di Paolo Borsellino
Testo integrale della relazione svolta dal dottor Borsellino nel corso del Convegno organizzato dalla “fondazione Costa” sul tema “Trasformazione e sviluppo: una sfida alla mafia”, Gela, 17 novembre 1988
1 E’ recentissima la notizia della pubblicazione del primo quotidiano europeo, The European, stampato a Londra, che nel suo numero zero porta in prima pagina una notizia che riguarda la Sicilia: sei omicidi di mafia tra Gela e Palermo, alcuni giorni fa.
Sei uccisi, titola il giornale, alla vigilia di una protesta contro la mafia. Ancora una volta, dunque, pesantemente, la Sicilia è notizia da prima pagina per fatti di mafia, triste primato europeo, se non mondiale, che la nostra isola condivide con le altrettanto tormentate regioni di Campania e Calabria, cioè con quei territori dove, secondo autorevolissime e ufficiali opinioni, il possesso del territorio da parte delle organizzazioni criminali è totale, con la conseguenza che è proprio lo stato che deve, in ogni modo e con tutta l’energia possibile, tentare e riuscire ad infiltrarsi. Che stampa nazionale e internazionale continuino a porre così frequentemente l’accento su tale situazione non è circostanza che deve di per sé dispiacere e scatenare inapprezzabili reazioni di malriposto meridionalismo, del tipo di quelle che in un recente passato eravamo abituati ad ascoltare dalle bocche di autorevoli personaggi, anche investiti di pubbliche funzioni, secondo i quali a Trapani, Catania, Pagani, Reggio Calabria o altrove non c’era mafia ma comune criminalità, eguale a quella di tante altre città del nord, dove invece i giornali e altri manipolatori di pubblica opinione insistevano e insistono ancora nel rappresentare la Sicilia e le altre terre meridionali come luogo di dominio incontrastato di organizzazioni malavitose. Mi sembra che gli anni ‘80, i fatti gravissimi verificatisi in questo decennio e le poderose inchieste giudiziarie espletate abbiano quanto meno prodotto la nascita di una nuova consapevolezza sulla esistenza e pericolosità del fenomeno mafioso, che non giustifica più offese e rigurgiti campanilistici ma globale impegno collettivo, il quale è bene venga sostenuto dalla costante attenzione della pubblica opinione nazionale, che non denigra certo la Sicilia o le altre regioni meridionali quando denuncia i mali che le affliggono, invocandone i rimedi. E, a loro volta, i cittadini di queste regioni, non debbono temere affrettate o superficiali generalizzazioni allorché denunciano ad alta voce essi stessi i loro mali chiamando le loro città “capitali della mafia”, perché le spaccature e le prese di distanza sono insostituibili momenti di crescita civile e oltremodo necessari sono gli steccati da creare tra onesti e malavitosi, tra insofferenti alla convivenza con la mafia e succubi della tentazione alla coesistenza. Ben vengano, pertanto, le denunce e le spaccature. Solo dividendoci aspramente e guardandoci in faccia troveremo la forza di crescere e imboccare la strada per liberarci dai mali che ci affliggono.
2 Se tuttavia le grandi inchieste giudiziarie degli anni ‘80 hanno prodotto, al di là dei loro specifici esiti processuali, questa crescita della coscienza collettiva sul fenomeno e sulla sua pericolosità (e la magistratura siciliana ne rivendica il merito), la rinnovata virulenza delle organizzazioni mafiose, che si rivelano oggi più agguerrite e pericolose di prima, ha cagionato il venir meno di una perniciosa illusione, spesso alimentata ad arte da chi ne aveva interesse e, comunque, sempre denunciata proprio da quei magistrati più impegnati nella repressione delle attività criminali.
