poi a Palermo sotto la direzione del procuratore Giammanco, “del quale Borsellino diffidava completamente”. “Il primo reale interesse di Borsellino verso Palermo nasce con l’omicidio Lima – ha ricordato Ingroia – perché si tratta di un fatto enorme quanto a dinamiche e strategie criminali di Cosa nostra” perciò “Borsellino si candidò subito a seguire in prima persona l’indagine, e fu molto contrariato per il fatto che Giammanco l’avesse tenuto totalmente all’oscuro dell’indagine”. Lima era considerato anche da Falcone uno “snodo della relazione tra mafia e politica, e il fatto che avessero colpito proprio lui voleva dire che si era rotto qualcosa nelle relazioni tradizionali”. Anche per quanto riguarda la collaborazione del pentito Gaspare Mutolo, il quale “riferì subito a Vigna che voleva essere sentito da Borsellino” il procuratore Giammanco inizialmente “non ne fece parola con Borsellino, il quale s’arrabbiò con il capo della Procura che aveva provveduto ad assegnare il fascicolo ad Aliquò. Solo successivamente, Borsellino chiese ed ottenne di seguire Mutolo ma insieme al suo collega della Procura palermitana”.
Dopo la morte di Falcone, Borsellino voleva dare il suo contributo all’accertamento della verità ma, ha precisato Ingroia “aveva sempre detto che si sarebbe seduto davanti ai magistrati di Caltanissetta solo nel momento in cui avesse avuto delle certezze. Fino a quel momento non l’avrebbe fatto”.
Con lo scorrere degli ultimi 57 giorni che separano Capaci da via D’Amelio Borsellino, cui “dicevo scherzosamente che era ‘troppo aperto’”, “nell’ultimo periodo si chiuse sempre di più, tanto da abbandonare l’abitudine che l’aveva sempre contraddistinto di tenere spalancata la porta del suo ufficio” fino a ricorrere all’agenda rossa, mai più ritrovata dopo la strage del 19 luglio ‘92 “per lasciare traccia delle conoscenze acquisite”. Conoscenze che evidentemente non dovevano essere più ritrovate.
In merito al rapporto ‘Mafia e appalti’, di cui la Procura di Palermo ottenne una versione epurata di centinaia di intercettazioni, Borsellino “fece una sorta di indagine interna, chiedendo a chi si era occupato direttamente delle indagini come questa si era sviluppata” in quanto poteva trattarsi di un documento fondamentale per stabilire la genesi della strage di Capaci. Il rapporto non omissato “lo ebbe poi attraverso il maresciallo Canale”.
Borsellino, ha ricordato ancora Ingroia, “era sempre stato duro nei confronti della mafia, ma dopo la morte di Falcone il livello di intransigenza e durezza era massimo. Una volta si espresse, in una riunione ristretta, a favore dell’adozione di misure eccezionali, se non addirittura pene capitali”. In un periodo, quello risalente al ’92, nel quale si prospettava la possibilità di un ammorbidimento del trattamento carcerario per i boss mafiosi passando dalla dissociazione (una presa di distanze da Cosa nostra senza l’effettiva collaborazione con la giustizia) come al tempo del terrorismo, “se qualcuno gli avesse prospettato questo ammorbidimento sarebbe saltato in aria”. Sull’alleggerimento del 41 bis, ha riflettuto Ingroia, “si pensava ad una trattativa a distanza, ma mai lontanamente avremmo pensato ad una trattativa in cui le due parti si incontravano fisicamente” come è invece effettivamente avvenuto.

Claudio Martelli: “De Donno chiese una copertura politica”
A Claudio Martelli, ministro della Giustizia negli anni ’91-’93, va il merito di aver chiamato a Roma Giovanni Falcone per la direzione della sezione Affari Penali. Di concerto con il ministro degli Interni Scotti appoggiò il decreto-legge dell’8 giugno ’92, da Martelli stesso definito “decreto Falcone”, che sancì di fatto un giro di vite nel contrasto alla criminalità organizzata. Grazie al decreto, approvato definitivamente solo dopo la strage di via D’Amelio “sono stati sciolti decine di consigli comunali, è stata definita la legge antiracket, la legge sui pentiti, che veniva estesa anche alle famiglie, la Procura nazionale antimafia, la Dia… che rispondevano all’impulso originario venuto da Giovanni Falcone” e per il quale si andava concentrando, in corso d’esame del decreto, “un accumulo di risentimenti” all’interno dei partiti. Tanto che, ha commentato Martelli, “Senza la strage di via D’Amelio non so se il decreto sarebbe passato, perché la pressione per modificarlo e togliere le punte più incisive era molto forte”.

Anche all’ex ministro è stato chiesto conto dell’incontro avuto con Liliana Ferraro a seguito del suo dialogo con De Donno. Un particolare, questo, affiorato alla sua memoria solo nel 2009, 17 anni dopo. La Ferraro “mi disse che De Donno aveva bisogno di una copertura politica” e che “parlava a nome del colonnello Mori”, “Mi sembrava una cosa poco istituzionale e visibilmente informale, perciò mi allarmai” soprattutto “dopo il secondo incontro” tra l’ex vice degli Affari Penali e De Donno “per la richiesta del passaporto per Vito Ciancimino”, ex sindaco di Palermo definito da Falcone “il più mafioso dei politici e il più politico dei mafiosi”.

Dopo le sue dimissioni da ministro subentrò al suo posto Giovanni Conso: “Mi chiese un colloquio, mi disse che intendeva muoversi sul solco delle iniziative da me tracciate”. Poco tempo dopo avrebbe però fatto scadere il regime di 41 bis per 373 detenuti mafiosi.

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