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Relazione presentata in data 27 marzo 1992 a Palazzo Trinacria, a Palermo, in occasione della tavola rotonda su "Criminalità, politica e giustizia".

di Paolo Borsellino

Io sono sempre stato estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non tanto parallelo, ma piuttosto alternativo al sistema dello Stato ed è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità. In particolare nell'ordinamento del nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, e sebbene organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi siano anche negli altri stati, il nostro mi pare sia l'unico paese in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l'esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l'esercizio della democrazia. Probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticarlo, come un sistema alternativo, che offre dei servizi che lo Stato non riesce ad offrire.
Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva - e forse ancora continua a trarre, anche se probabilmente in misura minore - i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l'organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza. Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti coloro che abbiamo partecipato a quell'esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, anche in quei momenti ed anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia, se non migliaia di miliardi dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali della criminalità mafiosa, perché la droga non lo era e non lo è mai stata. La caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire di essere il territorio, così come il territorio è parte dello Stato, tanto che lo Stato "è" un territorio e non "ha" un territorio, dato che esso è una sua componente essenziale. La famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena.
Naturalmente si determina un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, seppure con mezzi diversi. Questo conflitto - ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative - si compone normalmente non con l'assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma attraverso il condizionamento o il tentativo di condizionamento dall'interno, delle persone atte ad esprimere la volontà dell'ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni.
La soluzione finale del problema, la finalità cui devono tendere le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso i quali la volontà delle persone fisiche che impersonano l'ente pubblico, di coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, viene condizionata da queste istituzioni alternative.
Chiudere come? Ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che spesso le istituzioni pubbliche non vengano considerate dalle forze politiche come istituzioni dove inviare i migliori che vadano ad impersonarne la volontà, ma piuttosto teatri di lobbies che si azzuffano e si scornano per impossessarsi quanto più possibile di fette di potere per esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di interessi particolari.
Questa è l'accusa che da più parti viene fatta alla "partitocrazia", a quella che da tutti dispregiativamente è così chiamata, ma da tutti sostanzialmente sopportata.
L'occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche delle istituzioni pubbliche crea la strada naturale perché all'interno di queste istituzioni si formino volontà che non sono dirette al bene pubblico ma ad interessi particolari. Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, significa evidentemente chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all'interno delle organizzazioni dello Stato. Certamente questo deve farsi salvando i principi democratici che reggono oggi tutte le nostre istituzioni.
La sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono le legislazioni che regolano, ad esempio, gli enti locali è chiaramente una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto nel migliore dei modi, impedirà l'accesso all'interno degli enti locali di quelle lobbies che vanno lì dentro per provocare, come normalmente provocano, affinché la volontà di coloro che gestiscono le istituzioni sia rivolta non al bene pubblico ma agli interessi di questo o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l'organizzazione mafiosa.

Articolo pubblicato sul numero di ANTIMAFIAduemila maggio 2000

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