Pericolosa illusione, secondo cui la penetrazione e incisiva azione di contrasto di magistratura e forze dell’ordine avrebbe di per sé sola prodotto la “sconfitta” della mafia e la sua scomparsa dallo scenario meridionale. Da qui la inammissibile delega agli organi di repressione di occuparsi, essi soli, della risoluzione del problema e la più inaccettabile delega alla autorità giudiziaria giudicante di sancire in pubblico processo la fine di Cosa Nostra, portando a termine il mastodontico dibattimento di Palermo, organizzato con particolare e spettacolare impiego di mezzi. E alla fine l’ipocrita sorpresa: nonostante il grosso sforzo organizzativo e le laceranti polemiche, cagionate anche dagli interventi legislativi fatti a “bocce in movimento” per consentire l’esito dibattimentale, le organizzazioni criminose si riaffacciavano sulla scena più forti di prima, ancora morti a centinaia e la pubblica tranquillità sconvolta anche in zone ove prima la vita scorreva in modo, almeno apparentemente, più tranquillo. Facile a questo punto insinuare il dubbio che le potenzialità investigative a disposizione erano state sprecate o male indirizzate. Facile sostenere la sostanziale inutilità di così massiccia opera repressiva, facendo intendere che si era soprattutto occupata di archeologia criminale, trascurando gli aspetti più attuali del fenomeno. Facile svalutare l’apporto importantissimo dei cosiddetti “pentiti”, avanzando il sospetto che erano riusciti a strumentalizzare polizia e magistratura indirizzando la loro azione verso boss ormai in disarmo a vantaggio di nuovi equilibri. Facile, infine, disconoscere, se non a parole sicuramente nei fatti, la validità degli strumenti operativi che, nell’assenza di una adeguata legislazione e realizzando delicatissimi equilibri, la magistratura era riuscita a darsi, raggiungendo dopo vuoti investigativi durati troppo a lungo gli unici risultati apprezzabili riscontrabili in tale materia. Verità è che lo strumento repressivo, in genere, e giudiziario in particolare, non poteva e non avrebbe mai potuto da solo risolvere il problema della criminalità mafiosa e neanche contenerlo in limiti accettabili. E non soltanto per i limiti, direi istituzionali, proprio di siffatte azioni repressive (volte all’accertamento dei reati, alla individuazione dei loro autori e alla irrogazione delle relative sanzioni), ma soprattutto a causa delle profonde radici storiche e socio-economiche che la criminalità mafiosa ha nella realtà meridionale e particolarmente siciliana, sicché, non incidendo a fondo su tali radici, con interventi che vanno ben al di là di quelli meramente repressivi e giudiziari, la mafia è destinata sempre a risorgere, anzi a perpetuarsi, adattando la sua sostanzialmente immodificabile natura strutturale e organizzativa ai mutevoli aspetti della realtà socio-economica, per sfruttarne al massimo, a fini di illecito profitto, le disponibili risorse.
3 Mi lasciano, pertanto, estremamente perplesso talune affermazioni, anche recentemente e autorevolmente ribadite, secondo cui l’attuale struttura della mafia sarebbe mal conciliabile con una visione semplificata, quale quella monolitica rigidamente dipendente da alcuni soggetti.
Secondo tale assunto, sarebbe più verosimile ritenere che la “nuova mafia” non è più circoscritta nei limiti dei confini siciliani e che altrove si è spostato il vero centro motore, essendosi ridotta la Sicilia a provincia privilegiata di un più vasto universo mafioso, una sorta di “santuario” mantenuto in vita solo al fine di poter contare su luoghi sicuri per la penetrazione in Italia e in Europa di droga pesante. Tali considerazioni, a mio parere, sono frutto di un equivoco: quello cioè di tenere ormai realizzata appieno l’equazione mafia = traffici di droga , così essendosi ridotta Cosa Nostra a mera organizzazione criminale, anche se di vastissima pericolosità, dedita, come tante altre, in Italia e altrove, alla commercializzazione delle sostanze stupefacenti. Tanto che si è avanzata da taluni dilettanti di criminologia la bislacca idea che la liberalizzazione del consumo di droga comporterebbe, con il venir meno degli enormi profitti che se ne ricavano, la sicura fine di Cosa Nostra. Orbene, nessuno vuole negare che la enorme potenza raggiunta negli ultimi decenni dalla organizzazione mafiosa dipenda soprattutto dalla gestione degli enormi capitali lucrati nel traffico delle sostanze stupefacenti. E nessuno può sognarsi di negare che prevalentemente in dipendenza da tali traffici l’ambito di attività di Cosa Nostra si sia esteso oltre gli angusti limiti dei confini isolani impegnando uno scenario nazionale ed internazionale. Vero è, però, che la mafia esisteva ancor prima di impossessarsi del monopolio di tali traffici, gestiti in un primo tempo in Italia dalle organizzazioni contrabbandiere, e verosimilmente continuerà ad esistere ancor dopo, se gli sforzi congiunti di una organizzazione di contrasto a livello mondiale riuscirà a stroncarli. Anche nei periodi di maggiore espansione e di maggiori profitti derivanti dal traffico della droga l’organizzazione mafiosa, ben consapevole della propria peculiare natura, non ha mai rinunciato a quel rigido controllo del territorio che fa della “famiglia” di Cosa Nostra un vero stato nello stato, perché il territorio e la supremazia su di esso è essenziale per l’esistenza stessa del nucleo criminale come per quella della istituzione statuale. Controllo del territorio che si esercita inserendosi pesantemente nei meccanismi di distribuzione delle risorse, con le tangenti, coi pizzi, con l’accaparramento degli appalti e delle pubbliche commesse, con lo sfruttamento delle aree, con l’infiltrazione, per condizionarli a suo favore, negli organi del pubblico potere, sia politico che burocratico.
4 I colpi giudiziari e repressivi inferti alla mafia, lungi dallo scompaginarne a lungo le fila, hanno invece provocato un fenomeno che è stato definito di “implosione”.
La struttura criminale è divenuta più unitaria e più rigida proprio per assicurare maggiormente un controllo monopolistico del territorio e delle sue risorse, sia perché, come si è detto, Cosa Nostra senza tale controllo non sarebbe più mafia, sia forse per il progressivo diminuire dei proventi dipendenti dal traffico di droga, conseguente non all’abbandono del traffico medesimo, sempre monopolisticamente gestito come recentissime inchieste dimostrano, bensì al ridursi dell’attività di raffinazione, quella cioè che assicurava maggiormente la moltiplicazione dei profitti. Diminuzione dei proventi, non del traffico che ha reso per Cosa Nostra necessario rivolgere nuovamente l’attenzione, mai per altro distolta, a quelle attività meramente parassitarie che un tempo, pur se in ambito economico più angusto, costituivano l’unica fonte di alimentazione dell’affare mafioso. L’implosione verificatasi nell’universo di Cosa Nostra ha comportato probabilmente anche un accentuato processo di semplificazione, non solo all’interno ma anche all’esterno di essa. Non più spazi di autonomia di gruppi o “famiglie” accanto al gruppo egemone e, quindi, la progressiva eliminazione dei precedenti alleati interni e, soprattutto, in periferia, la progressiva riduzione degli spazi di attività storicamente riservati o concessi a gruppi criminali esterni. Mi sembra sia questa la ragione di fondo dell’inarrestabile stillicidio di omicidi che hanno insanguinato vaste aree delle province limitrofe al palermitano, specie quelle di Trapani e Caltanissetta, ormai giunte ai vertici delle lugubri classifiche nazionali sia per valori assoluti sia, con più sinistra evidenza, in valori relativi. Se, pertanto, le più incisive azioni giudiziarie e repressive in genere non sono in grado di infierire decisivi colpi alla tracotanza mafiosa, che ineluttabilmente risorge sempre dalle sue apparenti ceneri, è necessario si prenda atto che il fenomeno va affrontato incidendo a fondo nelle sue radici con una risposta globale dello stato, senza inammissibili ed esclusive deleghe a questa o quella parte del suo apparato e meno che mai a magistratura e forze dell’ordine, la cui sovraesposizione, per tali cause, ha raggiunto in questo decennio limiti intollerabili, con un prezzo di sangue che continua intollerabilmente a essere pagato da coloro i quali finiscono in questa lotta per trovarsi in condizioni di obiettivo isolamento. Più stato. Certo più stato, ma attenzione! Una risposta statuale intensa in termini meramente quantitativi di impiego di risorse umane o finanziarie non risolve il problema e anzi spesso lo aggrava. In un recente incontro svoltosi in Campania ho ascoltato qualificatissimi oratori dichiarare la loro profonda diffidenza verso una profusione di risorse finanziarie che hanno finito per scatenare gli appetiti della camorra, trasformando quelle terre, per il loro accaparramento, in un tragico teatro di sangue. Leggo dei quasi mille miliardi, in valuta di oggi, spesi a Gela dalla Cassa per il Mezzogiorno e di altri 1.873 in arrivo e considero quanto poco queste immani risorse abbiano seriamente contribuito alla rimozione delle cause che danno origine o rendono sempre più tracotanti le organizzazioni mafiose, che scatenano invece sanguinose battaglie per inserirsi pesantemente nei meccanismi di redistribuzione. Ed è noto quali timori si nutrono a Palermo per l’attenzione immancabile di Cosa Nostra al fiume di finanziamenti che si apprestano a riversarsi sulla città.
5 In realtà bisogna prendere atto che il sottosviluppo economico non è, o non è da solo, responsabile della tracotanza mafiosa, che ha radici ben più complesse, tanto da far definire in studi recenti la mafia non il prezzo della miseria ma il costo della sfiducia.
Per altro già nel lontano 1876 Leopoldo Franchetti, nello scrivere quello che ancor oggi rimane uno degli studi più coerenti ed esaurienti sulla mafia siciliana e il suo ambiente, individuava due insiemi di cause tra loro collegate. Il primo riguarda l’assenza di un sistema credibile ed efficiente di amministrazione della giustizia. Il secondo si riferisce a una mancanza di fiducia di tipo economico. Ambedue le cause, che possiamo ritenere ancor oggi operanti, importano l’assenza di un apparato statuale credibile sia nel dirimere le controversie naturalmente nascenti dalle private contrattazioni, sia nell’assicurare che tali contrattazioni possano svolgersi in clima di reciproca affidabilità. A sua volta l’arretratezza economica chiude ogni altra via di sfogo all’attività dei privati. L’unico fine, osserva Franchetti, che ciascuno può proporre alla propria attività o ambizione è quello di prevalere sopra i propri pari (“il nemico è chi fa il tuo mestiere”, sostiene un proverbio siciliano). Il desiderio di prevalere sopra i propri pari, congiunto all’assenza di uno stato credibile, non può condurre alla normale concorrenzialità di mercato: la pratica che si diffonde non è quella di far meglio dei propri rivali ma di farli fuori. In questo contesto, osserva Franchetti, si cominciano a capire i motivi per cui i mafiosi non emergono come delinquenti comuni che agiscono isolatamente in conflitto con la popolazione. Parte della pubblica opinione li ritiene in Sicilia più che altro degli uomini capaci di esercitare privatamente quella giustizia pubblica su cui nessuno più conta. Quanto di questi concetti conservino ancor oggi gran parte della loro validità emerge in modo inquietante da talune ricorrenti invocazioni alla mafia o a suoi supposti qualificati esponenti verificatesi in occasione di pubbliche dimostrazioni indette per protestare contro asserite ingiustizie sociali o economiche. Analogo aspetto è quello della compenetrazione tra delinquente e vittima che tipicamente si realizza in una delle attività più caratteristiche della mafia, cioè l’offerta di protezione a scopo estorsivo. Infatti, l’aspetto più singolare della estorsione mafiosa è la difficoltà di distinguere le vittime dai complici e il fatto che tra protetti e protettori si stabiliscano legami piuttosto ambigui. La violenza dell’estorsione e gli interessi personali delle vittime tendono a confondersi e a formare un insieme inestricabile di motivi per cooperare. Il vantaggio di essere amici di coloro che estorcono denaro e beni non è quindi solo quello di evitare i probabili danni che seguirebbero un rifiuto ma, in certi casi, può estendersi a un aiuto per sbarazzarsi di concorrenti scomodi. E quanto ai rapporti con la pubblica amministrazione, quale migliore alleato di colui o di quella organizzazione che garantisce un rapporto di “fiducia” nei confronti di un pubblico apparato ritenuto non credibile o non affidabile? Secondo quanto riferito dalla stampa, proprio la più alta autorità regionale ha denunciato “che ci troviamo in presenza in molte Usl e in molti comuni di spinte fortissime, dirette e ravvicinate, da parte di centri criminali che tentano di intervenire come gruppi di pressione, decisivi addirittura nella formazione degli esecutori. L’obiettivo è il controllo del notevole flusso di risorse che questi organismi decentrati amministrano. C’è una pressione sempre maggiore che aree di criminalità organizzata realizzano nei confronti dei punti di decisione e di utilizzo delle risorse”. In tale situazione, così autorevolmente denunciata, quale migliore brodo di colture per organizzazioni che traggono la loro forza dalla inefficienza dell’apparato pubblico e dalla sua incapacità di essere ritenuto meritevole di imparziale “fiducia”?
6 Il nodo è pertanto essenzialmente politico. La via obbligata per la rimozione delle cause che costituiscono la forza di una organizzazione criminale (ora anche militarmente ed economicamente potentissima perché detentrice dei proventi del traffico di droga) passa attraverso la restituzione della fiducia nella pubblica amministrazione.
Nessun impiego, anche massiccio, di risorse finanziarie produrrà benefici effetti se lo stato e le pubbliche istituzioni in genere non saranno posti in grado e non agiranno in modo da apparire imparziali detentori e distributori della fiducia necessaria al libero e ordinato svolgimento della vita civile. Continuerà altrimenti il ricorso e non si spegnerà il consenso, espresso o latente, attorno a organizzazioni alternative in grado di assicurare egoistici vantaggi. Fiducia nello stato significa innanzi tutto fiducia in una efficiente amministrazione della giustizia, sia penale sia civile. Registriamo evidentemente con soddisfazione, l’introduzione del nuovo codice di procedura penale, sia perché sostituisce un insieme di norme di rito ormai sclerotiche e disorganiche, sia perché l’adozione del sistema accusatorio, che entrerà in vigore alla fine del 1989, costituisce fuori di ogni dubbio una conquista di civiltà giuridica. Tuttavia sia ben chiaro che il nuovo rito non potrà funzionare e la sua adozione creerà gravissimi e irresolvibili problemi se non sarà accompagnata da un adeguato potenziamento delle strutture e da una razionalizzazione del sistema. La magistratura associata ha da tempo posto questi problemi all’ordine del giorno e registra con particolare soddisfazione che sulla gravità di essi concordano le organizzazioni degli avvocati e i sindacati di categoria degli ausiliari di giustizia, unitamente ai quali è stata indetta “una giornata nazionale della giustizia” con assemblee che si svolgeranno in tutti i distretti sui seguenti argomenti: provvedimenti relativi al personale amministrativo; provvedimenti urgenti per il processo civile; patrocinio dei non abbienti; revisione delle circoscrizioni; edilizia giudiziaria; programma di informatizzazione giudiziaria. Trattasi di un nucleo limitato di problemi, la cui risoluzione costituisce tuttavia un minimum indispensabile per ridare credibilità a una amministrazione della giustizia cui nelle condizioni attuali più nessuno fa affidamento, col rischio, specie in Sicilia, che si perpetui e consolidi il ricorso ad un sistema alternativo criminale di risoluzione delle controversie. Fiducia nelle istituzioni significa soprattutto affidabilità delle amministrazioni locali, quelle cioè con le quali il contatto del cittadino è immediato e diretto e che attualmente risultano incapaci di gestire la cosa pubblica senza aggrovigliarsi negli interessi particolaristici e nelle lotte di fazioni partitiche. La loro riforma non è più procrastinabile, poiché altrimenti, come emerge dalle allarmate denunce del presidente della regione, resteranno i veicoli principali delle pressioni mafiose e delle lobbies affaristiche loro contigue. Passano anche attraverso queste vie obbligate le direttrici di lotta alla criminalità mafiosa. Una sfida che lo stato deve vincere perché è in grado di farlo e perché questo aspettano le nuove generazioni, che tutte ormai si dimostrano, anche clamorosamente, desiderose di vivere in un mondo migliore del nostro. Esse ci richiedono questi impegni e questi sacrifici.
Articolo pubblicato sul n°1 aprile 2000
Paolo Borsellino
Mafia: il nodo politico
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